NET10 La città muta, #2 / E06

Amazonville

Le città sono gestite come fossero aziende, benvenuti a Amazonville!

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È difficile immaginare un momento peggiore, o migliore, per ripensare l’intelaiatura della città. Nel dipingere mentalmente la forma attuale, quello che vediamo è un attimo congelato nel tempo. A causa della pandemia, la città scorre diversamente. Quelle che sono le sue arterie principali, le strade sopra il livello del suolo, sono sfitte da quasi ogni movimento. La bolletta scaduta e il traffico rinviato a data da destinarsi. 

L’intelaiatura è da intendersi proprio come scheletro d’infrastrutture e condotti, di servizi e flussi che sovrintendono la città e ne costituiscono il corpo. Correnti di persone e capitali, merci e corse senza fiato. Ma non sono nient’altro che vettori che si agitano dentro a uno spazio più o meno definito. E è quest’ultimo quello che ci interessa.

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Fernand Braudel evidenziò a più riprese quanto la nascita del capitalismo, e degli stati-nazione se è per questo, fosse comprensibile soltanto in riferimento a questo elemento: lo spazio. A delineare l’avvento di quella forma vorace di modernità, infatti, era stato proprio l’arrivo di un’epoca in grado di appropriarsi di ogni angolo apparentemente disponibile al mondo. E, ovviamente, capace di organizzare e raffinare al meglio gli scambi commerciali che potevano potenzialmente avvenire all’interno di quei segmenti di territorio. Vendere e essere venduti.

In questa fase, lo sviluppo della potenza dell’attore politico-economico e della propria capacità di agire su una portata e una frequenza sempre più ampie sono legate a doppio filo a questa colonizzazione di tipo eminentemente spaziale. 

Il profitto si ottiene sfruttando la circolazione di beni e di denaro sulla scala più massiccia possibile. 

Nient’altro che logistica, cartografia e mercati… Persino quando quello spazio si riverbera sulla pelle, letteralmente, dei singoli. 

È per questo che oggi questo dispiegarsi di mezzi e persone, per quanto certamente rimanga centrale, a guardarlo da qui e ora suona quasi come una presenza fantasmatica, nient’altro che ideale o idealizzata. Lo spazio implode e scompare nel nostro isolamento casalingo e pandemico. Le merci sembrano autotrasportarsi in un vuoto uranico e metafisico. Non di certo per un tecnocratico e geniale colpo di genio in forma di teletrasporto quantistico, sia chiaro. Piuttosto, perché siamo abituati talmente a dare per scontata l’equivalenza tra lo spazio e le merci e i servizi, da non riuscire a ammettere una prospettiva che ne sia spogliata. Se il mondo si ferma, la visione che ne abbiamo muore.

Non riusciamo a capire come si possa vivere senza ‹far girare l’economia›. Da cui i malumori dei soliti noti, per esempio Confindustria e lo stato, e di tanti meno comprensibili apparati teoricamente di sinistra, che nell’emergenza pandemica continuano a appoggiare e introiettare lo statuto autocratico del principio economico. O, meglio, del Principe mercantile. Seppure di fronte a una sospensione del vivere civile, il denaro non si ferma, non dorme mai, resta vigile sulle nostre notti come un vigilante in calzamaglia e un po’ tocco. 

Mentre tutto questo succede, però, intanto che il momento del COVID-19 impazza sulla scena, le forme materiche della città rimangono uguali a loro stesse. I cantieri immobili, almeno fino a qualche istante fa. Nei miei paraggi, questo si traduce in qualche lavoro lasciato in sospeso, come per esempio un manto stradale che è un saliscendi di abissi e colli e barriere, benché si trovi nei pressi di un ospedale. Oppure lo si scopre in un giro mancante di verniciatura delle strisce pedonali. Oppure ancora, a un livello più ‹privato›, in un cancello condominiale guasto e non ancora aggiustato. 

Vivo alla periferia di una grande città. Un quartiere schiacciato tra l’imbocco dell’autostrada, le risaie e la periferia più popolare. I miei condomini e i nostri palazzi, di tre diverse cooperative diverse, si sentono sotto assedio e vivono così. Sembriamo asserragliati come nel Distretto 13, di Carpenter. Pronti al peggio. Non si sa cosa ci stia assediando. Durante il giorno, il corridoio e il giardino che uniscono tutti i palazzi, come un’arteria principale, dovrebbero rimanere sempre aperti. È terreno del demanio, in fondo, luogo di scalpìccio per il Comune e i suoi abitanti.

Nei fatti, i cancelli sono spesso chiusi. A quei cancelli si può accedere solo con un’apposita chiave magnetica, che corrisponde individualmente ai singoli nuclei famigliari. Dall’alto abbiamo un buon numero di telecamere che presiedono gli ingressi e i box, puntando l’interno dello spazio condominiale (ma solo perché l’esterno è appannaggio di un occhio considerato, solo lui, solo questo, voyeuristico e dunque messo ipocritamente al bando per legge). Abbiamo anche un servizio di guardiania notturna. Nei primi mesi della mia permanenza in questa nuova casa, sono stato fermato dal servizio di sicurezza. Tarda notte, un ubriaco al cancello, qualcuno che armeggia malamente all’ingresso.

Come riportato in Our Digital Rights to the City, di Joe Shaw e Mark Graham e pubblicato dalla Meatspace Press (Il nostro diritto digitale alla città, Openpolis), una situazione simile era stata prevista da Gilles Deleuze. Il quale, nel suo saggio del 1992, Poscritto sulle società di controllo, individua qualcosa di inquietantemente simile. 

Félix Guattari immaginava una città in cui ciascuno potesse lasciare il proprio appartamento, la propria via, il proprio quartiere, grazie a una personale carta elettronica […] capace di rimuovere questa o quella barriera; ma, d’altro lato, che la carta potesse essere respinta il tale giorno, o a una tale ora; quello che conta non è la barriera, ma il computer che individua la posizione di ciascuno, lecita o illecita, e opera una modulazione universale. 

E persino l’autore del pezzo, Jathan Sadowski, si è trovato a vivere un’esperienza non troppo diversa.

Non si tratta solo dell’evocazione un po’ esotica di una realtà lontana centinaia di chilometri, in qualche cantuccio residenziale per la buona borghesia delle Americhe pericolanti. Ma la realtà vera e fattuale di una città italiana, oggi. Quelle stesse città che, come fatto notare nel fondamentale La buona educazione degli oppressi, di Wolf Bukowski, sono spesso preda di una smania del decoro che rima col pregiudizio sociale di classe e con una logica securitaria da staterello dittatoriale e fascista. Un realismo dell’immagine superficiale che condanna, a raggiera, chiunque non le appartenga e non possa permettersi altrimenti.

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Si pensi alle cosiddette pratiche di architettura ostile, che costringono i soggetti più in difficoltà, come i senzatetto, a allontanarsi ogni giorno un poco di più dal corpo della città. Se ci si ferma a pensare un attimo, non è nient’altro che un tentativo di ripensare l’ecologia dello spazio urbano in negativo. Là dove dovrebbero esserci relazioni e legami, e la loro indagine, si formano tagli e rotture nell’organismo sociale.

In una di quelle notti ubriache, di ritorno e un po’ in ansia, ho ripescato un paio di libriccini utili a farsi una grottesca risata. Entrambi straordinari, a modo loro leggeri e seriosissimamente cazzoni. Passate le forche caudine, ancora brillo, ho aperto le pagine di Snow Crash di Neal Stephenson e quelle di Votate Robinson per un mondo migliore, di Donald Antrim. Si tratta in tutti e due i casi di scrittori funambolici, virtuosi e spietati. 

Da una parte abbiamo un panorama che ridicolizza il cyberpunk per rintracciarne la radice nel dominio del linguaggio e nella necessità di una rivoluzione culturale e discorsiva, in mezzo a una congerie infinita di stati e staterelli, di quartieri-nazione e patrie ammollo nel mare. Dall’altra un orizzonte di borghesissime casette a schiera lanciate sulla battigia di una cittadina balneare e sull’orlo di una violenta frammentazione sociopatica.

Il punto di raccordo sta nel modo in cui i due guardano alla comunità e alle città che la ospitano. Un luogo irredento, il terreno di caccia per un organismo predatorio. Da una parte un magnate dei media, che potrebbe essere benissimo l’Elon Musk di oggi con le sue magliette firmate ‹Occupy Mars›, dall’altra un’intera classa sociale pronta letteralmente a scannarsi a vicenda. Qui, nel mezzo, c’è il nostro presente attualmente in costruzione: un racconto di Burroughs o Ballard tracciato nelle nostre vite.

La storia è narrata tramite l’esperienza quotidiana di ognuno di noi, che va formandosi intorno all’idea di una città ‹smart›, ovverosia dotata di un attributo d’intelligenza macchinica e funzionale alla soddisfazione dei nostri presunti desideri. Un sistema composto da sistemi, e altri sistemi ancora, ognuno monitorato, gestito e misurato a ogni passo: un nuovo ordine tecnopolitico che è calato sul groppone della società e della comunità. Un atto in fieri e avviato verso il compimento definitivo.

Il modo più facile per vederlo in questi giorni è stato quello di osservare i droni, gli obiettivi e i media a caccia di chi rompeva la quarantena e lo stato d’emergenza. Ogni occhio portava in sé lo stesso obiettivo riflesso di sorveglianza e implicita punizione. Un altro modo per notarlo, più sibillino, è stato quello di notare le reazioni dei grandi servizi della distribuzione e della logistica, in un tutt’uno con il mercato neoliberista di cui sono una parte fondante. Sulla strada e nell’etere, il sogno è lo stesso: più controllo, una migliore e ferrea amministrazione della cosa pubblica. Dove qui si intende con ‹cosa pubblica› non l’interesse della massa e della maggioranza, bensì quello personale e privato intorno al quale viene modulato tutto il resto della città e della comunità.

Qualche lustro fa, il miglior riassunto ce lo fece il Berlusconi Presidente del Consiglio, equiparando la realtà dello stato a quella dell’azienda e del manager. 

In pochi erano stati così chiari, prima. Oggi, la replica arriva da Trump, così come dall’incredibile forza computativa e economica messa in campo da aziende simbolo del contemporaneo, quelle stesse realtà viste con sommo pericolo e disprezzo in tanta narrativa cyberpunk: zaibatsu, conglomerati industriali e finanziari transnazionali e al di sopra di ogni potentato statale. 

Nell’apertura del godibilissimo How To Run a City Like Amazon, and Other Fables (sempre per Meatspace Press), la questione è posta esattamente in questi termini, citando un articolo redatto da un politico e un imprenditore americani: 

‹Le città dovrebbero operare più come Amazon per servire al meglio i propri cittadini.› 

Cosa questo implichi è presto detto. Ovvero, una pletora di città considerate alla stregua di un unico enorme esercizio commerciale, e i suoi amministratori e politici nient’altro che manager e uomini d’affari. 

Il benessere del singolo e della comunità vengono così abbandonati e svuotati di senso, in favore di una logica del guadagno facile e del profitto terminale. Città, e stati, gestiti come se si trattasse di aziende quali Amazon, appunto, ma anche Facebook, Google, Disney e via dicendo. E, in questo cortocircuito di senso tra pubblico e privato, interesse individuale e collettivo, a farla da padrone troviamo le piattaforme e le architetture dal design più vario. Lì, dove il servizio è merce, questi strani iperoggetti aziendali diventano anche ricettacolo sociale e culturale. 

Per questo, proprio How To Run a City Like Amazon si presenta come un formidabile manuale dell’immaginazione e un esercizio di fantasia speculativa e saggistica come ne troveremo pochi altri. E come pochi altri riesce a regalarci una spiegazione al presente e una valvola di sfogo per imparare a combattere il Leviatano. Nel volume, sono stati raccolti 38 diversi contributi da 38 diversi autori. Testi che di volta in volta assumono le forme di brevi storie e piccoli saggi. O, spesso, di entrambi. A ogni racconto corrisponde un’ipotesi: 

cosa succederebbe alla città se a gestirla fosse la logica imprenditoriale di…? Seguono i nomi di 38 diverse aziende. 

Oltre ai colossi già citati, potrete trovare Apple, Cambridge Analytica, Deliveroo, EasyJet, Ikea, Instagram e molti altri. Volendo, il volume è disponibile gratuitamente, in pdf, qui. Ma i contributi e il sostegno sono ovviamente ben accetti e consigliati.

E, a conferma di quanto questa battaglia sia importante, a insistere sull’articolazione spaziale del Capitale troviamo anche David Harvey, quando afferma ‹Il diritto alla città consiste in molto più della libertà individuale di poter accedere alle risorse urbane: è il diritto di cambiare noi stessi, cambiando la città.› 

Personalmente, vorrei partire cambiando quel cancello e togliendo quelle telecamere. Ma, nell’immediato, sono rimasto fuori di casa. Non è l’ingresso a essere guasto, ma tutto quello che lo circonda.