EDITORIALE #9, MEDIA

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Questo è l’ultimo volume di menelique magazine, il #9. Non è l’ultimo solo nel senso del più recente, ma rappresenta la chiusura delle nostre pubblicazioni. 

Questa volta il lavoro è stato doppio, perché abbiamo voluto ringraziare con una sorpresa chi ci ha sostenuto. Abbiamo scelto gli articoli pubblicati dal #1 al #9 che più ci hanno stimolato, per raccoglierli in un altro volume, un numero speciale: Selezione 2019-2023. In quella collezione, più che cercare di unire i pezzi più letti dei numeri precedenti, abbiamo esplorato quei legami tra parole e immagini che ci hanno permesso di evocare i diversi sensi del nostro cammino nell’editoria. Sono così nate le cinque sezioni della Selezione: DIASPORE, ECO-LOGICHE, GENIUS LOCI, LUDICA, SAPERI. Tra questi mancava però il tema che più sta formando la contemporaneità e le idee di futuro, e che in fondo riguarda il nostro operato come rivista indipendente, vale a dire i MEDIA. Ecco perché abbiamo deciso di salutarvi con un numero sui nuovi media, sull’editoria libraria e periodica, sull’informazione e sulle vite precarie di chi lavora nella cultura.

Illustrazione di Davide Bart. Salvemini

Secondo Leila Belhadj Mohamed, il linguaggio usato dai media occidentali descrive le culture arabofone con gli stereotipi dell’orientalismo: tutto ciò che non è occidente è arretrato. Non ne sono esenti le policy di moderazione dei social media, che mantengono quei cliché coloniali oscurando i contenuti di attivistə palestinesi. Per questo si parla di Orientalismo digitale e diventa sempre più urgente il bisogno di decolonizzare i media. 

Eleonora Castagna

Chiunque sui social ha sperimentato La lingua dell’odio, o Hate Speech, che sembra avere un rapporto complesso con i nuovi media. Secondo la linguista Gloria Comandini, l’odio non è di certo nato sul web, ma lì ha assunto nuove forme e ha trovato una cassa di risonanza.

Illustrazione di Lia Tuia

Se da una parte l’italiano medio sul web odia, dall’altra la sua attività principale sembra quella di soffrire in maniera grottesca quando si mette la panna nella carbonara. Ma come racconta Alberto Grandi in The Truman Chef, questo nazionalismo verso la cucina italiana è nato tra gli anni 70 e 80 grazie ai mass media, che hanno costruito il mito identitario della nostra tradizione culinaria, la quale fino a quel tempo non godeva di alcuna reputazione internazionale.

Illustrazione di Eleonora Castagna

Tuttavia, tra onnipresenza, neocolonialismo, diffusione dell’odio e identitarismo, il panorama mediatico odierno ha anche permesso una autorappresentazione delle persone disabili da sempre assente nei media tradizionali. Secondo Robin Wilson-Beattie, mentre la televisione ha descritto le persone disabili con pena e vergogna, o come se fossero prive di sessualità, lə creator disabili su Instagram, TikTok e Twitch grazie alle loro Abilità digitali mostrano in modo autentico le proprie vite, informano sull’uso inclusivo di un linguaggio rispettoso delle disabilità e raccontano esperienze negative di abilismo, socializzando quelle difficoltà che altrimenti resterebbero private.

Illustrazione di Carol Rollo

Ma che si tratti di odio, abilismo o orientalismo digitale, ciò che vediamo nelle timeline viene scelto da Torbidi algoritmi, che vengono descritti come imperscrutabili, nonostante le piattaforme intervengano spesso per modificarne i risultati. Per Riccardo Coluccini, il potere che deriva da questa manipolazione fa gola non solo alle BigTech, ma anche ai governi, i quali mantengono l’esistenza di oligarchie digitali per controllare facilmente la visibilità delle informazioni. 

Illustrazione di Gianluca Chiavassa

Tutto ciò che abbiamo approfondito in questo volume non sarebbe possibile senza i cavi sottomarini che permettono l’esistenza di Internet. Carolina Polito descrive la lotta per il controllo di queste infrastrutture, che passa per la costruzione, da parte della Cina, di una nuova Via della seta digitale in Africa. La lunga coda del dragone sta cercando di competere con un consorzio di aziende private statunitensi per il dominio della rete africana. 

Illustrazione di Edoardo Marconi

Questa presenza materiale delle tecnologie sta diventando pervasiva anche negli ambienti della formazione. A scuola infatti sembra che l’educazione ai media si risolva nell’insegnamento pratico dell’uso di LIM e tablet. Ma per Rosy Nardone, che ci porta A scuola di media, la Media Education dovrebbe promuovere il pensiero critico e una cittadinanza attiva, insegnando a stare insieme nel mondo online e onlife

Illustrazione di Erica Borgato

Chi cerca attenzione mediatica per sollevare la questione del secolo, cioè quella ambientale, sono lə attivistə di Ultima Generazione: tirare una passata di piselli sul vetro protettivo del Seminatore di Van Gogh è un gesto d’amore verso quell’artista. Il vero disturbo che si crea è quello a La cattiva coscienza collettiva che deriva dal senso di colpa per come è stato ridotto l’ambiente in cui viviamo. E della stessa opinione è Daniele Ferriero, che ha intervistato Guillaume Pitron, giornalista d’inchiesta che da anni indaga le ripercussioni negative del digitale sulle nostre vite e sull’ambiente. Internet: cronaca di un inquinamento annunciato è il primo dei due Episodi online di questo numero (pubblicati su menelique.com in libera consultazione), al quale si aggiungerà Non è un mestiere per giovani, un pezzo di Alessia Gasparini sul precariato nel mondo del giornalismo. 

Illustrazione di Carol Rollo

Oltre ai social, il medium che sembra macinare più profitti è il videogioco. Secondo Matteo Lupetti però il gaming non conta niente, nel senso che raccoglie attenzione solo nel suo ricordare altri linguaggi più prestigiosi, come la letteratura, mentre al gioco e a chi gioca non viene riconosciuta dignità e rilevanza culturale. Ma se oggi è il videogioco a occupare il tempo libero della classe lavoratrice globale, qualcosa dovrà pur contare.

Immagini da Candy Crush Saga

La sezione di approfondimento di questo volume, PUBLICA, è dedicata al nostro mondo, quello dell’editoria. Le prospettive su questa realtà sono diverse e troppo spesso conflittuali. Abbiamo cercato di strutturare una sottosezione che potesse accoglierle tutte, dando spazio a una casa editrice, a una libreria/edicola, a una freelance che fa parte della classe creativa, e a due ricercatorə.

Con Trovare un libro, la casa editrice effequ racconta la propria storia descrivendo l’attuale sistema editoriale, che sembra pensato per rendere la vita difficile a chi, i libri, li fa. Nell’ingranaggio della macchina distributiva, il piacere della lettura finisce per smarrirsi, ma l’editoria resta un mestiere del tutto politico, fin dal suo principio.

Illustrazione di Gianluca Chiavassa

Secondo Antonio Brizioli, che ha partecipato alla fondazione dell’edicola più famosa d’Italia (Edicola518), se oggi le librerie sono tutte indipendenti ma anche tutte uguali, è colpa dell’omologazione culturale e della distribuzione editoriale. Venire dal basso non è garanzia di virtù e non lo è essere indipendenti. Con una serie di suggerimenti per creare un sistema editoriale collaborativo e autentico, ci invita a non disperare, assicurandoci che C’è vita fuori dalla distribuzione.

Illustrazione di Erica Borgato

Silvia Gola, esponente di Redacta, nel suo articolo sulla classe creativa del mondo editoriale, sceglie di scrivere in Prima persona plurale. Chi lavora nella cultura, che sia editor, graphic designer, giornalista o podcaster, spende una fortuna per formarsi, ma vive tra precariato e forme contemporanee di francescanesimo per le quali le ore di lavoro non sono proporzionate al guadagno. 

Illustrazione di Edoardo Marconi

Infine in DOI ut des Eleonora Priori e Daniele Gambetta si concentrano su un settore poco discusso, ma centrale nella produzione culturale: l’editoria accademica. Per chi fa ricerca la corsa al DOI, il codice assegnato agli articoli scientifici quando vengono pubblicati, è simile alla febbre dell’oro, perché pubblicare significa mantenere il lavoro. Ma questo porta a una ricerca di scarsa qualità e fa il gioco delle case editrici accademiche che lucrano sui frutti della ricerca pubblica.

Illustrazione di Lia Tuia

Anche in questo numero abbiamo ospitato un racconto e un testo narrativo sperimentale, rispettivamente di Frances Ogamba e Emanuela Cocco, così come una conversazione di Giovanna Maroccolo con l’artista Juan Pablo Macías, la carrellata di recensioni di oggetti editoriali K:ROOM e la sottosezione DIALOGO. 

Pensare che queste sono le ultime parole che scrivo per menelique fa male, ma avere la certezza di raccogliere affetto e sostegno nel caso in cui dovessimo riuscire a fondare una casa editrice non può che darmi fiducia. Grazie a tuttə per aver permesso l’esistenza di questo esperimento editoriale.

 

Indice:

Editoriale
di Giovanni Tateo
Abilità digitali
di Robin Wilson-Beattie
Orientalismo digitale
di Leila Belhadj Mohamed
La lingua dell’odio
di Gloria Comandini
La lunga coda del dragone
di Carolina Polito
Torbidi algoritmi
di Riccardo Coluccini
La cattiva coscienza
di Ultima Generazione
A scuola di media
di Rosy Nardone
The Truman Chef
di Alberto Grandi
Gaming che non conta
di Matteo Lupetti
L’eroe in pericolo (fiction)
di Frances Ogamba
Cosa (fiction)
di Emanuela Cocco
Prima persona plurale
di Silvia Gola
C’è vita fuori dalla distribuzione
di Antonio Brizioli
DOI ut des
di Eleonora Priori e Daniele Gambetta
Trovare un libro
di effequ
Juan Pablo Macìas
di Giovanna Maroccolo
Kulture Room
di Daniele Ferriero
Marco Petrelli 
Martina Neglia
Danilo K. Kaddouri 
Marcello Torre
Poste in gioco
di Redazione


Indice Episodi online (su menelique.com nelle prossime settimane):

 Internet: cronaca di un inquinamento annunciato
di Daniele Ferriero e Guillaume Pitron
 Non è un mestiere per giovani
di Alessia Gasparini

Immagini di:

  • Davide Bart. Salvemini
  • Erica Borgato
  • Eleonora Castagna
  • Gianluca Chiavassa
  • Edoardo Marconi
  • Carol Rollo
  • Lia Tuia

EDITORIALE #Speciale, SELEZIONE 2019-2023

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L’errore più grande che può commettere chi ama le riviste è decidere di fondarne una. 

Nasce l’idea, seguono le parole che vuoi mettere nero su bianco, una pletora di possibilità, tutto è da costruire, luminoso, Che argomento scegliamo per il primo numero? Carta patinata o naturale? E il logo? Il logo! Le prime stampe, il tuo nome in bella vista, le presentazioni e ti mettono in mano un microfono, gli applausi addirittura! Tutte le copie esaurite e di anno in anno aumenta la tiratura, così come la comunità editoriale che ti sostiene e che aspetta il tuo prossimo lavoro.  

Ma poi arrivano loro: il commercialista e le fatture, la logistica, il customer care, le ore di lavoro di notte, gli screzi, le consegne sempre troppo vicine, le paghe basse o inesistenti, il sistema editoriale-distributivo che sembra fatto apposta per escludere le realtà indipendenti dal giro che conta. 

Nonostante questo, non è detto che fondare una rivista sia un errore da evitare. Come tutti i progetti che possono essere realizzati solo grazie all’entusiasmo di una pluralità di persone, una rivista ti porta dove non avresti mai immaginato, inizia a scegliere lei il percorso che farà, poi cambia strada e torna sui suoi passi, infine muta di nuovo assieme alle persone che la fanno e a quelle che la leggono. E tu la osservi, provi a assecondarla, ma sai che ormai gode di vita propria. 

In fondo il termine ‹errore› deriva da ‹errare›, nel senso di ‹vagare›, un po’ qui e un po’ lì, senza una meta precisa, senza un percorso predeterminato che ottimizzi le distanze percorse e le energie spese. Ma che male c’è nel girovagare? 

A meno che non ci si ponga in una prospettiva rigorosa, per la quale conta solo massimizzare il risultato, risparmiare risorse, ridurre costi e tempi, allora si deve sperare di sbagliare, vagabondando senza meta, ma con convinzione e animo leggero, in attesa che il senso del proprio percorso venga fuori da sé, meravigliandoti. 

È questo il tipo di meraviglia che ho provato rileggendo le nostre pubblicazioni, mentre stavamo preparando questo numero speciale, la Selezione 2019-2023. Gli articoli che abbiamo selezionato in questa collezione non sono i migliori, i più letti o i più dibattuti, sono quelli che hanno mostrato delle affinità tra loro, un’aria di famiglia che ci ha permesso di evocare la nostra linea editoriale in queste pagine. Sono così nate le cinque sezioni del volume: DIASPORE, ECO-LOGICHE, GENIUS LOCI, LUDICA, SAPERI. 

Illustrazione di Erica Borgato

Apre questo numero Alessia Gasparini, che nel #5, DIASPORA, ha raccontato il suo viaggio Dentro la Jugosfera, quella comunità immaginata da chi è nato nella Jugoslavia delle sei repubbliche, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito. 

Illustrazione di Moju Manuli

Anche il pezzo di Benedetta Pintus, Il ritorno delle brùscias, fa parte del #5. In Sardegna le brùscias erano donne definite streghe perché libere, scomode e custodi di poteri dimenticati. Le giovani donne sarde, grazie al femminismo postcoloniale, si stanno riappropriando della cultura, della lingua e della storia sarda, per smettere di essere considerate marginali.

Illustrazione di Erica Borgato

Illustrazione di Gianluca Chiavassa

La stessa sezione contiene altri due articoli tanto personali quanto politici, entrambi sul meridione italiano, scritti da Claudia Minchilli e da Irene Costantino, e pubblicati sul #8, SUD: Io non parlo meridionale è una riflessione sulla diaspora meridionale, che impone di chiederci chi siamo, che cosa siamo diventatə e che cosa è il Sud. Morire a Sud invece denuncia la malasanità in Calabria, ricordando che puntare il dito solo verso mafie e sprechi fa dimenticare che la negazione del diritto alla salute risponde agli interessi della sanità privata e degli ospedali del nord. 

Illustrazione di Carol Rollo

Illustrazione di Nidhin Donald

Illustrazione di Zhigang Zhang

La sezione successiva, ECO-LOGICHE, ospita tre articoli del #6, a tema ambiente. Sarah Gainsforth in Oltre il verde urbano descrive la promozione del green nelle nostre città come parte di processi di ecogentrificazione, greenwashing e turistificazione; mentre Prakash Kashwan decide di Affrontare l’imperialismo verde proponendo un’analisi dell’eredità coloniale dell’ambientalismo mainstream, a partire dalle sue radici illuministe fino al concetto di antropocene. Infine la componente antispecista è rappresentata da Non è tua figlio, con cui Claudia Marini sottolinea come la voglia di portare i cani nelle nostre abitazioni e di considerarli membri della famiglia abbia abbassato la loro capacità di gestire spazi e socialità. 

Illustrazione di Erica Borgato

Illustrazione di Carol Rollo

Illustrazioni di Davide Bart. Salvemini

GENIUS LOCI, il segmento centrale di questo volume, è dedicato ai territori e al turismo. Con Leggo Napoli (#8) la casa editrice Tamu racconta il suo percorso e mostra come il fare cultura sia sempre più difficile, soprattutto nel Mezzogiorno, a causa di un sistema editoriale iniquo di un’Italia in cui leggere è diventato un privilegio. Della Sardegna e dell’invenzione della sua Costa Smeralda tramite un’operazione di marketing, se ne parla in Il vostro paradiso è la nostra casa (Pintus, #8); mentre del Turismo esperienziale che cerca l’origine autentica del frutto più puro, del vino più naturale e del pane come una volta ne discute ancora Gainsforth (#2, LA CITTÀ MUTA). 

Illustrazione di Riccardo Di Stefano

Illustrazione di Davide Bart. Salvemini

La sezione più breve di questo volume, LUDICA, è dedicata ai due articoli di Matteo Lupetti sull’industria videoludica: pensato come diverso dal lavoro, il videogioco al contrario non fa che riprodurre le caratteristiche del capitalismo contemporaneo: quantificazione, miglioramento delle abilità, ripetitività (Videogiocare stanca, #1, I FUTURI DEL LAVORO); e se portato nelle scuole si trasforma in gamification dell’istruzione, che ha lo scopo di catturare l’attenzione di studenti per aumentarne la produttività e la disciplina (Gamificando non si impara, #3, LEZIONI PERDUTE).

Illustrazione di Nadia Pillon

Illustrazione di Erica Borgato

Illustrazione di Ary Uvas

L’ultima parte di questo speciale è anche la più corposa. SAPERI è introdotta da tre articoli sulla ricerca universitaria, l’istruzione scolastica e l’educazione in generale. Secondo Franklin Obeng-Odoom, nelle università il razzismo prende la forma di un apartheid intellettuale che esclude le persone nere dall’insegnamento universitario e dalle direzioni editoriali delle riviste accademiche (Atena nera: razzismo in accademia, #3). Rosy Nardone invece ci porta A scuola di media (#9, MEDIA), criticando l’attenzione nelle scuole verso l’insegnamento tecnico-pratico dell’uso di LIM, tablet e altri device: piuttosto la Media Education dovrebbe promuovere il pensiero critico e la cittadinanza attiva, cioè verso la capacità di stare insieme nel mondo online e onlife. Chiude questa triade Robin Wilson-Beattie, che con Sesso imperfetto (#3) promuove un’educazione sessuale intersezionale e inclusiva anche per persone con disabilità. Il sesso è fantastico, ma legarlo al mito della perfezione fisica alimenta relazioni tossiche e mina l’autostima di ogni persona. 

Illustrazione di Nadia Pillon

Illustrazione di Federico Manzone

Infine Iyo Bisseck cerca di Hackerare l’algoritmo (#4, DESIGN) per superare il razzismo nascosto nel machine learning e negli algoritmi di rilevazione facciale; mentre Matteo Cresti propone un’analisi storica del Bodybuilding, che nasce nell’800 come restaurazione di una bellezza classica contrapposta all’uomo borghese, per venire poi  assorbito dalla cultura consumistica (Bodybuilding, da alfa a queer, #7, SPORT). 

Quando abbiamo iniziato il lavoro di redazione per questo speciale, pensando alla coerenza testuale del volume, avevamo dato per scontato che avremmo aggiornato ogni articolo alla nostra attuale guida di stile, che prevede l’uso dello schwa (‹ə›) per evitare il maschile sovraesteso. A lavori in corso, però, abbiamo cambiato idea. Volevamo che questa Selezione avesse un qualche valore documentale, che potesse testimoniare anche i cambiamenti stilistici e l’evoluzione che ha avuto la rivista in questi anni. 

In contemporanea al #9, a tema MEDIA, questo volume speciale chiude le pubblicazioni di menelique magazine. Provare a raccontare che cosa ha significato per noi avere a che fare con tutte le persone che hanno sostenuto il nostro collettivo in questo cammino sarebbe presuntuoso. Vi basti un grazie. Avete dato forma a un’idea.

 

Indice:

Editoriale
di Giovanni Tateo
Dentro la Jugosfera
di Alessia Gasparini
Io non parlo meridionale
di Claudia Minchilli

Morire a Sud
di Irene Costantino
Il ritorno delle Brùscias
di Benedetta Pintus
Oltre il verde urbano
di Sarah Gainsforth
Affrontare l’imperialismo verde
di Prakash Kashwan
Non è tuo figlio
di Claudia Marini
Il vostro paradiso è la nostra casa
di Benedetta Pintus
Leggo Napoli
di Tamu
 Turismo esperienziale
di Sarah Gainsforth
Videogiocare stanca
di Matteo Lupetti
Gamificando non si impara
di Matteo Lupetti
Atena nera: razzismo in accademia
di Franklin Obeng-Odoom
A scuola di media
di Rosy Nardone
Sesso imperfetto
di Robin Wilson-Beattie
Hackerare l’algoritmo
di Iyo Bisseck
Bodybuilding da Alfa a Queer
di Matteo Cresti

Immagini di:

  • Davide Bart. Salvemini
  • Erica Borgato
  • Gianluca Chiavassa
  • Riccardo Di Stefano
  • Nidhin Donald
  • Sebastiano La Monaca
  • Moju Manuli
  • Federico Manzone
  • Nadia Pillon
  • Carol Rollo
  • Ary Uvas
  • Zhigang Zhang

Provinciale

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Provinciale. 1. spreg. Mentalità, modo di fare, atteggiamento considerati tipici di chi vive o è vissuto in provincia, quindi caratterizzati da limitatezza culturale, meschinità di gusto e di giudizio. (Treccani)

SCENA UNO. Un bar, di fronte un parco comunale dove sopravvive soltanto una manciata di pini, un punto minuscolo nella densa provincia di Napoli. Abbiamo meno di vent’anni, sorseggiamo una Peroni grande, fumiamo canne di infimo hashish e tabacco. È scattata una rissa tra due ragazzi, lo capiamo dai moti di rotazione e rivoluzione della folla intorno a un centro che ancora non si distingue. La voce si è già sparsa, arriva la risposta istantanea delle due fazioni, come dopo un richiamo inaudibile di insetti. Un brusio lontano di scooter diventa un ruggito, un paio di file disordinate zigzagano nel traffico di automobili, mantenendosi tuttavia compatte, e dalla nostra sinistra si dirigono verso lo stesso punto, verso destra, all’uscita del parco. Alcuni parcheggiano e salgono sulle macchine in sosta. Dai tettucci delle auto o dagli scooter in movimento, in tre o quattro fanno roteare le catene dei motorini in stile lazo. Urlano e minacciano la fazione opposta, intanto la gente cambia strada, le auto aprono un varco per lasciarli passare. Noi muti e immobili, tra l’allerta e l’apatia.

 

Illustrazione di Carol Rollo

SCENA DUE. Un localino in un sottoscala del parco comunale. Un concerto di un gruppo, zoccolo duro della scena post rock degli anni Dieci, ma noi non lo sappiamo. Attraversiamo i giardinetti del parco, un ammasso di terra che lascia nuvole di polvere dietro i nostri passi, in branco, verso l’entrata del sottoscala. Ci sentiamo in diritto di essere molesti, di prendere in giro gli organizzatori al banchetto, tra i pochi eroici a organizzare qualcosa nei dintorni, pretendiamo di entrare senza pagare. Qualcosa ci fa credere di avere una sorta di diritto territoriale in quella zona dove noi buttiamo le serate, per quel sentimento che non è facile spiegare, tra l’arroganza e il niente da perdere. Quello spazio liminale, una delle poche cose di cui abbiamo enorme esperienza.

SCENA TRE. Galassia Gutenberg, una famosa fiera di libri vicino Napoli. Non sappiamo esattamente quali sono i libri che dobbiamo leggere, ma li sappiamo rubare. Al liceo i professori di italiano della nostra sezione cambiano ogni sei mesi, a volte resistono per un anno. Non siamo orribili noi, ma la scuola ha dei problemi grossi di organizzazione. Qualcuno di loro ha detto a un paio di noi che siamo bravi, ma dovremmo leggere di più. Ci mancano le basi. A me dicono sempre: hai potenziale, ma fai troppe assenze (Ho rischiato la bocciatura per due anni di seguito, ma l’idea di questa bravura, mai davvero soddisfatta, mi ha salvata). Il mio amico distrae i gestori dei banchetti, mentre io infilo un libro nelle borse di tela, a volte due. Mi dice prendi quelli più grandi, mi raccomando, e io obbedisco. All’uscita li contiamo, almeno una ventina. Chissà se basteranno.

Provincialismo.

In senso più ampio, con riferimento a manifestazioni letterarie, artistiche, culturali, intellettuali, ristrettezza di interessi dovuta a scarsi contatti con centri e ambienti culturalmente più aggiornati e di respiro più universale: Papini era allora, com’ero anch’io, … un uomo che aspirava ad uscire dai limiti del p. culturale e spirituale per spaziare in un’aura più aperta di universalità (Soffici); l’accusavano di meschinità, di aridità, di p. (Bassani). 

 

Illustrazione di Davide Bart. Salvemini

La nostra città all’inizio degli anni Duemila conta più di novantamila abitanti e non ha una biblioteca. Alcuni hanno fratelli o sorelle maggiori o genitori che hanno accumulato volumi negli scaffali, e quando invitano a casa chi di noi non ha gli stessi panorami domestici, la cosa intimidisce, ma, diciamocelo, abbiamo imparato a nasconderlo molto bene. Se riusciamo a superare l’imbarazzo, ci facciamo un’idea di quali sono i libri, i film, i cd da avere, da desiderare di avere. Capiremo dopo anni, a volte dopo qualche stagione di lavoro al nord, che anche quelli con le case piene di libri, tutto sommato, hanno qualcosa che non va: rimangono provinciali del Sud. Una roba appiccicosa che ti rimane addosso.

Verso i ventitré anni, mi sono trasferita a Roma, poi ho continuato a spostarmi in altre città, prendendo il posto nelle statistiche delle numerose persone che passano da Sud/nord a Sud/nord/estero. Ho capito così quello che significavano le aspettative, conoscendo persone di classe media, magari del nord Italia. La famiglia, la società si aspettavano qualcosa da loro. Un genere di pressione, un condizionamento che non avevo mai provato e non arrivavo a comprendere.

Le aspettative alcuni di noi se le erano cercate, hanno capito cos’erano e se le sono costruite da zero, pezzo a pezzo imitando il riflesso di quelle su altre persone, su altre geografie. Facendo qualche passo da soli, non sempre avanti, a volte anche indietro. Siamo partiti dalle basi (Ci si poteva aspettare uno stipendio vero? Di firmare un contratto di lavoro prima di iniziarlo? Ci si poteva aspettare l’indipendenza? Potevi pensare di scrivere, fare arte, fare musica anche da un territorio fagocitato dalla disoccupazione?).

L’aridità dei paesaggi (il fare a meno, abituarsi a quello che non c’è) non ti lascia facilmente. Non è una questione di distanza, ma di accesso. Nel tempo ho capito che, anche se mi trasferivo altrove, anche se mi trovavo in un paesaggio più florido, non era detto che quella floridità fosse destinata alla gente come me. In un modo o nell’altro, dai margini mi avvicinavo ai centri, che voleva dire prendere parola, osare sognare, partecipare alla costruzione di qualcosa di gratificante.

Inizialmente la curiosità mia e quella degli altri faceva tutto il lavoro, poi avveniva un processo inverso, per insufficienza di risorse materiali e per un senso di inadeguatezza più o meno indotto, perché scadeva il tempo che mi era dato per giocarmi l’occasione, sottoposta a un’idea di merito di cui non riuscivo a comprendere i criteri. E dopo un po’, senza nemmeno accorgermene, mi ritrovavo sistematicamente ai margini, dove l’accoglienza era incondizionata, o almeno dove gli spigoli e le dissonanze che mi erano riservate erano quelli di sempre, conosciuti, più familiari.

Provinciale. Dovrebbe significare soltanto una posizione nella geografia. Ma sembra che l’essere provinciale sia una condizione scelta. La ristrettezza di interessi una scelta consapevole, gli scarsi contatti con centri e ambienti culturalmente più aggiornati frutto di un’incapacità innata di stare al passo. Ma il passo lo decide qualcun altro e tu puoi solo sperare che nel frattempo non ti sei autosabotata troppo per capirlo.

 

Scrivere al neon

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Succede, di fronte a traumi collettivi come le stragi mafiose del ’92, che categorie di interpretazione della realtà saltino per aria, insieme alle certezze abituali, come l’asfalto il 23 maggio sull’autostrada in prossimità di Capaci, e 57 giorni dopo in via D’Amelio. Il mondo è crollato.

Rimane un’enorme crepa davanti alla quale sostare per poi proseguire nel percorso già tracciato, o cascarci dentro presi dal panico. Ma si può anche operare una svolta e inventarsi nuove modalità per ‹vivere nelle rovine del capitalismo›[1].

Break Trough ‹La caduta di un mondo› – letteralmente lo ‹squarcio› ma anche la ‹svolta› – è il titolo dell’opera di Thomas Hirschhorn, rappresentata dal rovinoso crollo di un soffitto, esposta alla mostra CRAZY La follia nell’arte contemporanea[2]. Dalla crepa rappresentata sul tetto piuttosto che sul pavimento, fuoriescono i fragili fili, ma fuoriesce anche l’impensabile, ciò che ancora non esiste nella dimensione del reale, e che perturba. Il curatore, Danilo Eccher, ha definito CRAZY una ‹scrittura al neon›, contaminante, in grado di creare un cortocircuito. Non è altro che un invito al pubblico a mettersi in gioco, a tentare una diversa lettura della realtà aperta all’imprevisto.

Illustrazione di Carol Rollo

‹Crepa›, ‹Perturbante›, ‹Mettersi in gioco›, ‹Contaminazione› tra mondi apparentemente inconciliabili, sono alcune delle parole chiave che compaiono nei pannelli espositivi come coordinate per seguire il percorso della mostra. Sono le stesse seguite da me e Alessandra Dino nel tentativo di decostruire il pensiero binario dell’antimafia – O con la mafia o con lo Stato – nella cura del testo Che c’entriamo noi con la mafia. Racconti di Donne, Mafie, Contaminazioni [3]. In altri termini si tratta della ricerca di uno spazio condiviso di indipendenza simbolica dalle narrazioni egemoniche sulle mafie e di creazione di pratiche di resistenza inedite.

‹Contagio, Infezione, Distanza/Vicinanza, Vulnerabilità, Ambivalenza› sono le altre coordinate emerse dalle diciotto storie che compongono il testo, scritte da autrici di diversa provenienza geografica e professionale: giornaliste, scrittrici, critiche letterarie, docenti, attiviste femministe. Parole non più astratte ma sperimentate nell’intimo durante l’isolamento della pandemia che ha fatto da cornice alla scrittura del testo, confermando come ogni idea di purezza, di protezione, di immunità dal virus salti per aria esponendoci gli uni agli altri, ‹l’uno la posta in gioco dell’altro›. Invischiati nel mondo (infetto) che cerchiamo di cambiare al punto che finiamo per riprodurre gli stessi comportamenti che combattiamo.

‹Una progettualità diversa contro le mafie deve porsi il problema della vicinanza con questi mondi, non della diversità ontologica. Una riflessione difficile, e ancora in itinere. Seppur consapevole che il parallelismo tra i due mondi possa non fare piacere, mi stupisco di chi non riesce a vedere la contaminazione e l’infezione che hanno permesso a fenomeni arcaici di transitare nella sempre più complessa modernità›. Lo scrive la magistrata Franca Imbergamo in un articolo sulla rivista Mezzocielo[4], dopo la prima sentenza sulla trattativa Stato-Mafia, denunciando il continuum tra il sistema-mafia e l’attuale sistema che governa il mondo.

‹Infezione›, ‹Contaminazione›, ‹Ibridazione›, ‹Perturbazione› sono ‹nuovi sentieri inventivi› di un pensiero che nasce in campo scientifico e che Donna Haraway definisce ‹tentacolare›[5], come il procedere laterale del ragno. Figurazione mitica e mimetizzante, misogina, gorgonica, predatoria, multiforme, fornita di tentacoli, a cui una collaboratrice di giustizia paragona la mafia: tentacoli dentro i quali, ‹una volta catturata, più ti agiti e più t’impigli›. In merito le autrici Natoli e Triolo scrivono: ‹La prepotenza mafiosa si rigenera di continuo come i tentacoli della medusa›.

Illustrazione di Davide Bart. Salvemini

Dov’è il nesso tra Haraway e la collaboratrice di giustizia?

Il pensiero tentacolare, descritto dalla filosofa, è vicino al ‹tastare› e al ‹pensare-sentire›: è un procede per tentativi utilizzando tutti i cinque sensi e coinvolgendo l’inconscio e l’onirico, definito dalla stessa Haraway ‹fibroso›, ‹mostruoso›, ‹vischioso e rischioso›, che erompe dalle profondità buie della terra, e si nutre della forza immaginativa delle storie (non solo umane). Questa nuova narrazione, ben si presta dal mio punto di vista ad esplorare il sistema-mafia descritto da Maria Rosa Cutrufelli come ‹frutto di un’allucinazione collettiva […] un gioco di specchi con le immagini rovesciate che non sono mai dove ti aspetti che siano›[6], e che Dino definisce ‹camaleontico›, ‹in continua trasfigurazione›, aggrovigliato, elusivo, multiforme, cangiante, di certo non esauribile nella questione della giustizia sociale né leggibile solo attraverso categorie economico-giuridiche, com’è tradizione dell’antimafia. Diviene necessario fare i conti con complicità e ambivalenze personali, col rimosso, ‹fantasmi e mostri›, senza fughe in avanti, stando nel groviglio. Inaugurando nuove forme di ‹responso-abilità› che secondo Haraway implicano la capacità di generare risposte ai problemi che incombono nel presente per riparare ai danni dell’Antropocene. Come la collaboratrice di giustizia che da moglie complice di un mafioso reagisce responsabilmente attraverso la presa di parola pubblica – la denuncia – in un universo che vuole le donne mute, immobili e sottomesse. Una mossa, che è anche modalità di sopravvivenza, che provoca un terremoto e apre nel sistema infetto una crepa profonda quanto quella sull’asfalto dell’autostrada in prossimità di Capaci.

Assunzione di responsabilità, Apertura al dubbio, Ascolto, Narrazione, Cura, Empatia, Costruzione di comunità, Memoria attiva, Riconoscimento del dolore dell’altra, Lutto, Sorellanza. Queste sono altre parole chiave emerse dalle storie delle autrici, coordinate utili per orientarci nella creazione di pratiche di lotta all’altezza dei tempi che attraversiamo.

 

Perché raccontare la mafie attraverso le storie?

Le storie creano mondi, creano immagini, sono multiple, contraddittorie, come i corpi che le abitano; sono amorali, non sono letterali, non dimostrano ma mostrano le mille sfaccettature del sistema-mafia. Un caleidoscopio di esperienze che scompaginano la fissità le certezze di un mondo che va in rovina. Leva politica di un pensiero decolonializzante come esercizio per ‹cambiare le lenti sulla realtà e coglierne complessità e opacità›[7]. Dino li chiama ‹esercizi di avvicinamento e di distanziamento› che richiedono il confronto con l’altro da sé, ‹andare al cuore delle ferite›, senza la pretesa di quadrare il cerchio ma soggiornando dentro le contraddizioni. ‹Mettersi a nudo non è facile. È faticoso ridiscutere i confini e accorgersi degli spazi contaminati nei quali ci muoviamo› scrive Dino in proposito. ‹Non è facile calarsi nel pozzo, fare i conti con l’indicibile e trovare le parole per dirlo›, rilancia Monroy, in quanto ‹Raccontare significa avvicinarsi, e dalla mafia si preferisce stare distanti›, aggiunge Alga.

Scrivere ha comportato da parte delle autrici un continuo riposizionamento alla ricerca della giusta distanza dal pensiero corrente sul sistema-mafia, liberandolo da gabbie binarie, identitarie che rifiutano il rischio della polisemia, dell’incertezza, del fallimento. Un procedere senza bussole di riferimento, convergendo in frammenti di significato. Un con-divenire, ciascuna col suo filo di gomitolo diverso per lunghezza, colore, spessore, ma tutte caparbiamente consapevoli di stare dentro un’unica trama, l’una la posta in gioco dell’altra. Tutte desiderose di mettere dentro ‹la sporta del narratore›[8] qualcosa di personale utile alla composizione di una narrazione inedita, senza eroi o eroine, vinti e vincitori, senza appigli e senza un (lieto) finale, col rischio di precipitare ad ogni pagina nello stereotipo, nel già detto.

Una narrazione che al di là del contenuto nel suo procedere si è rivelata anche un ascoltarsi reciproco, cura di ferite e sito di resistenza, sperimentando su se stesse quanto scrive bell hooks: ‹il punto non è sapere o non sapere raccontare, bensì […] guardare in funzione di un ascolto […]. Non si formano parole né storie, se non dove ci si lascia penetrare dalle parole altrui e le nostre si fanno atto amoroso di restituzione, in un’alternanza ininterrotta e mutevole di posizioni›[9].

È quanto auspico possa provocare la lettura di questo articolo. 

 

[1] A. L. Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, 2021 

[2] CRAZY La follia nell’arte contemporanea, Chiostro del Bramante, Roma Febb. 2022/genn. 2023.

[3] Alessandra Dino, Gisella Modica, Che c’entriamo noi con la mafia. Racconti di Donne, Mafie, Contaminazioni, Mimesis/Eterotopie 2022

[4] Che c’entriamo noi, cit. pag. 11

[5] Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019

[6] Maria Rosa Cutrufelli, I bambini della ginestra Frassinelli, 2012, pag. 79 e 91

[7] Rachele Borghi, Decolonialità e Privilegio, Meltemi, 2020

[8] Della ‹Sporta del narratore› di Ursula Le Guin parla Donna Haraway come critica al racconto ‹aggressivo e fallico› dell’eroe, contrapponendo la ‹fabula speculativa (FS)›. ‹L’acronimo FS sta anche per fantascienza, femminismo speculativo […] e fatto scientifico›. In Haraway (2020, pp. 24 e 63-65).

[9] bell hooks, Elogio del margine, Scrivere al buio, edizioni Tamu, 2020 pag. 141

EDITORIALE #8, SUD

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Il prossimo numero di menelique sarà la nostra decima pubblicazione, dopo la quale ci prenderemo una pausa per ristrutturare il progetto. In questi anni di attività editoriale stiamo cercando di affrontare temi complessi in modo accessibile, non dimenticando di provare a raggiungere una sostenibilità economica che possa garantire qualità e solidità alla rivista, così come retribuzioni per autorə e illustratorə. Fino a oggi è andata meglio di quello che potessimo sperare all’inizio di questo percorso: riconoscimento, affetto, sostegno morale e economico da una comunità editoriale che ci ha permesso di aumentare costantemente la tiratura, pur continuando a sperimentare. Aumentando la tiratura sono però aumentate anche le ore di lavoro su base volontaria richieste al collettivo. Ora sentiamo (e sento personalmente) il bisogno di fermarci. Questa rivista rappresenta il modo più vivo di manifestare la mia esistenza sociale e politica nel mondo, e credo che questo spirito sia condiviso anche dalle tante persone che hanno fatto menelique assieme a me in questi anni. Ma affinché questo magazine non resti solo uno dei tanti e belli esperimenti dell’editoria indipendente, bisognerà provare a ampliarne l’azione, uscendo dal perimetro del volontariato e cercando di fondare una casa editrice. In fondo il progetto è nato proprio per questo: pubblicare un cartaceo come forma di amore per l’editoria periodica (e verso la militanza politica) e sperare che possa diventare un lavoro a tempo pieno. Non sarà semplice, al contrario le probabilità di riuscirci sono poche, perché esperienza, idee e buona volontà non bastano, serve anche denaro, ma in ogni caso sono sicuro che varrà la pena provarci. Dopo il #09, quindi, ci saluteremo, sperando di rivederci presto. 

Illustrazione di Carol Rollo

Consapevole di questo, ho insistito affinché il numero 08 riguardasse i Sud, d’Italia e del mondo, e potesse riflettere sia sul potenziale rivoluzionario del concetto di Sud, sia su una forma contemporanea di meridionalismo che non guardi solo all’origine della nostra subordinazione terrona e che non cerchi la restaurazione di un passato idealizzato, quanto piuttosto stimoli la ricerca di intersezioni con altre lotte politiche contemporanee. 

Illustrazione di Erica Borgato

Illustrazione di Federico Manzone

Non c’è una persona meridionale nel nostro collettivo (me compreso) che non abbia ritrovato la propria esperienza di migrante al nord nelle parole di Claudia Minchilli, che con Io non parlo meridionale apre questo numero. Minchilli riflette sulla diaspora del Sud Italia, sui meccanismi di adattamento e mimetizzazione del proprio accento quando ci si trasferisce al nord, e su come la ‹lingua meridionale› possa diventare strumento di esclusione anche tra meridionali. 

Davide Curcuruto accetta la sfida di cercare l’elemento comune a lotte queer e meridionalismo. È la marginalità a suo parere il comune denominatore, così come lo è la rivolta contro il Padre, cioè contro la cultura patriarcale, da una parte, e la patria e il nazionalismo, dall’altra.

Per quanto riguarda l’articolo a mia firma, ho voluto mettere in discussione quella che sembra l’unica possibilità per il Sud di avere un futuro: una serie pluriennale di investimenti simile a quella del Solidarpakt, il Patto di solidarietà tedesco che ha permesso la ‹ricostruzione› dell’Est della Germania dopo la caduta del Muro. Un Südpakt nasconderebbe la settentrionalizzazione del Mezzogiorno, quindi anziché auspicare interventi dall’alto che impedirebbero la nostra autodeterminazione, dovremmo lavorare per un meridionalismo che nasca dalla costruzione di comunità dal basso, come quella che a Riace aveva preso vita grazie all’operato creativo e tenace di Mimmo Lucano. 

Illustrazione di Gianluca Chiavassa

Illustrazione di Edoardo Marconi

Morire a Sud, di Irene Costantino, denuncia il diritto alla salute negato in Calabria. La malasanità nel Meridione sembra essere colpa di mafie e sprechi, ma in realtà un servizio sanitario inefficiente risponde agli interessi della sanità privata e degli ospedali del nord.

In Gente di giù Giuseppe Luca Scaffidi riporta gli stereotipi passati e presenti sulle persone meridionali: nullafacente, parassita, sdraiato, senza talento, violento e arretrato. Il Meridione soffre storicamente una rappresentazione degradante che continua oggi a umiliare milioni di persone.

Illustrazione di Erica Borgato

Illustrazione di Gianluca Chiavassa

Alla luce del nostro percorso editoriale, abbiamo letto con interesse l’articolo di Tamu, la libreria e casa editrice campana che in Leggo Napoli racconta il proprio percorso e descrive il sistema editoriale iniquo di un’Italia in cui leggere è diventato un privilegio.

Di antispecismo e Meridione hanno scritto, in Cani tra due fuochi, lə attivistə di Troglodita Tribe, che vivono da anni in Sicilia per studiare i cani liberi, cioè quelli che chiamiamo randagi e che cerchiamo di salvare organizzando staffette improvvisate da Sud a nord che a volte somigliano a deportazioni. 

Illustrazione di Kevin Niggeler

Illustrazione di Edoardo Marconi

In Fiori nel deserto, un pezzo a metà tra saggio e reportage, il Collettivo Epidemia discute di desertificazione, che sembra un pericolo concreto a Sud, ma che spesso viene usata come spauracchio per lasciare in mano le decisioni sui territori a chi vuole continuare a guadagnare con lo sfruttamento capitalistico della terra. 

Sull’ambiente, ma anche sul lavoro e sulla costruzione di comunità, ha deciso di riflettere il poeta Stefano Modeo, analizzando il passato e il presente della sua Taranto allo scopo di proporre un modo di Pensare il Sud che possa emanciparsi dall’unica via proposta dalla modernità tardocapitalista. Forse dovremmo prendere ispirazione dal ‹pensiero meridiano› di Franco Cassano.

Illustrazione di Carol Rollo

Illustrazione di Federico Manzone

La Sardegna è la terra di Omar Onnis e Benedetta Pintus. Con Il vostro paradiso è la nostra casa, Pintus denuncia la precarietà imposta dalla turistificazione, che prova a dominare l’isola ormai da decenni e che trasforma i territori per compiacere persone in cerca di svago per qualche settimana all’anno. Questo ‹essere a disposizione›, che accomuna la Sardegna con il Sud Italia, è criticato anche da Onnis: in Guerra vista mare viene riportata la storia dello sfruttamento delle aree militari nell’Isola, così come l’uso della popolazione sarda per l’arruolamento. 

Illustrazione di Davide Bart. Salvemini

Immagini dal videogioco ‹Neocolonialism› di Subaltern Games

Allontanandoci dalla prospettiva mediterranea, il Sud diventa globale. Da diverse parti del mondo ne scrivono l’accademica Anne Garland Mahler, lə criticə videoludicə Matteo Lupetti, l’avvocato Juan Auz e l’artista Daniela Ortiz. 

Mahler descrive i vari modi con cui si è usata nel tempo la locuzione ‹Sud globale›, per arrivare a sostenere un uso che sia svincolato da coordinate geografiche e che possa denunciare le subordinazioni del capitalismo razziale anche in alcune aree nei nord del pianeta.

Matteo Lupetti ci ricorda come la relazione nord-Sud sia spesso presente nel gaming, sia a causa di rappresentazioni stereotipate, sia nelle economie virtuali che si sviluppano in ambito videoludico.

Fotografia di Neil Palmer

Daniela Ortiz, ‹Monumentos Anticoloniales›, ceramica dipinta, 2018

La sezione Sguardo internazionale ospita la traduzione di un articolo pubblicato dalla divisione colombiana della Fondazione Heinrich Böll Stiftung. L’autore, Juan Auz, descrive lo sviluppo della giurisprudenza nazionale e internazionale per affrontare le cause di risarcimento dei danni subiti dallə contadinə a causa del cambiamento climatico. In queste cause i danni vengono chiesti a paesi che hanno contribuito in minima parte all’inquinamento, quindi secondo Auz sarebbe più corretto coinvolgere in questi processi i paesi più industrializzati e stimolare la cooperazione internazionale.

Nella sezione Artivist, la curatrice Giovanna Maroccolo conversa con l’artista peruviana Daniela Ortiz. Nel suo percorso artistico troviamo diversi elementi che criticano la storia coloniale dell’occidente verso il Sud America.

La sezione dedicata alla fiction, stampata su carta colorata, in questo numero ospita due racconti scritti da Alessandro Milone (La cattura) e Claudia D’Angelo (Mancato ritorno), mentre la sezione culturale, K:Room, accoglie come al solito consigli di lettura su saggistica e narrativa, così come suggerimenti per serie tv e opere musicali a tema Sud. 

In chiusura abbiamo scelto di proporre un confronto tra Elena Militello e Gadifa Akremi sul South Working, vale a dire quel fenomeno che ha permesso a diverse persone meridionali di tornare a vivere a Sud durante la crisi pandemica, mantenendo il proprio lavoro a nord. È una soluzione per lo spopolamento del Meridione?

Indice:

Editoriale
di Giovanni Tateo
Io non parlo meridionale
di Claudia Minchilli
Queer meridionalismo
di Davide Curcuruto
Südpakt
di Giovanni Tateo
Morire a Sud
di Irene Costantino
Gente di giù
di Giuseppe Luca Scaffidi
Leggo Napoli
di Tamu
Cani tra due fuochi
di Troglodita Tribe
Idee di Sud
di Pigia giù!
La cattura (Fiction)
di Alessandro Milone
Mancato ritorno (fiction)
di Claudia D'Angelo
Il vostro paradiso è la nostra casa
di Benedetta Pintus
Pensare il Sud
di Stefano Modeo
Guerra vista mare
di Omar Onnis
Fiori nel deserto
di Collettivo Epidemia
Un dilemma sul clima
di Juan Auz
South Working
di Elena Militello e Gadifa Akremi
Daniela Ortiz
di Giovanna Maroccolo
Kulture Room
di Daniele Ferriero
Marco Petrelli 
Giuseppe Luca Scaffidi
Danilo K. Kaddouri 
Marcello Torre

Indice Episodi online (su menelique.com nelle prossime settimane):

 Scrivere al neon
di Gisella Modica
 Provinciale
di Giusi Palomba

Immagini di:

  • Carol Rollo
  • Federico Manzone
  • Kevin Niggeler
  • Davide Bart. Salvemini
  • Erica Borgato
  • Gianluca Chiavassa
  • Edoardo Marconi
  • Neil Palmer
  • Sebastiano La Monaca

 

Pelota Maya

Immaginate che sia la prima volta che vedete rimbalzare qualcosa nella vostra vita. È una palla di quattro chili che sembra una roccia, mentre sfreccia allegramente tra le pareti inclinate di uno stadio con un campo a forma di ‹I›.
La palla viene spinta da fianchi, cosce e avambracci fino a un cerchio che si trova in cima a ciascuna delle due pareti. I giocatori sono i sovrani di due regni in competizione. Ogni giocatore indossa un abito sacro fatto di piume e pietre preziose che rappresentano gli dei che hanno partecipato al mito della creazione mesoamericana. È facile capire perché i frati spagnoli, vedendo questo spettacolo per la prima volta al loro arrivo in America, pensarono che la palla fosse posseduta da uno spirito che faceva rimbalzare le pietre (la vulcanizzazione non era ancora conosciuta in Europa).

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Questa palla era fatta con miscele di radici d’albero e resine che venivano attorcigliate insieme per formare una sfera pesante di lattice che rimbalzava in modo incontrollabile. Finora non sappiamo quando o dove il gioco della palla mesoamericano abbia avuto origine, ma le palle più antiche trovate risalgono al 1700 a.C.
Era ampiamente praticato in tutto l’Anahuac, che è la regione che va dal sud degli Stati Uniti, Messico e America Centrale fino alle remote isole Taino dei Caraibi. In tutta questa zona, sono stati dissotterrati almeno 1.500 campi di questo antico sport, il 60% dei quali, incredibilmente, è stato scoperto solo negli ultimi 20 anni. Usato come strumento diplomatico, questo gioco diventava un ponte comune con le civiltà straniere che parlavano altre lingue e adoravano altri dei, per risolvere i conflitti e disinnescare tensioni.

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I gol spesso definivano il destino di regni potenti in bilico tra la pace e la guerra, il matrimonio di una principessa con il principe vincitore, così come la negoziazione di tributi, il controllo del commercio, ecc.
Certi incontri divennero così storicamente importanti che ci sono ancora storie, murales, ceramiche e pannelli antichi che ne parlano. È il caso del murale di Tepantitla, che raffigura una partita tenutasi intorno al 400 d.C. tra giocatori di Teotihuacan, la megalopoli multietnica di 100.000 abitanti che vivevano nella Valle centrale del Messico almeno un millennio prima dell’arrivo di Hernán Cortés, contro i giocatori Maya, abitanti dell’alta giungla del Messico meridionale e dell’America Centrale, famosi per le loro straordinarie città costruite con grande maestria astronomica, matematica e architettonica;

grazie a questa raffigurazione esistono testimonianze di queste due affascinanti civiltà, separate da migliaia di chilometri, che giocano felicemente una partita di pelota.

Un’altro esempio è il racconto di Fray De Torquemada, cronista dell’ordine francescano che ci racconta nel suo libro Monarquía Indiana di una partita di pallone giocata dal mitico imperatore azteco Axayacatl, padre di Moctezuma, contro Xihuiltemoc I, importante sovrano dei giardini galleggianti di Xochimilco nel 1481 d.C., dove scommisero le loro entrate annuali e la terra.

Si sa che in alcuni casi si è arrivati a effettuare sacrifici umani alla fine dell’incontro. Ma il gioco non prevedeva sacrifici umani, né si giocava con teste umane come ha imposto la narrazione colonialista per giustificare i suoi tentativi di estinguere questo gioco che era ampiamente praticato in tutti gli strati sociali, per il divertimento di tuttə, ragazzi, ragazze, uomini e donne, e che era rappresentato con attività di scommesse e raduni con cibo e mercati intorno ai campi. Non sorprende che un gioco praticato per così tanti millenni e in così tante culture abbia sviluppato infinite varianti. Si giocava con mazze, racchette, guanti e bastoni, in altri casi con i fianchi o gli avambracci, e su diversi tipi di campi. Da questa angolazione il gioco della palla mesoamericano può essere visto più precisamente come una famiglia di giochi correlati.

Ma forse la cosa più interessante è che questi Tlachtlis o campi di pelota trovati nei siti archeologici chiamati tollanes, sono in realtà osservatori utilizzati per misurare la meccanica delle stelle. Nel 2006, l’ingegnere Felipe Mora Montes de Oca, dell’Istituto Politecnico Nazionale, è riuscito a dimostrare scientificamente che il centro di queste corti veniva utilizzato per trovare lo Xomulzen o ‹unità astronomica di 18º› durante l’equinozio; che divide la volta celeste in 20 parti uguali. Questo, insieme alla scoperta dello zero matematico e all’uso dell’avanzata calcolatrice pre-ispanica conosciuta come Nepohualtzinzin, permise a queste società di studiare il calendario lunare di 260 giorni, il calendario solare di 365 giorni, il calendario venusiano di 854 giorni, il calendario pleiadiano di 52 anni e il calendario di conteggio lungo di 25.625 anni, ovvero il tempo che il nostro pianeta impiega per fare il giro della galassia, per poi per unire questi 5 calendari in uno solo, perfezionando il loro sistema di agricoltura e di navigazione e quindi la forza politica e religiosa di queste grandi capitali.

Il gioco della palla è pregno inoltre di una grande carica filosofica e spirituale: è descritto nel mito della creazione Maya del Popol Vuh come il gioco praticato dai gemelli sacri contro gli dei degli inferi per creare l’essere umano. È per questa ragione che, per esempio, il campo era visto anche come la porta per accedere all’inframundo, elemento che fu associato dai conquistadores spagnoli al satanico. Ma il concetto di inferi mesoamericani non ha solo un significato religioso; si riferisce anche al piano non fisico, dove si trovano la morte, ma anche i sogni, l’immaginazione, i pensieri; o, per esempio, lo stato mentale di flusso (mindfulness): un fenomeno studiato fin dal 700 a.C. da Lao-Tse, ma che ha recentemente permeato la cultura occidentale e che

lə atletə sperimentano come quel momento in cui il pensiero si dissolve permettendogli di esistere solo nel momento presente per l’attività che stanno eseguendo con intensa pace e destrezza.

Partecipare al gioco della pelota era un grande onore che rappresentava il coinvolgimento nel mantenimento dell’ordine cosmico dell’universo e la rigenerazione rituale della vita. Ma gli europei che arrivarono in America non erano in grado di assimilare i concetti filosofici e scientifici di questi indios ritenuti incivili, così ordinarono ai soldati di distruggere le corti sacre e proibirono la pratica di uno dei giochi più antichi del mondo.

Questa repressione dei popoli indigeni e delle loro conoscenze continuò a lungo dopo l’indipendenza messicana del 1810.

Le comunità indigene furono sottoposte a un sistema di semi-schiavitù, che le spogliò delle loro terre, costrinse la gente a dimenticare le loro lingue e tradizioni, a lavorare per molte ore, e negò loro il diritto di essere presə in considerazione come cittadinə, provocando terribili massacri contro i popoli Maya e Yaqui che tentarono di ribellarsi durante la cosiddetta guerra delle caste (1847-1901).

Così, tutto ciò che aveva anche solo un accenno di pre-ispanico, fu perseguitato e punito con la morte o la povertà estrema.

Ma l’aspra orografia del Messico ha zone che la mano colonialista non ha mai potuto raggiungere, come le montagne di Sinaloa, Oaxaca, Chiapas, o l’altopiano Purépecha di Michoacán; luoghi dove si sono mantenute lingue, costumi e conoscenze pre-ispaniche, come gli svariati utilizzi del mais, il sistema di organizzazione comunitaria democratica, le danze, la musica e i vestiti. È in questi luoghi appartati che si è continuato a giocare otto diversi tipi di gioco della pelota. Nonostante la lunga notte che questo gioco millenario ha vissuto, ci sono eroi che dedicano la loro vita a preservarlo, come Rogelio García Guzmán, ricercatore e allenatore di giochi e sport indigeni, che lotta contro il sistema educativo che continua a ignorare questi giochi come se non fossero mai esistiti. Guzmán lavora per salvaguardare uno sport che non consegna medaglie olimpiche sotto i riflettori dei media anglofoni. ‹Perché insistere ancora con il gioco della pelota?› ho chiesto nell’intervista che gli ho fatto per scrivere questo testo. La risposta:

‹perché implica identità, radici e uno scudo contro i tentativi neo-coloniali; per identificare ciò che ci ha colonizzato in precedenza e per far conoscere ai giovani le nostre affascinanti culture indigene. Per la cultura mainstream è più facile credere che gli alieni siano scesi sulla Terra con delle astronavi per costruire piramidi in Messico che immaginare l’inimmaginabile: ovvero che un gruppo di esseri umani, solo perché si trovava dall’altra parte dell’Atlantico e aveva la pelle marrone, possa aver trovato il modo di costruire un modello sociale avanzato che includeva meravigliosi sviluppi in astronomia, filosofia, agricoltura, letteratura, architettura, arte, musica, lingua, scienza e sport›.

La nostra ignoranza su ciò che è successo nelle Americhe prima dell’arrivo degli europei è involontariamente razzista.

‹Involontariamente› perché le istituzioni educative e religiose, così come la letteratura e il cinema, hanno perennemente impresso nella psiche collettiva l’idea che le civiltà indigene americane erano selvagge e non si sono mai evolute come quelle europee o asiatiche. Viviamo in una società globale materialista, colonialista, eurocentrica e americanizzata, che ha incorporato questa linea di codice squalificante verso l’indigenə nel nucleo del nostro sistema operativo, poiché ha bisogno di questa antica narrazione sociale per la sopravvivenza del suo modus vivendi. Questo pregiudizio rende più facile il voltarci dall’altra parte di fronte alle privazioni disumane di queste comunità e ci rende per sempre estraneə ai modi di pensare di quegli esseri umani, straordinari e fallibili come te e me, che a milioni vivono ancora coraggiosamente sugli altipiani, separati da tutto, o come migranti nelle grandi città, lottando contro il razzismo e gli abusi sistematici mentre cercano di conservare i loro costumi, solə e lontanə dalle loro radici.

 

Traduzione di Giovanna Maroccolo