Estratti dal cartaceo / 5 min
Editoriale numero uno: i futuri del lavoro.
Perché dobbiamo lavorare?
Tutte le tradizioni politiche occidentali si fondano su un presupposto: le risorse a disposizione sono limitate, bisogna pensare a come dividerle. Tutti ne sono convinti: comunisti, collettivisti, individualisti anarchici, liberali, conservatori. Anche i nazisti. Se i beni sono pochi e non bastano per tutti, in qualche modo te li dovrai guadagnare. Come? Lavorando!
Pensiamo a come muta drasticamente lo scenario se invece, per qualche motivo, le risorse abbondano. In quelle che vengono chiamate ‹società della post-scarsità› ogni fatica, ogni competizione, ogni lotta per la sopravvivenza sono superate.
Perché, dunque, dovremmo lavorare?
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Uno di quei motivi che possono ribaltare l’immaginario e che in un futuro prossimo potrebbero concretamente portarci nelle società dell’abbondanza (ammesso di non viverci già) è il costante progresso tecnologico che caratterizza l’epoca in cui stiamo vivendo. Il futuro del lavoro sembra essere racchiuso in una parola: automazione. Non è un caso che la parola ‹robot› derivi dal ceco ‹robota›, che vuol dire proprio lavoro. Ma se Karel Čapek, lo scrittore che introdusse il termine, pensava che gli automi ci avrebbero liberato dal lavoro fisico, con i recenti sviluppi dell’intelligenza artificiale potremmo essere liberati anche dal lavoro intellettuale.
Questa suggestione ha scosso la sinistra, che ha iniziato a parlare di post-lavoro, o meglio, di post-lavorismo, vale a dire di superamento della società fondata sulla necessità, centralità e importanza sociale del lavoro per le vite dei propri membri, così come di reddito di base universale, che permetterebbe di svincolare l’attività lavorativa dal reddito, evitando che le persone debbano lavorare per sopravvivere.
Ma l’automazione, e in generale le condizioni che potrebbero portare al superamento del lavoro, chi riguardano e da chi vengono discusse? Per non cadere nell’errore di universalizzare pensieri, lotte e condizioni storiche particolari, in questo primo numero di menelique si parlerà di futuri del lavoro, iniziando grazie a Veli Mbele, saggista afrocentrico e segretario del Black Power Front. Mbele ci ricorda come, da un punto di vista storico, la separazione tra reddito e lavoro si è già data per le persone nere, con Una cosa chiamata schiavitù.
Marco Maurizi invece discute il rapporto tra lavoro e animalità, e in (Non) lavorare come un mulo! sostiene che solo la consapevolezza del nostro essere animali umani potrà liberarci dall’oppressione del lavoro, senza auspicare improbabili ritorni a una natura primordiale.
Il postlavorismo contemporaneo, però, secondo James Chamberlain, ha una grave colpa: manca di considerare il fenomeno delle migrazioni. Quindi nel suo Postlavoratori di tutto il mondo, unitevi! propone di adottare la politica delle frontiere aperte e un reddito di base incondizionato da distribuire a chiunque risieda nei territori di una società postlavorista, migranti compresi.
Degli slanci utopici dell’automazione e del futuro, così come dei loro possibili risvolti distopici, ne parla Daniele Gambetta, in Distopie/utopie. Cosa accadrebbe infatti se un reddito di base incondizionato venisse gestito da facebook e pagato con la sua nuova valuta, libra?
Anche Matteo Lupetti parla di una distopia, ma di tenore diverso. I videogiochi, che crediamo occupino la sfera del puramente ludico, quindi opposta a quella del lavoro, in realtà veicolano ai propri videogiocatori le influenze del capitalismo contemporaneo: quantificazione, miglioramento delle abilità, ripetitività. Questo lavorogioco è utile al capitalismo, perché sta preparando un esercito di riserva per la forza lavoro di cui ha bisogno il capitale.
Delle conseguenze positive che avrebbe l’introduzione del reddito di base sul benessere psicologico delle persone, ne parla Barbara Collevecchio con Lo stigma del fannullone. Lavorare per sopravvivere limita la libertà delle persone e causa una frustrazione sociale che mette in pericolo la democrazia. L’obiettivo della psicologia del lavoro dovrebbe essere quello di favorire la realizzazione delle nostre qualità e delle nostre aspirazioni.
Un contributo che critica con decisione (e da sinistra) il reddito di base è Dov’è la sinistra? di Ana Cecilia Dinerstein, studiosa e attivista argentina che è tra le curatrici del libro di prossima uscita sull’open marxism edito da Pluto Press. Secondo Dinerstein il problema non sta nel redistribuire denaro, ma nel denaro stesso. Per giungere all’emancipazione dallo sfruttamento, bisogna superare la schiavitù della moneta, riconoscere le specificità di tutte le lotte e riflettere non solo sulla produzione di beni e servizi, ma sulla riproduzione sociale, che non ha a che fare esclusivamente con la procreazione, ma con tutte le istituzioni che permettono la vita, come la scuola, la salute pubblica, la cultura…
Di Riproduzione sociale si parla anche nella conversazione tra Silvia Federici e Marina Sitrin (tradotta da ROAR magazine #2), così come nell’articolo Tecnicamente Femmina, di Helen Hester (tradotto da Salvage Quarterly #3), e nel racconto distopico di Simone Marcelli I nostri lavori li facciamo di notte. Secondo Federici, una delle femministe che ha permesso la teorizzazione del concetto di riproduzione sociale, oggi per le donne è urgente creare spazi politici autonomi e affrontare temi come il lavoro salariato, la gestione dei beni comuni e la riappropriazione del concetto stesso di donna. Helen Hester affronta invece il tema della femminilizzazione delle tecnologie, come nel caso delle assistenti vocali di apple e microsoft, Siri e Cortana. Questo fenomeno dipende da una genderizzazione degli ambiti lavorativi secondo la quale i servizi di cura riguardano solo le donne.
Anche I robot ti ruberanno il lavoro? è tradotto dal secondo numero di ROAR magazine. Secondo Nick Srnicek e Alex Williams, due tra i più rilevanti teorici dell’accelerazionismo, milioni di lavoratori rischiano di perdere il loro stipendio a causa della progressiva automazione di molti settori produttivi. Chi ci ruberà il lavoro, per una volta, non sono i migranti. L’artista Guido Segni, in Conversazione con Giovanna Maroccolo, ne è felice, visto che ha delegato la produzione delle sue opere a sofisticati algoritmi per i prossimi cinque anni.
Nella sezione FICTION-NON-FICTION, in cui alterniamo narrativa a saggistica, per affrontare da diverse prospettive gli stessi temi, gli articoli di approfondimento politico sono intervallati da una serie di poesie di Ilaria Grasso, Davide Galipò e delle Brigate Poeti Rivoluzionari, e dal racconto Molla tutto e scappa, di Paola Ronco e Antonio Paolacci.
Potrebbe sembrare paradossale, ma parlare di superamento del lavoro e immaginare futuri in cui lo sfruttamento sia solo un ricordo è il modo migliore per guardare da una nuova prospettiva il lavoro che facciamo quotidianamente, le relazioni di controllo e potere alle quali siamo sottoposti, le disuguaglianze negli ambienti di lavoro in cui passiamo buona parte della nostra vita. Parlare di postlavorismo significa, prima di tutto, elaborare un’analisi critica del contemporaneo, stanare ingiustizie e alimentare il conflitto: è il lavoro di menelique.