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Gigi Riva e l’operazione circenses
Cinquant'anni fa il Cagliari di Gigi Riva vinceva lo scudetto. Una consolazione per la Sardegna trattata alla stregua di una colonia da sfruttare.
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[Lo scudetto del Cagliari] per me fu un evento straordinario, considerato anche sotto l’aspetto storico. Fu il primo vero ingresso della Sardegna nell’ambito italiano.
(Gianni Brera)
L’astrologia è una pseudoscienza, ma se mi chiedono ‹di che segno sei?› non posso rispondere altro che ‹Gigi Riva›. Nascere in Sardegna sullo scorcio degli anni Sessanta o nei primissimi anni Settanta del XX secolo porta con sé una collocazione astrologica calcistica.
Erano anni movimentati, quelli, non c’era solo il calcio a riempire le cronache e le attenzioni delle persone, in Sardegna come altrove. Ma in Sardegna, in quegli anni, un fenomeno sportivo e di costume senza precedenti si intrecciò in modo peculiare con i principali problemi socio-economici dell’isola. Per questo è impossibile parlare del Cagliari di Gigi Riva senza parlare anche di altro.
Tutto nasce all’inizio degli anni Sessanta. Il Cagliari ritornava in serie B dopo una brutale retrocessione in terza serie. Sembrava una rinascita. Attenzione alle parole: rinascita, teniamola a mente. La Sardegna dei primi anni ‘60, lungi dal beneficiare del boom economico postbellico, era debilitata da una crisi che sembrava non avere soluzioni. Si erano ormai concluse le campagne antimalariche finanziate dagli aiuti statunitensi, in particolare dalla Fondazione Rockefeller. La zanzara anofele era stata sconfitta definitivamente a dosi massicce di DDT, perciò anche le aree costiere, con le loro grandi zone umide, potevano essere riconquistate alla vita, alle attività umane, al progresso. Il che tuttavia avvenne in termini piuttosto singolari. Il destino dell’isola era deciso da forze e interessi che avevano progetti propri (anche di natura geopolitica), non necessariamente coincidenti con le aspettative e le necessità locali. A dispetto delle attese e delle promesse, lo stato decise di intervenire finanziando la realizzazione di due grandi poli petrolchimici, uno al sud dell’isola, presso l’abitato di Sarroch, vicino a Cagliari, l’altro al nord, presso Porto Torres. Il primo venne affidato a Angelo Moratti, il secondo a Nino Rovelli, due imprenditori lombardi. Era il Piano di Rinascita, previsto nello Statuto regionale e richiesto da tempo dalla politica locale. Contemporaneamente, veniva realizzata l’occupazione militare di ampie porzioni del territorio sardo, in nome e per conto della NATO, e nella zona chiamata Monti di Mola, in Gallura, sorgeva la Costa Smeralda. La disinvoltura con cui venivano pianificati questi interventi nell’isola da parte di entità politiche e economiche esterne si fondava sull’idea che la Sardegna fosse un luogo primitivo, desolato, passivamente disponibile. Un’informativa della CIA degli anni Sessanta ne parlava così:
L’Italia è una mega portaerei che si affaccia sul Mediterraneo, si sporge a est e sbircia a oriente. All’interno di questa mega portaerei c’è la Sardegna, che fa parte della portaerei, ma non ha il fastidioso problema della gente e delle città. Una sorta di ponte libero, ettari e ettari non cari, quasi spopolati ma comunque abitati da gente, i sardi, tenaci e coriacei, ma come risaputo incapaci di costituire movimenti collettivi o iniziative comuni. L’isola è povera, e per questo facilmente comprabile con poche centinaia di posti di lavoro nelle basi militari, da offrire come mangime a qualche compiacente politico nazionale e regionale.
Non è una Sardegna pacificata, quella in cui arriva dal cielo, pieno di dubbi e paure, il diciottenne varesino Luigi Riva, nell’estate del 1963. È l’isola misteriosa dei banditi e dei pastori, luogo di confino e di espiazione, barbarico rimasuglio di un passato ancestrale in un mondo in rapido progresso. O almeno, così veniva raccontata. L‘industrializzazione, le servitù militari e il turismo – benché presentati, ciascuno nel suo ambito, come possibili volani di sviluppo e riscatto dalla barbarie – deluderanno in tutto o in parte le aspettative. Ma allora, verso metà degli anni Sessanta, non si percepiva ancora lo sgradevole aroma della fregatura.
Il Cagliari sembrò incarnare, in quel momento, la volontà collettiva dei sardi di tirarsi fuori dal buio angolo provinciale e malsano di cui si sentivano prigionieri.
Il suo arrivo in serie A, nel 1964, la prima rocambolesca salvezza e l’impressione destata dal giovane Gigi Riva corroboravano tali sentimenti popolari.
Intanto però la Sardegna perdeva in pochi anni centinaia di migliaia di abitanti, nella sua prima grande emigrazione della storia. Dilagava la piaga dei sequestri di persona (altra novità tutta contemporanea). Le carenze nei servizi essenziali e nelle infrastrutture sembravano ben lontane dall’essere sanate. L’industrializzazione tamponò qualche malumore, ma ne alimentò altri, specie nelle aree escluse da tale misura. Le contraddizioni non erano solo motivo di mugugni privati, ma anche combustibile sociale e politico da tenere a bada. Emergeva una schiera di intellettuali, quasi sempre non incardinati a livello istituzionale o accademico, che metteva sotto esame la modernizzazione dall’alto, l’italianizzazione culturale e i meccanismi di dominio nel momento stesso in cui li vivevano sulla propria pelle. Nomi che in Italia dicono poco ma che nell’isola hanno posto le basi di un poderoso apparato teorico, ancora oggi fecondo. La società sarda stessa era in fermento, sulla spinta delle idee e degli esempi in circolazione. Assemblee popolari, manifestazioni studentesche, un dibattito ampio e trasversale a fronte di problemi strutturali di natura materiale e culturale ben evidenti a tutti. Nasceva l’indipendentismo. I successi del Cagliari calcio si inserivano in questo contesto.
Nino Rovelli, padrone della SIR di Porto Torres, pensò bene di tutelarsi dalla possibile coagulazione di un’opinione pubblica ostile acquistando i due quotidiani sardi
cioè l’Unione sarda di Cagliari e La Nuova Sardegna di Sassari. Allestirà anche una squadra di basket, ancora a Cagliari, la Brill, che arrivò a competere nei playoff scudetto.
Moratti invece, patron dell’Inter di Milano oltre che della SARAS di Sarroch, preferì l’ambito calcistico.
Quando il Cagliari si ritrovò a gestire una situazione finanziaria pericolante, per via delle spese che già allora comportava la competizione sportiva ai massimi livelli, fu lui a soccorrerlo, senza pretendere, almeno sulle prime, alcuna contropartita. La versione agiografica della vicenda attribuisce tale intervento a generosità e spirito sportivo: la Sardegna stava facendo tanto per Moratti e famiglia, era giusto che ricevesse qualcosa in cambio. Meno romanticamente, è chiaro che
un Cagliari forte faceva comodo come i circenses nell’antica Roma
valvola di sfogo e consolazione simbolica in una situazione in cui la Sardegna era più che mai trattata alla stregua di una colonia oltremarina da sfruttare. D’altra parte, i successi sportivi non potevano mutare da un giorno all’altro l’immagine stereotipata e coloniale della Sardegna. L’incapacità di cogliere la portata e la profondità delle trasformazioni in corso nell’isola è ben denunciata dalla narrazione mainstream che in Italia se ne faceva in quegli stessi anni. L’approccio più benevolo aveva comunque il sapore e le connotazioni di una visione paternalista, quindi comunque coloniale. Un documentario dedicato alle Zone Interne della Sardegna da Carlo Lizzani esordiva in questi termini:
Orgosolo, l’alba di un giorno del marzo ‘68. La Barbagia è la zona più interna della Sardegna, è un angolo dell’Europa ma non appartiene all’Europa, qui la cultura europea non è penetrata. A partire dal IV secolo a.C. la Sardegna ha subito molte dominazioni, però i dominatori, gli oppressori, non sono mai riusciti a conquistare la Barbagia. Nel resto della Sardegna vivono popolazioni influenzate dai costumi dei dominatori. Sono i sardi collaborazionisti prima africanizzati, semitizzati, romanizzati, in seguito spagnolizzati, piemontesizzati e adesso americanizzati. La Barbagia invece è la terra dei resistenti. I pastori barbaricini saranno forse all’anno zero della civiltà tecnologica, ma sono certo all’anno 3000 della loro civiltà, che è una civiltà con aspetti barbarici.
Nel campionato 1968-69 il Cagliari, allenato dal ‹filosofo› Manlio Scopigno, arrivò seconda dietro la Fiorentina. Poche settimane dopo la fine del campionato, il governo avviò l’occupazione militare di una zona di pascolo pubblico, in agro di Orgosolo (Nuoro), allora paese simbolo del banditismo. La popolazione lo considerò un sopruso inaccettabile, anche perché colpiva molte famiglie nell’attività lavorativa principale, l’allevamento. Uomini, ragazzi, vecchi e soprattutto donne occuparono pacificamente l’area in questione e sconfissero le pretese governative. Erano i cosiddetti ‹moti di Pratobello›, dal nome della zona interessata, nel giugno 1969.
Non credo che le vittorie del Cagliari abbiano avuto un effetto diretto sulla ribellione popolare a una misura punitiva collettiva, ma la consonanza è rilevabile. Anestetizzare le coscienze era necessario, per i padroni coloniali dell’isola (NATO compresa) e per la stessa politica istituzionale. Tuttavia, che i successi calcistici fossero il mezzo migliore per riuscirci era tutto da vedere.
L’intervento salvifico di Moratti comunque era stato efficace. Il Cagliari, sopravvissuto alla crisi e mancato d’un soffio lo scudetto del 1969, si rifece subito, conquistandolo nel maggio 1970.
Nell’ultima giornata di campionato, andò a battere e umiliare il Torino, a Torino. La città sabauda divenne il teatro della festa di migliaia e migliaia di sardi. Non male, come riscatto simbolico.
Il 25 ottobre 1970, con lo scudetto cucito in petto, il Cagliari affrontò a Milano proprio l’Inter di Moratti, per la quarta giornata d’andata del campionato 1970-71. Un bel pomeriggio autunnale. Il Cagliari dominò l’incontro. Si racconta che Sandro Mazzola a un certo punto chiese a Gigi Riva di non infierire. Finì 3 a 1 per il Cagliari. Gianni Brera, nell’occasione, ribattezzò Gigi Riva ‹Rombo di Tuono›. Era stato uno spettacolo impressionante. Lo è ancora oggi, attraverso le sgranate immagini televisive dell’epoca.
Pochi giorni dopo Gigi Riva si infortunerà gravemente con la Nazionale. Il cammino del Cagliari verso il secondo scudetto sarà compromesso e inizierà la parabola discendente sia del giocatore sia della squadra. Parabola discendente a cui non fu estranea la decisione di Moratti di disimpegnare se stesso e i suoi uomini da tutta la faccenda.
Nell’insieme, l’operazione circenses non aveva funzionato.
I successi del Cagliari avevano spiazzato tutti e avevano ridato dignità ai sardi, compresi quelli emigrati.
Una squadra provinciale, non del ricco Nord, sfidava e metteva in ombra le più blasonate squadre italiche. Come strumento di distrazione di massa e di contenimento del dissenso non sembrava più molto efficace. Moratti non solo tolse ogni sostegno al Cagliari, ma provò anche a comprare Riva, proponendo un prezzo esorbitante (si parlava di un miliardo e mezzo di lire, una cifra astronomica), ma non ci fu niente da fare. Così come non ci fu niente da fare per la Juventus, a sua volta desiderosa di accaparrarsi il campione.
Alla Juve fu Riva a opporre un netto rifiuto, non dimentico delle accoglienze ben oltre il limite del razzismo
ricevute dal Cagliari in occasione delle partite a Torino, così come a Milano, ma anche a Bologna e Firenze. Nel 1972 un gruppo di filosofi e scienziati di varie discipline, chiamato ‹Club di Roma›, pubblicò un documento, il Rapporto Meadows o Rapporto sui limiti dello sviluppo, che individuava con estrema lucidità i nodi irrisolti del modello economico dominante. Il 1972 fu l’ultimo anno di un Cagliari competitivo ai massimi livelli: arrivò quarto. Fu anche l’anno dell’accordo segreto tra governi italiano e USA per la cessione dell’isola di Santo Stefano, nell’arcipelago della Maddalena, come base per i sommergibili nucleari statunitensi. Circostanza a lungo ufficialmente negata. Sempre nel 1972 si conclusero i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla criminalità in Sardegna (un’idea originalissima) presieduta dal senatore Giuseppe Medici. Le sue conclusioni, racchiuse nella Relazione finale di maggioranza, individuavano nel sistema produttivo basato sull’allevamento, nonché sui suoi connotati culturali e sociali, la causa del sottosviluppo della Sardegna, in particolare delle sue Zone Interne. La proposta era di estendere i benefici dell’industrializzazione anche a quelle aree, onde destrutturarne il tessuto produttivo e socio-culturale. Un’operazione che di economico, come si vede, aveva poco. A tale raccomandazione venne dato seguito, nel 1974, col rifinanziamento del Piano di Rinascita e la creazione del terzo polo chimico, questa volta ubicato presso Ottana (Nùoro), antica sede di diocesi (come testimonia la maestosa cattedrale romanica di San Nicola), a lungo produttivo borgo agropastorale del medio bacino del Tirso. Un’ubicazione assurda, per un polo industriale, data la lontananza dalle fonti di materie prime e l’assenza di una rete di trasporti adeguata (quella ferroviaria non c’era affatto, né ci sarà mai). L’esperimento fallirà quasi immediatamente, prima ancora di aver finito di sfamare la prima generazione di lavoratori. Non senza aver ottenuto lo scopo principale: disarticolare l’economia locale e trasformare prima in operai poi in cassintegrati, quindi in disoccupati, centinaia e centinaia di ex allevatori e contadini, braccianti, piccoli artigiani. Con un lascito di inquinamento in gran parte ancora da indagare.
Nel 1973 la crisi petrolifera, quella dell’‹austerità› e delle ‹domeniche a piedi›, sancì la fine di un’epoca. I suoi effetti sulla Sardegna, votata all’industria petrolchimica, furono pesanti. Ci rimise in particolare l’impero dei Rovelli. La SARAS dei Moratti sopravvisse. In ogni caso, le glorie industriali si rivelavano tutt’a un tratto effimere e illusorie. Più delle glorie sportive, che se non altro rimangono negli annali e nella memoria collettiva. Il Cagliari retrocesse in serie B nel 1976 e Gigi Riva, subìto l’ennesimo grave infortunio, smise di giocare. La Sardegna non era uscita dalla sua condizione subalterna. Aveva perso la sua occasione. Non per pura malasorte. Il mondo stesso era ormai a una svolta. Finita l’Età dell’oro postbellica, chiusa la stagione delle speranze di rivoluzione sociale, della decolonizzazione e delle lotte giovanili, si apriva lo scenario di crisi sistemica che da allora, con alti e bassi, caratterizza la nostra contemporaneità.
La vicenda sportiva del Cagliari ha continuato a seguire l’andamento delle vicende socio-economiche e culturali sarde, con delusioni e sporadici riscatti, in una costante attesa di tempi migliori. È tuttora seguito da una delle maggiori tifoserie in Italia (e non solo). Rappresenta qualcosa di più della mera passione calcistica e della limitata dimensione cittadina, a dispetto dei timori che le proprietà che si sono avvicendate negli anni, i mass media e la politica hanno sempre assegnato a quest’aspetto ‹politico› del tifo. Sempre troppo forte il rischio che da strumento di distrazione e anestetizzazione delle coscienze diventi un catalizzatore di aspettative fuori controllo. Il fatto di appartenere, oggi, a un magnate lombardo dell’industria chimica, con interessi e attività nell’isola, già legato ai Moratti e all’Inter, è una sorta di déjà vu non troppo rassicurante. È anche una contraddizione emblematica della condizione storica irrisolta in cui ancora si dibatte la Sardegna.