Estratti dal cartaceo / 7 min
Io sono sardo e tu? Costruire un’identità per privatizzare un territorio
Così come il razzismo nacque in Europa per giustificare il dominio coloniale europeo, così il mito identitario sardo si formò per certificare la necessità della sottomissione e della privatizzazione dell’isola. Il terzo dei quattro pezzi sui miti dell'identità sarda e i suoi usi politici dal numero zero di menelique
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Perché è nato il mito identitario sardo?
E perché è stato costruito seguendo le coordinate della criminalità, dell’isolamento, dell’arretratezza e della valorosità barbarica? Bisogna guardare alla storia contemporanea sarda per trovare una risposta, nonostante la storia della Sardegna sia marginalizzata e ignorata da molti, sardi e non-sardi. Non cercate notizie storiche di questa isola nei manuali scolastici, perché le poche che troverete sono spesso approssimative e in molti casi vi troverete di fronte a veri e propri fake.
Partiamo dal dato dell’esistenza storica del Regno di Sardegna e saliamo quattro brevi gradini prima di voltarci e guardare dall’alto quella cosa complicata che è la costruzione di una identità culturale. Il primo gradino: un papa del XIII secolo. Il Regno di Sardegna fu inventato da Bonifacio VIII nel 1297 per risolvere la contesa sulla Sicilia tra francesi e spagnoli, cioè Angioini e Aragonesi, e divenne feudo di Giacomo II di Aragona.
Il secondo gradino: la fine di un antico stato e l’inizio di un impero dove il sole non tramonta mai. Dopo una lunga vicenda bellica, il Regno di Sardegna fu realizzato compiutamente nel XV secolo, in seguito alla sconfitta di uno stato autoctono e indipendente, il Giudicato di Arborea. Fu quindi regno della composita Corona d’Aragona e entrò di diritto nell’impero spagnolo fondato da Carlo V. Dotato di istituzioni, di leggi e di prerogative proprie, visse un’esistenza lineare per tre secoli, con una classe aristocratica di origine spagnola, ma ormai radicata in Sardegna.
Il terzo gradino: i Savoia, aristocratici provinciali. La Guerra di successione spagnola, grande conflitto che inaugurò il Settecento europeo, consegnò il trono sardo ai Savoia, che avevano avuto l’unico merito di essere passati da un campo all’altro in corso d’opera, trovandosi alla fine dalla parte dei vincitori. Per nulla soddisfatti di doversi accollare la Sardegna, ma lieti del nuovo titolo monarchico acquisito, i Savoia trattarono l’isola come un fastidioso problema. Provarono a ridisegnarne l’amministrazione in termini centralisti, autoritari e italo-centrici che scontentavano la già ostile aristocrazia, mortificavano l’esigua borghesia, accrescevano il controllo sociale e la pressione fiscale sulle classi popolari.
L’ultimo step: la rivoluzione. La riforma delle due università sarde di Cagliari e Sassari, voluta dai Savoia per rendere più efficienti i funzionari amministrativi e giudiziari, produsse anche una nuova classe intellettuale che dal 1793 guidò una forte contrapposizione politica contro l’apparato di governo piemontese. Ne venne fuori una rivoluzione, evento storico di portata sovralocale ma del tutto ignoto ai più. La rivoluzione, benché largamente condivisa in diversi ceti sociali e in molti territori dell’isola, fu sconfitta e repressa, e il suo eroe principale, Giovanni Maria Angioy, morì in esilio e in povertà. La Rivoluzione sarda segna il passaggio dalla Sardegna di Antico Regime alla Sardegna contemporanea. Ora possiamo quindi voltarci e guardare con più consapevolezza al momento in cui si compongono i tasselli di questa costruzione identitaria.
Fallita la rivoluzione, la classe dominante sarda aveva fatto una scelta strategica: rinunciare a qualsiasi velleità di autogoverno e assumere un ruolo di intermediazione tra l’isola e un potere esterno, quello dei Savoia, a cui votarsi e da cui ottenere legittimazione.
Questa è la cifra che ha assunto da allora la politica istituzionale in Sardegna, fino a oggi. Verso metà Ottocento, una parte dell’élite sarda chiese e ottenne dal re Carlo Alberto l’abolizione di tutte le prerogative e di tutte le istituzioni proprie del Regno di Sardegna, in nome di un’auspicata Fusione Perfetta con i possedimenti di terraferma. L’idea era di integrarsi in un contesto più ampio, favorendo consistenti interessi familiari e di classe. La scommessa si rivelò perdente. La richiesta fu accolta e realizzata, ma nel momento sbagliato, quello in cui iniziava il Risorgimento italiano. La Sardegna veniva sbalzata da una posizione di peso dentro lo stato dei Savoia a una posizione marginale e periferica nel nuovo stato unificato italiano.
Con l’abolizione del feudalesimo e la modernizzazione (leggi: privatizzazione) dell’uso della terra, l’intera economia sarda fu appaltata a gruppi di interesse o avventurieri in cerca di fortuna, quasi sempre forestieri.
La rapacità e le spoliazioni di questo modello economico divennero proverbiali nell’immaginario collettivo. La Sardegna si ritrovò ridotta al ruolo di colonia oltremarina. A poco valse il formarsi delle prime prese di posizione autonomiste e le rivendicazioni di una parte dell’establishment culturale. La subalternità dell’isola era ormai realizzata. Ora andava giustificata. Così come il razzismo nacque in Europa per giustificare il dominio coloniale europeo, così il mito identitario sardo si formò per certificare la necessità della sottomissione e della privatizzazione dell’isola.
Nemmeno il Sardismo, movimento che sin dal primo dopoguerra mirava all’autonomia amministrativa, riuscì a emanciparsi da questa cornice penalizzante.
Sia l’Italia risorgimentale, sia quella fascista, sia quella repubblicana non hanno mai abdicato al proprio ruolo di padrone coloniale, spesso esercitato con toni paternalistici e benevoli, ma non meno drastico nei fatti.
Il totale disinteresse per investimenti infrastrutturali, l’asservimento militare, l’imposizione di un modello industriale obsoleto e la prima grande emigrazione di massa dell’isola sono tutti fenomeni recenti, collocabili dal secondo dopoguerra in poi, e tutti ampiamente giustificati dalla mitologia identitaria. Persino il Cagliari di Gigi Riva fu anche, se non soprattutto, un’operazione di stampo coloniale, sebbene non del tutto riuscita e quindi abbandonata presto. Alla minorizzazione culturale e ai dispositivi di controllo e repressione rispose, dagli anni Sessanta, il nascente indipendentismo, nuovo approccio culturale, ancor prima che politico, alla questione sarda. Ma questa è una vicenda ancora in corso.