Design nel postcapitalismo
Il ruolo del design richiede nuovi riferimenti teorici e nuovi ambiti di ricerca che affrontino le aree problematiche della nostra contemporaneità.
Nel mondo del design contemporaneo sembra lievitare un bisogno di nuove resistenze e risposte che puntano l’attenzione su scenari di superamento del capitalismo neoliberista. Torna al centro l’urgenza di generare traiettorie, pur se ancora indeterminate, capaci di incidere sulla formazione del nostro quotidiano, di popolare nuovi territori d’indagine teorica e operativa. Il progetto si assume la responsabilità di proporsi come dispositivo di visione, di interpretazione del reale spingendosi a prefigurare un futuro possibile. Benvenuti, dunque, in tempi interessanti. Cosi Slavoj Zizek definisce la nostra contemporaneità, una nuova condizione in cui la crisi economica è diventata permanente, e ormai è il nostro modo di vita. Un cambiamento radicale che ha frantumato certezze e opportunità, producendo un senso di smarrimento diffuso e lo spettro dell’inutilità per intere generazioni. È necessario concentrarsi su una valutazione non soltanto economica, ma sociale, affettiva, politica del progetto, poiché ogni forma di progettazione è trasformazione, quindi produzione, creazione di mondi.
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Compito del designer autentico è quello di non esaurirne il mistero e svelarcene di sempre nuovi.
Il design deve misurarsi con una condizione inedita, determinata da bisogni e scenari in costruzione, generati dal capitalismo finanziario e delle piattaforme, dai social media, dal dilagare dell’intelligenza artificiale, dai Big Data. Si tratta di un mondo caratterizzato da relazioni umane sempre più determinate da analisi e condotte predittive che puntano a anticipare la formazione di soggettività definite eliminando la possibilità di conflitti e reazioni. Tutti i servizi di un colosso multinazionale e globale come Amazon, cresciuto enormemente nella pandemia in corso, sono basati su questa logica dell’anticipo, della determinazione preventiva di qualsiasi volontà.
E chi ci dice che anche i futuri governi non siano configurati in maniera simile?
La nostra capacità di agire/agency è minacciata non solo dalla pandemia in corso ma da un capitalismo delle piattaforme sempre più agguerrito nell’estrazione di profitto dalle nostre relazioni social. Il nostro tempo è dominato dal passaggio da una tecnologia che facilita la comprensione del mondo a una sfera prevalentemente digitale che vede nel web non uno spazio pubblico, dell’agire collettivo e comunicativo, ma che ricade molto più nella cornice di un’economia privata governata da regole poco chiare. Un sistema economico fuori controllo che immiserisce molti e continua a allargare il divario tra ricchi e poveri; il collasso del consenso politico e sociale in tutto il mondo con conseguente aumento dei nazionalismi, delle divisioni sociali ci riguarda tutti. Le nuove tecnologie non si limitano a aumentare le nostre capacità, ma le modellano e le guidano attivamente, nel bene e nel male. È sempre più necessario essere in grado di pensare alle nuove tecnologie in modi diversi e di essere critici nei loro confronti, al fine di partecipare in modo significativo ai processi che generano e provare a dare una direzione più inclusiva. Nasce da qui il desiderio di provare a indagare la complessità delle nuove tecnologie e suggerire degli scenari alternativi che potremmo definire postcapitalistici.
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Un primo input ruota attorno alla proposta di una diffusa alfabetizzazione attorno alle tecnologie di rete. Con questo ampio processo di conoscenza, si desidera sottolineare come si possa creare l’opportunità per tutte e tutti di interagire con tali tecnologie e quindi partecipare al loro design e agli effetti che ne conseguono. Perché questo avvenga occorre una profonda riforma dell’educazione che insegni sia le competenze informatiche di base che quelle di ingegneria dei sistemi più complessi portando un focus orientato verso l’etica e le conseguenze di queste discipline storicamente a/politiche. Viviamo una manipolazione di massa e occorre lavorare per rendere più inclusiva la tecnologia attivando processi che portano gli utenti a impegnarsi, a comprendere meglio i sistemi e essere in grado di fare di più, e soprattutto di operare scelte migliori per la loro socialità e la loro sfera relazionale. Dalle fake news della politica ai flash crash della finanza, dai fallimenti della scienza ai disturbanti video per bambini prodotti dagli algoritmi di YouTube, ci muoviamo tra gli incubi di un presente in cui il peggio deve ancora arrivare. Uno scenario che mette in gioco questioni politiche ampie dove la tecnologia dovrebbe aiutarci a illuminare le questioni più urgenti, invece ci ha precipitato in un pozzo oscuro in cui a proliferare sono teorie del complotto, sorveglianza di massa, crisi del pensiero e catastrofe ambientale. Non a caso James Bridle, uno dei più attenti osservatori di questi fenomeni dedica uno dei passaggi centrali del suo saggio Nuova era oscura alla cognizione svelando come ‹alcune delle operazioni delle intelligenze artificiali creano nel mondo un’inconoscenza: immagini nuove, volti nuovi, eventi nuovi, sconosciuti o falsi. Non siamo inermi, non siamo limitati dall’oscurità. Dobbiamo solo pensare e poi ripensare, e poi continuare a farlo. La rete – cioè noi e le nostre macchine e le cose che scopriamo insieme – ce lo impone›. Il design deve misurarsi con questa dimensione operando una trasformazione radicale dei propri riferimenti.
DAGLI OGGETTI AGLI IPEROGGETTI
È il nostro quotidiano immanente, il terreno sul quale il design e i designer devono e dovranno confrontarsi: con la consapevolezza che dal grado di profondità del proprio sguardo dipende non soltanto il valore della loro produzione ma soprattutto il proprio stesso destino. Sono le questioni più complesse e inevitabili del nostro tempo quelle con cui occorre mettersi in relazione. Negli anni 90 abbiamo assistito a una diffusione di entusiasmo rispetto al proliferare delle tecnologie digitali e di rete. Una fase che ha visto il formarsi di tecno utopie basate sull’esplorazione, l’allargamento delle conoscenze. Tecnologia come apertura su nuovi mondi da scoprire.
Un immaginario esploso come una bolla che ha esaurito la percezione diffusa delle tecnologie digitali come macchina di emancipazione lasciando il posto a un insieme di spazi chiusi nei quali accesso e circolazione dei contenuti sono controllati.
Comunità parallele che competono con i governi statali nella determinazione di regole fatte di inclusione selettiva e precarizzazione diffusa. Uno scenario che caratterizza il secondo decennio degli anni 2000, attraversato da una profonda crisi economica, dal ripiegamento dei desideri e da sentimenti di paura. In questa cornice, i confini del lavoro (e le pratiche sociali che lo caratterizzano) vengono radicalmente ridefiniti.
Nascono forme di comunità inconsapevoli o complici di una dinamica capitalistica che si fonda sull’espropriazione di beni pubblici o comuni e sulla valorizzazione di attività gratuite o volontarie.
Da un lato, quindi, viene messa in atto una mercificazione di testi, progetti e immagini che sono presenti nella rete e di uso comune, dall’altro vengono messe a valore le interazioni sociali e le esperienze condivise in rete, in una logica che ricalca il diffondersi del lavoro volontario e non retribuito. Nonostante questo quadro a tinte oscure, c’è chi continua a essere impegnato in tentativi di trasformazione sociale che fanno leva sulle possibilità di organizzazione collaborativa di importanti ambiti dei processi economici. Questi tentativi non solo mettono in discussione i confini tra lavoro, opera e attività, per come sono stati finora intesi, così come il valore che viene loro attribuito, ma si estendono fino a toccare istituzioni che apparivano intoccabili, come la moneta o la finanza.
Sono azioni concrete nella direzione di scenari postcapitalistici.
È il caso del progetto DECODE (Decentralised Citizens Owned Data Ecosystem), un esempio di innovazione etica e tecnologica nel campo dell’informatizzazione delle città. DECODE è un progetto di ricerca sostenuto dalla Commissione Europea e coinvolge città come Barcellona e Amsterdam. Un’infrastruttura digitale pubblica che garantisce ai cittadini la sovranità sui propri dati, evitando che le multinazionali informatiche li estraggano e li mettano sul mercato per puro profitto. Uno dei protagonisti del gruppo di lavoro è Jaromil/Denis Roio di Pescara che oggi vive a Amsterdam e lavora come direttore esecutivo per la fondazione Dyne.org. Designer, hacker e attivista si è sempre ispirato all’etica del software libero e open source. Dal 2011 contribuisce al progetto Bitcoin, una tecnologia crittografica decentralizzata per la circolazione di valore in rete senza bisogno di intermediari, autorità centrali o banche. Jaromil ha ricevuto per le sue ricerche e i suoi progetti il premio Vilém Flusser Theory Award dal Vilém_Flusser_Archive, Universität der Künste di Berlino.
Il gruppo di lavoro coinvolto nel progetto Decode afferma con nettezza che i dati aggregati delle città, dati che hanno un grande valore per la fornitura di servizi distribuiti e l’analisi del territorio, devono essere accessibili a tutte le organizzazioni che vogliono farne uso in modo etico
secondo le preferenze dei partecipanti e le leggi che regolano il diritto alla privacy. Grazie all’eccellente coordinamento di Jaromil, il progetto DECODE ha dato vita a un nuovo software libero – Zenroom.org – che facilita il controllo, la protezione e l’autenticazione di flussi di dati negli ambiti più svariati, usando tecniche di crittografia avanzata. DECODE sottolinea la necessità per il mondo del progetto di cercare trasformazioni più radicali della realtà non più limitate alla sfera degli oggetti e dei comportamenti ma aperte su sistemi più complessi come le infrastrutture digitali che stanno plasmando il mondo. È necessario che i progettisti lavorino in modo più critico in questi contesti, analizzando queste infrastrutture e ripensando a come partecipiamo al loro interno. Il design assume il nuovo compito di provare a costruire un linguaggio comune per un mondo nuovo. ‹We are here and we won’t go back›.
I designer sono chiamati a rivendicare una prospettiva che non è realizzabile immediatamente ma deve essere pensata e avviata per cogliere le possibilità operative e politiche offerte dagli scenari del postcapitalismo.
Un sistema dove il sapere, unito all’immaginazione, costituisce il capitale primo da valorizzare. Siamo costantemente incitati a partecipare nel processo produttivo apportando la nostra cultura, le nostre esperienze al servizio della produzione stessa e della sua incessante innovazione. C’è un’inesorabile difficoltà a formalizzare, e quindi a misurare, proprio questo crescente coinvolgimento soggettivo, tale da mettere in discussione la stessa nozione di valore che permette il funzionamento del modo capitalistico di produzione.
Infatti il lavoro del designer sfugge a una traduzione e misurazione in unità semplici, ovvero non è disponibile in termini di lavoro calcolabile, quantificabile. Ogni tentativo di una sua formalizzazione ne rappresenta al contempo un impoverimento e ciò che va perduto è proprio quel marchio personale che maggiormente interessa al capitale. Il designer mette oggettivamente in scacco il sistema ponendo in essere i limiti della riduzione dell’attività umana a produzione di merci in vista del loro scambio. La difficoltà di far funzionare con regole capitalistiche ciò che vi sfugge perché non ha un valore oggettivabile, pone la necessità storica, espressa da Paul Mason del passaggio a un’economia plurale, ovvero di un’economia che si apre a pratiche d’inclusione, a altre modalità di soggettivazione che sfuggono a una valutazione immediatamente quantitativa. Lo sfruttamento attuale del cosiddetto general intellect, di quel bagaglio culturale elaborato da un’intera collettività in attività extralavorative, non remunerate e perciò prive di un valore di scambio, evidenzia come il sistema di produzione capitalistico si alimenta sulla predazione di risorse, di visioni progettuali. L’intelligenza, la cultura, la creatività sono oggetto costante e crescente di messa a valore da parte del capitale. È possibile pensare e praticare un nuovo concetto di partecipazione del design ai processi di ridefinizione del mondo. È in gioco la ripresa di una radicale consapevolezza dove la riflessione attorno allo statuto disciplinare del progetto appare come sterile. Di fronte alle dinamiche culturali e economiche della contemporaneità, i designer rivendicano una rilevanza sociale con pratiche segnate da processi transdisciplinari e il valore dei contenuti è dato da una capacità critica della realtà in grado di mettere in discussione gerarchie e strutture. Occorre cogliere l’invito a mettersi in gioco e verificare se c’è un’intensità che produce degli effetti di trasformazione. Anche Salvatore Iaconesi e Oriana Persico con il loro lavoro attraversano arte, scienza, performance e design utilizzando una varietà di strumenti e tecniche per analizzare il territorio nel suo sovrapporsi agli strati invisibili dell’universo digitale. Mettendo in campo nuove metodologie di osservazione aiutano a leggere le trasformazioni ‘tecno-ambientali’ del territorio, in particolare quello urbano, per renderle comprensibili e quindi utili. Il progetto AOS – Art is Open Source è un’infrastruttura digitale per visualizzare il tessuto urbano nel suo conformarsi in un ‹ecosistema umano›, attraverso tempo, spazio e relazioni, e sulla base di dati catturati dai social network in tempo reale. Un insieme di informazioni e visualizzazioni restituiti come un bene comune, diffuso e condiviso che rivela in maniera facilmente accessibile quale impatto possono avere sul territorio. La tecnologia è una condizione ambientale e inevitabile, la respiriamo, la viviamo, è ormai registrata nei nostri codici genetici e si relaziona con noi in un rapporto simbiotico. Il confine tra reale e virtuale, tra naturale e artificiale non ha più motivo di esistere. Salvatore Iaconesi e Oriana Persico analizzano le trasformazioni generate dalle tecnologie digitali con spirito da etnografi e con modalità peer to peer. L’ambito di riferimento è quello della cultura, dei luoghi che la ospitano, degli autori che la producono, dei cittadini che la fruiscono. Attraverso la costruzione di ecosistemi digitali AOS rende visibile la diffusione della cultura e come questa impatta nella griglia urbana attraverso il filtro dei dispositivi mobili. L’appropriazione di dati e la loro organizzazione attraverso visualizzazioni info-estetiche ci restituiscono una complessità di collegamenti e di relazioni in formule leggibili. In questo modo si rende visibile il territorio che abitiamo, quello che si interseca con le architetture delle stratificazioni digitali. Soprattutto ne tratteggiano la morfologia, un insieme di forme che si apre a un’ampia fruizione libera da parte di chi abita le città. Architettura, design, arte, scienza, antropologia, sociologia tutto torna in un discorso collaborativo e interdisciplinare. L’obiettivo è politico e sta nella formulazione di un metodo che funzioni come sistema di allenamento mentale a un pensiero trasversale, un esercizio per implementare un campo visivo, uno sguardo capace di muoversi in ambienti digitali complessi. ‹Tutti i nostri progetti trattano della creazione di nuovi spazi liberati che possono servire per l’espressione autonoma di esseri umani e delle comunità, ridefinendo le idee di spazio pubblico, di identità, di conoscenza e della possibilità di condividere e lasciare liberamente emergere, diffondere e ricombinare. Per fare questo, creiamo ulteriori strati di realtà che sono strettamente intrecciati con le pratiche della nostra vita quotidiana e che sono progettati per consentire alle persone di codificare autonomamente il mondo›, così definiscono la loro pratica Salvatore Iaconesi e Oriana Persico
Da una prospettiva più critica è opportuno comprendere meglio questi scenari, la forma sociale del medium digitale.
Il capitalismo e la sua comunicazione digitale danno forma a una deriva caratterizzata dal controllo delle menti piuttosto che dei corpi, un controllo che sarebbe sostanzialmente raggiunto controllando le informazioni personali attraverso i sistemi di big data e data mining.
DALLA BIOPOLITICA ALLA PSICOPOLITICA
Dallo sfruttamento dei corpi alla manipolazione delle menti. Un passaggio dalla biopolitica allo psicopotere: si tratta di un sistema governato da algoritmi e strategie predittive che nasce con l’obiettivo di influenzare le scelte e costruire una trappola perfetta. Epicentro di questo passaggio è la Silicon Valley, luogo con la più alta concentrazione di designer del pianeta.
Lo psicopotere delle società contemporanee è ciò che viene dopo la biopolitica delle società del controllo, perché si basa sul potere che hanno i media digitali di fare previsioni sul comportamento delle persone attraverso i dati. Il problema di vivere nel bel mezzo di una rivoluzione ovvero la trasformazione più profonda del nostro ambiente informativo, lavorativo e relazionale dall’invenzione della stampa di Johannes Gutenberg (1439 ca), ci mette di fronte all’impossibilità di avere una visione lunga di ciò che sta accadendo.
Se guardiamo allo stato del design ci rendiamo conto di come questa disciplina debba incarnarsi negli ambienti ibridi, fisici e virtuali delle società in evoluzione.
Questo ruolo del design richiede nuovi riferimenti teorici e nuovi ambiti di ricerca che affrontino le aree problematiche della nostra contemporaneità.
La prevedibilità statistica degli esseri umani misurata dalle procedure automatiche suggerisce un nuovo equilibrio di potere tra esseri umani e agenti artificiali. Il pattern recognition è una delle principali attività che gli algoritmi eseguono sui dati. Si tratta di un metodo per astrarre regolarità e modelli da una massa di informazioni. I giudizi emessi dagli algoritmi sono considerati neutrali e affidabili di per sé solo per il fatto che i loro metodi sono rappresentati attraverso sistemi matematici e logici.
Ci affidiamo agli algoritmi sempre di più, sebbene sappiamo che sono agenti artificiali opachi e che aziende private, con i loro scopi di profitto, li hanno prodotti.
Il sempre più diffuso sistema di intelligenza artificiale è intessuto di questi strumenti e sta diventando sempre più importante anche nel supportare le decisioni, le nostre scelte.
Dobbiamo fare attenzione perché l’intelligenza artificiale non è una nozione astratta che può essere definita obiettivamente e universalmente e quello che siamo preparati a considerare intelligente dipende non solo dalle capacità del sistema, ma soprattutto dall’ignoranza o dalla mancanza di esperienza dell’osservatore.
È cruciale, quindi, stabilire in anticipo quali caratteristiche siamo pronti a attribuire alla macchina. È qui che si apre lo spazio del postcapitalismo, di una possibile alternativa capace di determinare eticamente le scelte sui contenuti.
La fiducia cieca nel potere di anticipazione degli algoritmi rischia di produrre conseguenze sgradite sul rispetto dei diritti sociali e lavorativi dei soggetti più deboli, anche per il carattere prescrittivo delle previsioni algoritmiche.
Un esempio dell’esito pregiudiziale di questi strumenti è fornito dalla ricercatrice e attivista Joy Buolamwini. Il progetto Gender shades analizza strumenti commerciali di riconoscimento facciale per misurare la loro capacità di distinguere maschi e femmine dal volto. Lo studio della ricercatrice ha mostrato che tutti i software analizzati faticano a riconoscere i volti delle donne con la pelle scura. La studiosa ha fondato la Algorithmic justice league per combattere ingiustizie sociali e pratiche discriminatorie esercitate attraverso l’uso inadeguato di dati e algoritmi. L’invito che ci viene da Joy Buolamwini è quello di negoziare politicamente con chi è in controllo di queste valutazioni, come sono espresse, cosa è codificato nei dati.
È stato dimostrato tecnicamente che non esiste l’obiettività algoritmica. È necessario che gli algoritmi usati per supportare le scelte personali e collettive, in ambiti che riguardano la giustizia sociale e la lotta alla discriminazione siano valutati e controllati pubblicamente e periodicamente. I giudizi espressi dagli algoritmi hanno a che fare con il potere economico e sociale per cui sono uno strumento profondamente politico e decisionale che cambia il corso e il destino delle persone. Il sistema di valutazione, la definizione di successo, il modello di astrazione dei dati sono tutti passaggi che includono decisioni etiche che riguardano gli esseri umani e sono prese da programmatori al servizio di multinazionali. È necessario preservare e rivendicare il diritto a una negoziazione sociale degli algoritmi e non consentire la segretezza di metodi che impattano sulla possibilità di discriminazione e sul rispetto dei diritti sociali. La lotta per l’affidabilità e l’equità degli algoritmi è politica e va combattuta su questo terreno. È in questi spazi politici che il design trova i nuovi territori d’azione.
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Design, menelique magazine #4, inverno 2020/2021.
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Indice:
Editoriale
di Giovanni Tateo
Hackerare l’algoritmo
di Iyo Bisseck
Note dall’Iraq
di Karim Sultan
BDSM ≠ Fashion Design
di Sofia Torre
Rigenerare la moda
di Viola Stancati
Data Science Co-op
di Susan Calvin
Cut-up
di Ilaria Grasso Ubaldo Ciccione Francesca Corno
Migrante
di Mubanga Kalimamukwento
Design in numeri (infografiche)
Player2: gaming e design
di Matteo Lupetti
Complementi
di Rémy Ngamije
Eternamente 13
di Salvatore Iaconesi
Ubuntu
di Mugendi K. M'Rithaa
Il design diluito
di Silvio Lorusso
Architettura radicale
di Ross K. Elfline
A for Anything
di Benedetta Crippa
Entreprecariat
di Silvio Lorusso
Lea Cáceres
di Giovanna Maroccolo
Kulture Room
di Daniele Ferriero Marco Petrelli Marianna Rossi Danilo K. Kaddouri Marcello Torre
Indice Episodi online (su menelique.com):
Design nel postcapitalismo
di Marco Petroni
Scenografie politiche
di Parasite 2.0
Il design dell’illusione
di Alessandro Longo
Il modello mediterraneo
di Alex Giordano
L’eredità coloniale nel design (da Decolonising Design)
di Ksenija Berk