NET08 DESIGN, #4 / E02

Scenografie politiche

Architettura, scenografie e propaganda politica.

Scenografie politiche

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La relazione implicita tra design e politica, intesa come spazio immaginato, costruito e performato, ci spinge continuamente a trovare nuovi modi per abitarlo. Estremizzazioni di queste dinamiche sono facilmente osservabili nella necessità di costruire il luogo della propaganda politica e del come la progettazione delle architetture e degli oggetti che lo caratterizzano, rimandino al mondo della scenografia, alla costruzione di stratagemmi e dispositivi rappresentativi di visioni e ideologie.

 

DALLE ILLUSIONI BELLICHE ALLA PROPAGANDA POLITICA

Nella storia delle grandi guerre, sono numerosi i casi dell’uso di scenografie per eludere nemici e sabotare azioni militari di vario tipo. Uno dei più famosi è sicuramente la finta Parigi costruita alla fine della Prima Guerra Mondiale, tra il 1917 e il 1918, quando dopo le prime sperimentazioni con lampade all’acetilene per riprodurre i classici boulevard cittadini, il Ministero per l’Aviazione e l’Autorità all’Aviazione Civile autorizzò il ciclopico progetto scenografico che mirava a eludere i bombardamenti tedeschi. Va tenuto in considerazione che durante la prima guerra mondiale i bombardamenti avvenivano la notte per evitare l’artiglieria antiaerea e gli aerei in uso non avevano nessuna forma di radar. L’ingegnere Fernand Jacopozzi fu incaricato di redigere un piano per l’operazione che, ancora una volta, fece principale affidamento sull’uso dell’illuminotecnica. Come raccontato da Pierre-Marie Gallois nel suo libro Quand Paris était une ville-lumiére (Quando Parigi era una città di luci›), finte stazioni ferroviarie, piazze e viali, simulate da piccole luci saggiamente posizionate nella foresta di Saint-Germain, avrebbero dato al nemico l’illusione di sorvolare Parigi

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Ma come spesso capita per queste titaniche opere, il progetto venne abbandonato per difficoltà tecniche e infine per l’armistizio del Novembre 1918. Durante la Seconda Guerra Mondiale però, una simile operazione avviata dai Britannici, andò in porto. Per disertare gli aerei tedeschi, l’aviazione Inglese approfittò delle scarse tecnologie dell’epoca a disposizione degli aviatori i quali in possesso di mappe, compassi, indicatori di velocità e foto aeree erano chiamati a individuare i bersagli. L’ingegnere reale John Turner reclutò set designerteatrali e cinematografici per costruire delle finte basi aeree satellite con relativi finti aeroplani. Attraverso un atto performativo e coreografico, durante i bombardamenti una serie di militari sul posto davano fuoco e simulavano dei danneggiamenti alle strutture. Dopo le basi aeree, come per Parigi, passarono alla riproduzione di intere città. Anche se i risultati sono stati spesso discussi criticamente, si dice che almeno 730 bombardamenti siano stati evitati grazie all’uso dell’illusione scenografica.

Dai missili di cartone di Kim On Jung ai carri armati gonfiabili dell’esercito fantasma americano, l’uso del meccanismo dell’illusione per uso militare ricorre ampliamente nella storia umana. Ma come per ogni innovazione militare che si rispetti, il passaggio dal campo di battaglia alla vita di tutti i giorni è semplice. 

Attraverso l’uso di scenografie, si dà vita al meccanismo dell’illusione, costruendo realtà possibili. 

Le diverse ideologie politiche avevano già compreso il valore e le possibilità di questi meccanismi. Dalla scenografie come artefatto illusorio nella vecchia guerra, alla scenografia come strumento politico, immagine di un’ideologia. È in Russia, ben prima delle due grandi guerre, che una delle più grandi e sofisticate illusioni a scopo politico viene  realizzata: il villaggio Potemkin.

La particolare storia ebbe inizio con l’altrettanto particolare amore del ministro Grigory Potemkin verso l’imperatrice russa Caterina II. A seguito dell’annessione della Crimea alla Russia, Potemkin venne nominato governatore della regione, allora chiamata anche Nuova Russia. Dopo l’annuncio da parte dell’imperatrice del suo viaggio di 6 mesi della Nuova Russia, il neo-governatore orchestrò una vera e propria messa in scena grazie all’impiego di semplici strumenti: le scenografie.

Per impressionare l’imperatrice, Potemkin ricoprì con finte facciate di cartapesta e scenografie dipinte il povero e desolato villaggio, cercando di farlo apparire invece preciso e luccicante.

Da quel momento in poi, il termine villaggio Potemkin verrà utilizzato in campo economico e politico per descrivere ogni qualsiasi costruzione (letterale o figurativa) il cui solo fine è di fornire alle persone un’immagine prettamente di facciata di un Paese che sta andando male, facendogli invece credere che stia andando tutto bene›.

Cosa differenzia però una facciata esterna di calce e mattoni che definiamo architettura, da una finta facciata scenografica? Per lo scopo dell’affermazione di un’ideologia, esattamente nulla. Si tratta di dispositivi, quello che Giorgio Agamben chiama Apparatus, ovvero una organizzazione di pratiche, dispositive e significati che sono materialmente costruiti e materialmente emozionanti›.

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PROGETTARE L’UOMO MODERNO

Possiamo quindi facilmente affermare che le diverse ideologie politiche nella storia, essendo esse stesse prodotto della mente umana, hanno spesso utilizzato la scenografia e l’architettura come tale, come mezzo propagandistico e di affermazione. Come per l’ideologia politica, l’architettura non è altro che un prodotto umano, un artificio, che ci consente di dare vita al concetto di natura, che senza il suo opposto, non esisterebbe. Ma da dove nasce questa distinzione? Risale forse perfino alla definizione di architettura.

Nel famoso Trattato sull’Architettura del maestro Rinascimentale Antonio Averlino, meglio conosciuto come Filarete, nel primo di due disegni accostati, un uomo nudo si trova in piedi su una roccia galleggiante nel vuoto, spaventato e nell’atto di portare le mani sopra il suo capo con l’intento di proteggersi da una tempesta. Nel secondo disegno troviamo invece una costruzione primitiva fatta di tronchi e rami. Filarete raffigura il momento in cui Adamo, cacciato dal Paradiso, si confronta con la violenza della natura e mima il gesto della creazione di un rifugio, attribuendo così la realizzazione del rifugio primordiale al Primo Uomo. 

I disegni sottolineano come l’architettura, espressa sotto forma di un riparo, stia alla base dell’idea occidentale di umanità. 

È un atto primordiale e primario nell’eterna lotta tra uomo e natura; il manufatto umano che ha dato vita alla violenta divisione tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale. È in un certo senso un oggetto normativo. È la risposta umana necessaria all’ira divina. Secondo i canoni cristiano cattolici, che lo stesso Filarete appoggiava, sarebbe quindi un dono divino. Quell’oggetto è inoltre matrice del modello cristiano e di quella che oggi è a tutti gli effetti l’unità produttiva del capitalismo, la famiglia patriarcale con una visione prettamente maschilista. 

È Adamo che dà vita a questo manufatto, Eva non è presente in questo momento di creazione. 

Allo stesso tempo, l’architetto uomo, acquista un’aura divina e in quanto creatore si avvicina a Dio e alle sue magiche facoltà, plasmando il suo habitat.

L’architettura è quindi non solo affermazione dell’uomo sulla natura, ma anche affermazione del potere sul resto degli esseri umani. Trasformare e dare forma all’ambiente dove viviamo, infatti, non è altro che una grande imposizione, una manifestazione del potere. È facile ricordare il valore dell’architettura nel terzo Reich, nell’Italia fascista o nella Russia Stalinista, dove le sette sorelle di Mosca spiccano ancora.

L’esempio forse più lampante del binomio potere-architettura lo ritroviamo durante l’Esposizione Internazionale di Parigi del 1937. 

In un’Europa caratterizzata da equilibri geopolitici molto labili e che sarebbero definitivamente crollati nei successivi due anni, Parigi diventa per sei mesi il palcoscenico della propaganda della Germania nazista di Hitler e della Russia sovietica di Stalin. Secondo un copione scritto alla perfezione, i padiglioni delle due nazioni si innalzavano uno di fronte all’altro: la gigantesca aquila con una bandiera nazista tra gli artigli si stagliava di fronte alla statua L’operaio e la kolchoziana, della scultrice Vera Muchina, tendendo verso l’alto una falce e un martello, entrambi a un’altezza di circa 25 metri. Quei due edifici così vicini tra loro nei Jardins du Trocaderò, divennero metafora delle differenti ideologie politiche che sarebbero sfociate nella Seconda Guerra Mondiale, e allo stesso tempo primi antenati caratterizzati da quella verticalità che si sarebbe successivamente fatta simbolo a larga scala dell’affermazione del potere politico e finanziario con i grattacieli. Non a caso entrambi gli architetti, Robert Speer e Boris Iofan, ricevettero una medaglia d’oro per le loro opere.

Questo potere, materializzatosi durante l’Esposizione Internazionale di Parigi, verrà esercitato in maniera molto più subdola e sarà alla base del Movimento Moderno, ovvero il momento in cui l’architetto nella forma in cui oggi lo conosciamo viene plasmato. Pensiamo per esempio a Le Corbusier e Mies van De Rohe, architetti che incarnano anche se in maniera diversa l’idea del progettista moderno, per il mondo nuovo post seconda rivoluzione industriale. Da una parte, Le Corbusier rappresenta l’architetto in mano alle ideologie politiche, con le sue lettere di corteggiamento a Mussolini da un lato e il palazzo delle Nazioni Unite a New York dall’altro, mentre Mies, l’architetto delle nuove élite finanziarie, con il campus MIT e il Chicago Tribune. Entrambi non sono altro che la mano plasmante e virtuosa chiamata a costruire l’immagine pubblica di determinati sistemi di potere e della loro visione del mondo. Le Corbusier però si spinge sicuramente oltre, provando a manipolare non solo l’habitat, ma anche il corpo in sé. Infatti l’architetto svizzero col suo Modulor, ma come anche altri suoi colleghi quali Leonardo Da Vinci prima, e Henry Dreyfus dopo, applica un processo di omologazione o omogeneizzazione del corpo umano a una serie di standard che avrebbero poi avuto un ‹riscontro funzionale› all’interno degli ambienti progettati. Se da un lato un approccio del genere può sembrare utile in termini di standardizzazione della produzione industriale e architettonica, dall’altro nasconde un ben più profondo aspetto di eliminazione delle singolarità che caratterizzano l’essere umano con tutte quelle differenze biologiche dovute per esempio al sesso e all’età. Ovviamente, oltre a una prima esclusione di una grande percentuale di essere umani, ciò che appare ancor più drammatico, ma fondamentale, è la netta auto affermazione dell’uomo come essere dominante attorno al quale tutto l’ecosistema Terra doveva essere plasmato, rendendo ulteriormente l’architettura un elemento di affermazione di una determinata visione politica del mondo.

 

DALLE SCENOGRAFIE PER LA VITA SUBURBANA AI NOSTRI DESIDERI

Nel progetto Suburban Set disegnato da Ron and Andrew Erron nel 1974 e come tutte le idee provenienti dal collettivo di architetti inglesi Archigram, la carica ironica e pop era dirompente. Delle noiose case in stile vittoriano, caratterizzate dalla monotona facciata ripetuta paradossalmente all’infinito, compongono una scenografia continua sul fronte strada. Possiamo immaginare all’interno le medesime storie. Medesimi umani vestire i medesimi grigi vestiti la medesima mattina prima di recarsi nel medesimo ufficio con un medesimo taxi nero nella medesima strada del medesimo sobborgo londinese. Invece i disegni, dalla chiara ambivalenza tra la monotona facciata grigia e il colorato interno, tradiscono le nostre aspettative. Facciate dimenticate nascondono fantastici interni. Il focus si ribalta. La facciata è la monotona maschera. L’interno è il nostro desiderio più recondito che nascondiamo con cura, di cui forse ci vergogniamo, la più profonda perversione. Come afferma Simon Sadler in Archigram. Architecture without Architecture, provando a restituire il contesto urbano e sociale in cui il gruppo londinese si muove, sin dalla rivoluzione industriale ‹la piccolo borghesia occidentale si è consolidata, geograficamente e ideologicamente, nelle abitazioni urbane e suburbane, vicine ai centri di produzione e informazione›. Suburban Set sembra voler mostrare come dietro la puritana maschera della middle class e le facciate della loro rappresentativa abitazione si nasconda ben altro. Coloratissimi interni raccontano trasgressioni, animati da carcasse di aerei, lucide plastiche, superfici riflettenti, futuristiche capsule, che ricordano più le discoteche dei cugini radical italiani, che gli interni per sorseggiare il tè tra le 15:30 e le 17:00. Il progetto sembra invitarci a sbirciare dalla finestra, oppure oltre la staccionata, all’interno di ‹tutti quei cortili sul retro segreti, tutta quella chincaglieria illusionistica, tutti quei gazebo e quei boeing 747 al suolo, e quelle fontane illuminate e quei pomodori elettronici›, con la consapevolezza che ‹[loro] devono, prima o poi, essere esposti davanti a tutti e che il loro ostentare farà saltare la copertura di tutti i moderni Mr. Pooters (tra i quali ci potrebbe essere Mr. Herron) che hanno pensato di poter scoprire i tuoi segreti e, come dire, mangiarseli› (The Visions Of Ron Herron). 

Le facciate della suburbia inglese sembrano essere raccontate volutamente come pallide architetture dimenticate nelle rappresentazioni dei fratelli Herron. Allo stesso tempo, il progetto sembra rivelare il valore insito nelle architetture dimenticate come spazi per mondi possibili (Vedi Marco Petroni, Mondi Possibili) e l’abbandono come grado zero, deserto di nuove possibilità.

Sulla falsariga del lavoro dei fratelli Herron, nel film Doom Generation di Greg Araki (cult movie per i giovani che hanno vissuto gli anni novanta e parte della trilogia intitolata Teenage Apocalypse) si scava nelle connessioni tra interiorità umana/architettonica e aspetto esteriore/facciata. I differenti caratteri dei personaggi, i loro ‹interiors› si nascondono dietro un’immagine costruita per l’esterno, fatta di abbigliamento e accessori. Dietro facciate che in questo caso non ci vengono neanche mostrate, ogni carattere si costruisce un’immagine dei suoi desideri più profondi all’interno della sua camera da letto. Per ogni personaggio la sua camera da letto è il suo regno, lo spazio in cui rispecchiare se stesso. Nelle profondità dello spazio più privato, quello dove nascondiamo i nostri più profondi segreti sotto un letto o tra i cassetti, immaginiamo una realtà a nostra immagine. Una facciata ci nasconde e mimetizza la nostra utopia alla scala del divano o del letto.

Allargando lo sguardo, oggi possiamo considerare l’architettura come la scenografia della vita dell’uomo e non solo 

in cui forse un dentro e un fuori non sono più così facilmente distinguibili, ma in cui le facciate di queste architetture si presentano come delle soglie che danno accesso a mondi dimenticati dove poter costruire la propria  personale versione della realtà.

Facciate come maschere, che ci proteggono e che ci permettono di essere quello che davvero vogliamo. Sicuramente diverse per scopo da tutte quelle facciate uguali tra loro simbolo di un’epoca storica in cui l’unico denominatore comune accettato è lo sviluppo economico costante senza possibilità di errore. Perché a oggi l’attenzione mainstream è puntata sui quei processi di pulizia delle aree ritenute scomode, inadeguate applicando le stesse dinamiche privatizzanti a ogni contesto geografico in nome di una ‹bellezza› imposta coattamente agli abitanti. In tutti questi casi, le nuove scenografie del capitale si presentano come fittizie divisioni tra ciò che fino a poco tempo fa erano lo spazio privato e lo spazio pubblico, con quest’ultimo che ha perso pian piano la sua democraticità in favore di una ideologia economica totalizzante.

È per questo che le isole radicali e i deserti in cui dar vita a nuove forme di comunità vanno cercati lontano dalle riviste d’architettura, lontano dalle mappe e dagli archivi, lontano dai radar e lontano dalle ideologie violente e elitarie, bensì dietro facciate di edifici dimenticati. Facciate come elemento di rappresentazione, come per il villaggio Potemkin, dietro le quali  però in questa occasione si può dare vita alla propria utopia.

Più scenografie per i nostri sogni reconditi e meno architetture da copertina patinata, inaccessibili a noi comuni mortali.

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Design, menelique magazine #4, inverno 2020/2021.

Il ‹buon design› è cattivo design. Oggi è considerato buon design quello che rispetta principi formali rigidi, semplici e asciutti, facilmente identificabili e riproducibili, che guardano con rispetto alla tradizione occidentale e che permettono di distinguersi da ciò che è considerato, per un motivo o per un altro, inferiore, dozzinale, volgare. In sostanza si è scelto di fare un passo indietro, riprendendo una ammirazione mai sopita per la purezza del design modernista. Nella grafica: le linee rette, il bianco e il nero, la composizione bilanciata, l’astrazione, la specularità, la semplificazione. Questo buon design, così elitista, così elegante, così concettuale, nell’Italia di oggi è un cattivo design perché incapace di affrontare le sfide dell’inclusività alle quali sono chiamate industrial designer e graphic designer, architetti, programmatrici, data scientist e data analyst, sviluppatrici di videogiochi, fashion designer, artisti musicali, visivi e performativi, così come chiunque abbia a che fare con le discipline creative e progettuali… 

Questa classe di intellettuali, alla quale ci rivolgiamo con questo numero 4 di menelique, e che in passato è stata definita ‹cognitariato› (non senza una nota di disprezzo), è oggi chiamata a rispondere ai cambiamenti sociali che stanno investendo il Paese in questi ultimi anni e che si intensificheranno nei prossimi decenni: la loro sfida sarà quella di progettare l’inclusività, non l’elitismo. La complessità, non la semplicità. L’ibridazione, la pluralità del colore, la vanità, il superfluo, il cosmetico anziché il puro e l’essenziale. 

Come la figura umana che nella copertina di questo #4 deforma la griglia di impaginazione editoriale e mischia rabbiosamente i colori, rompendo la binarietà bianco/nero, così in queste pagine proveremo a criticare quel cattivo ‹buon design› e le disuguaglianze nascoste nelle pratiche creative e progettuali contemporanee.

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👉Leggi l’editoriale
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Indice:

Editoriale
di Giovanni Tateo
Hackerare l’algoritmo
di Iyo Bisseck
Note dall’Iraq
di Karim Sultan
BDSM ≠ Fashion Design
di Sofia Torre
Rigenerare la moda
di Viola Stancati
Data Science Co-op
di Susan Calvin
Cut-up
di Ilaria Grasso 
Ubaldo Ciccione 
Francesca Corno
Migrante
di Mubanga Kalimamukwento

 

Design in numeri (infografiche)

 

Player2: gaming e design
di Matteo Lupetti
Complementi
di Rémy Ngamije
Eternamente 13
di Salvatore Iaconesi

Ubuntu
di Mugendi K. M'Rithaa
Il design diluito
di Silvio Lorusso
Architettura radicale
di Ross K. Elfline
A for Anything
di Benedetta Crippa
Entreprecariat
di Silvio Lorusso
Lea Cáceres
di Giovanna Maroccolo
Kulture Room
di Daniele Ferriero
Marco Petrelli
Marianna Rossi
Danilo K. Kaddouri
Marcello Torre

Indice Episodi online (su menelique.com):

Design nel postcapitalismo
di Marco Petroni
Scenografie politiche
di Parasite 2.0
Il design dell’illusione
di Alessandro Longo
Il modello mediterraneo
di Alex Giordano
L’eredità coloniale nel design (da Decolonising Design)
di Ksenija Berk

Immagini di: