NET94 Quattro onde alle spalle del femminismo bianco / E03
NO ROOM FOR ROMA FEMINISM IN WHITE FEMINISM
Secondo dei quattro articoli "Quattro onde alle spalle del femminismo bianco" del numero zero di menelique magazine. La voce di una donna romanì ci racconta perché il femminismo bianco non è ancora un movimento antirazzista
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Quando ho iniziato a scrivere questo breve testo, mi sorprendevo dell’urgenza di auto-giustificazione che mi stava perseguitando, non solo durante l’intero processo di scrittura, ma lungo tutti gli anni che ho passato a essere un’attivista antirazzista e una studiosa.
Mentre noi, i “Roma”, ci troviamo già a dover affrontare le conseguenze estreme dell’antigitanismo, ovvero la legittimazione della violenza sui nostri corpi e la negazione radicale della nostra dignità umana, l’esistenza stessa dell’antigitanismo continua a essere negata ancora oggi, così come ieri è stata negata da varie istituzioni, come l’accademia, la stampa, la politica, e anche dai movimenti femministi.
Noi, in quanto popolo e in quanto cultura, non siamo responsabili per gli attacchi e le uccisioni di cui è vittima la nostra gente
Questo contesto è precisamente ciò che ha creato quella urgenza di auto-giustificazione di cui parlo, oltre a un costante bisogno di dimostrare che noi, in quanto popolo e in quanto cultura, non siamo responsabili per gli attacchi e le uccisioni di cui è vittima la nostra gente. Sono convinta che queste ultime conseguenze traumatiche dell’antigitanismo non possano essere comprese, se le consideriamo solo un atto isolato di violenza razziale. Piuttosto, dovremmo considerarle come una parte del violento percorso che, come Roma, siamo costretti a compiere per diventare “abbastanza umani” o, più propriamente, per essere considerati “umani”, nel modo in cui questa parola è definita nella modernità occidentale.
In quanto donna Romaní, la mia crisi personale nel percorso/processo verso “l’essere considerata umana” ha molto a che vedere con la mia lotta per dare un significato politico alla parola “decolonizzazione” e, al tempo stesso, per dare significato politico alla mia singola esistenza.
Un modo che sia differente dall’essere solo carne da macello o in alternativa, secondo lo studioso afroamericano Weheliye, “Man’s other”, l’altro dall’Uomo. Come dice Frantz Fanon, “tutte le forme di sfruttamento sono uguali, poiché sono applicate sullo stesso oggetto: l’uomo”. Tuttavia, se la parola “Uomo” è utilizzata come sinonimo di “umano”, come si può applicare in relazione a me, una donna Romaní, che in altre parole rappresenta “l’insostenibile inesattezza dell’essere”?
L’uomo bianco” è una tendenza egemonica, un insieme dominante di comportamenti che hanno reso possibile uno specifico stile culturale, coloniale e autoritario
Una risposta molto vicina si trova nella definizione data da Hesse e Sayyid: “L’uomo bianco” è una tendenza egemonica, un insieme dominante di comportamenti che hanno reso possibile uno specifico stile culturale, coloniale e autoritario: essere un “uomo bianco” è stata un’idea e una realtà. Implica una posizione motivata sia dalla relazione con mondo bianco sia con quello non-bianco (…). In piú, significa incarnare la conferma amministrativa della “razza”, nella quale le politiche che alimentano una forma di governo razzista sono diventate attributi indispensabili dell’autorità coloniale, iscritte nella decisionalità dell’uomo bianco. Seguendo questa citazione, credo che questo
concetto di “Uomo” autorizzi l’esistenza di quella versione moderna e secolare dell’umano che produce i Roma come non-umani. A questo proposito, sono convinta che l’esistenza stessa dei Roma nell’Europa razzializzata, un’esistenza eternamente nascosta dietro la maschera dello stato di eccezione, sia sempre stata segnata dalla norma dell’Uomo bianco, o in altre parole da un “meccanismo di potere coloniale che rinforza un modello di esclusione radicale su cui si basa il pensiero occidentale moderno” (Sousa Santos).
Noi, in quanto donne Romaní, per secoli siamo state semplicemente oggetti
Noi, in quanto donne Romaní, per secoli siamo state semplicemente oggetti. Le nostre identità, esperienze e realtà sono sempre state definite solo da altri, dal momento che non siamo mai state posizionate come soggetto. Come scrive la femminista nera bell hooks, i soggetti sono coloro che, da soli, “hanno il diritto di definire la propria realtà, stabilire le proprie identità, nominare la propria storia”.
È in questo punto in cui ci siamo scontrate con il femminismo bianco: perché spesso parlare di razzismo e sessismo, di come questi meccanismi si riproducano, di come investano profondamente la vita delle persone o di cosa questi concetti effettivamente significhino e così via, non è sufficiente per “imparare un nuovo linguaggio”. Piuttosto, si tratterebbe di riconoscere i limiti che i movimenti bianchi hanno avuto nel non comprendere la prospettiva storica del razzismo come una questione di figure strutturanti e non di comportamenti individuali.
È qui che ci siamo scontrate con il femminismo bianco, quando le posizioni dominanti e i privilegi razziali che esistono tra le donne non sono stati riconosciuti
È qui che ci siamo scontrate con il femminismo bianco, quando le posizioni dominanti e i privilegi razziali che esistono tra le donne non sono stati riconosciuti, e per questo anche le nozioni di “sorellanza” e “universalità” non sono state abbastanza. Piuttosto, una considerazione storica della lotta per la dignità umana dovrebbe collocare il suo potere su quei gruppi umani che sono oggetto dell’oppressione e del colonialismo dell’Europa.
Per raggiungere questo obiettivo, è necessario definire e discutere i Roma e la loro lotta come una questione di conseguenze politiche e non solo di interesse culturale: quindi il dibattito dovrebbe essere politico, perché, come Wylie ha sottolineato, “ciò che è considerato come ‘posizione sociale’ è strutturalmente definito”.
È allarmante la sterilizzazione illegale delle donne rom che è avvenuta per molto tempo, portata avanti forzatamente dalle autorità di vari stati europei, fino a tempi recentissimi. Tanto più scioccante è l’assoluta mancanza di reazione da parte del femminismo bianco davanti a tali atrocità. È in questo contesto che, credo, la mancanza di attenzione per la questione della “razza” all’interno dei movimenti femministi ha permesso per molto tempo alle donne bianche di creare e praticare il cosiddetto “patriarcato razziale”. L’approccio cieco nell’affrontare la questione dell’antigitanismo ha reso troppo spesso un certo femminismo complice del terrore razziale sul corpo dei Roma: il femminismo bianco, esercitato all’interno dei governi europei razzializzati, ha assunto la funzione di stampella di mantenimento della relazione tra le figure del Salvatore (bianco) e del selvaggio. Questo atteggiamento si è concretizzato nei tentativi di “salvare” le donne Roma dal patriarcato degli uomini Rom.
Sono convinta che nessun movimento possa combattere contro il patriarcato mentre si crea e si rinforza il “patriarcato razziale”. La costante emarginazione delle donne Romaní nelle teorie femministe e nel discorso politico antirazzista spesso si verifica perché sessismo e razzismo sono pensati e trattati come insieme di esperienze diverse, che non corrisponde al modo in cui si attua l’antigitanismo. L’antigitanismo in fondo finisce per non essere considerato come una forma di razzismo né una questione di genere.
Il femminismo europeo non potrà essere inteso come un movimento antirazzista finché non affronterà la questione delle donne Romaní
Se pensiamo il femminismo come un soggetto monolitico e singolare, senza guardare al contesto storico e politico delle donne razzializzate, non solo è impossibile comprendere l’oppressione di quelle donne, ma diventa impossibile offrire una soluzione per la loro liberazione. Il femminismo europeo non potrà essere inteso come un movimento antirazzista finché non affronterà la questione delle donne Romaní, poiché non solo la loro percezione da parte della maggioranza rispecchia tutte le conseguenze della cosiddetta “oggettificazione razzializzata”, ma i loro corpi sono stati trasformati in una vera e propria preoccupazione epistemica, in quanto soggetti ingovernabili o corpi impossibili da assimilare nella modernità razionalizzata occidentale.
L’atto di silenzio dei movimenti femministi bianchi intorno alla violenza razziale sui corpi dei Roma indica chiaramente la relazione tra il patriarcato coloniale e la colonialità di genere. Da un lato, i corpi Roma vengono depoliticizzati, dall’altro vengono esposti, in quanto corpi pericolosi, a una violenza considerata giustificabile in nome dell’autoprotezione.