Pelota Maya
La pratica millenaria della Pelota Maya racchiude un sapere astronomico, matematico e architettonico delle popolazioni pre-ispaniche che è stato ignorato dai conquistadores spagnoli. Rodrigo Garay Grimaldi ripercorre la storia di questo sport e del razzismo che ne ha causato la repressione.
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Immaginate che sia la prima volta che vedete rimbalzare qualcosa nella vostra vita. È una palla di quattro chili che sembra una roccia, mentre sfreccia allegramente tra le pareti inclinate di uno stadio con un campo a forma di ‹I›.
La palla viene spinta da fianchi, cosce e avambracci fino a un cerchio che si trova in cima a ciascuna delle due pareti. I giocatori sono i sovrani di due regni in competizione. Ogni giocatore indossa un abito sacro fatto di piume e pietre preziose che rappresentano gli dei che hanno partecipato al mito della creazione mesoamericana. È facile capire perché i frati spagnoli, vedendo questo spettacolo per la prima volta al loro arrivo in America, pensarono che la palla fosse posseduta da uno spirito che faceva rimbalzare le pietre (la vulcanizzazione non era ancora conosciuta in Europa).
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Questa palla era fatta con miscele di radici d’albero e resine che venivano attorcigliate insieme per formare una sfera pesante di lattice che rimbalzava in modo incontrollabile. Finora non sappiamo quando o dove il gioco della palla mesoamericano abbia avuto origine, ma le palle più antiche trovate risalgono al 1700 a.C.
Era ampiamente praticato in tutto l’Anahuac, che è la regione che va dal sud degli Stati Uniti, Messico e America Centrale fino alle remote isole Taino dei Caraibi. In tutta questa zona, sono stati dissotterrati almeno 1.500 campi di questo antico sport, il 60% dei quali, incredibilmente, è stato scoperto solo negli ultimi 20 anni. Usato come strumento diplomatico, questo gioco diventava un ponte comune con le civiltà straniere che parlavano altre lingue e adoravano altri dei, per risolvere i conflitti e disinnescare tensioni.
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I gol spesso definivano il destino di regni potenti in bilico tra la pace e la guerra, il matrimonio di una principessa con il principe vincitore, così come la negoziazione di tributi, il controllo del commercio, ecc.
Certi incontri divennero così storicamente importanti che ci sono ancora storie, murales, ceramiche e pannelli antichi che ne parlano. È il caso del murale di Tepantitla, che raffigura una partita tenutasi intorno al 400 d.C. tra giocatori di Teotihuacan, la megalopoli multietnica di 100.000 abitanti che vivevano nella Valle centrale del Messico almeno un millennio prima dell’arrivo di Hernán Cortés, contro i giocatori Maya, abitanti dell’alta giungla del Messico meridionale e dell’America Centrale, famosi per le loro straordinarie città costruite con grande maestria astronomica, matematica e architettonica;
grazie a questa raffigurazione esistono testimonianze di queste due affascinanti civiltà, separate da migliaia di chilometri, che giocano felicemente una partita di pelota.
Un’altro esempio è il racconto di Fray De Torquemada, cronista dell’ordine francescano che ci racconta nel suo libro Monarquía Indiana di una partita di pallone giocata dal mitico imperatore azteco Axayacatl, padre di Moctezuma, contro Xihuiltemoc I, importante sovrano dei giardini galleggianti di Xochimilco nel 1481 d.C., dove scommisero le loro entrate annuali e la terra.
Si sa che in alcuni casi si è arrivati a effettuare sacrifici umani alla fine dell’incontro. Ma il gioco non prevedeva sacrifici umani, né si giocava con teste umane come ha imposto la narrazione colonialista per giustificare i suoi tentativi di estinguere questo gioco che era ampiamente praticato in tutti gli strati sociali, per il divertimento di tuttə, ragazzi, ragazze, uomini e donne, e che era rappresentato con attività di scommesse e raduni con cibo e mercati intorno ai campi. Non sorprende che un gioco praticato per così tanti millenni e in così tante culture abbia sviluppato infinite varianti. Si giocava con mazze, racchette, guanti e bastoni, in altri casi con i fianchi o gli avambracci, e su diversi tipi di campi. Da questa angolazione il gioco della palla mesoamericano può essere visto più precisamente come una famiglia di giochi correlati.
Ma forse la cosa più interessante è che questi Tlachtlis o campi di pelota trovati nei siti archeologici chiamati tollanes, sono in realtà osservatori utilizzati per misurare la meccanica delle stelle. Nel 2006, l’ingegnere Felipe Mora Montes de Oca, dell’Istituto Politecnico Nazionale, è riuscito a dimostrare scientificamente che il centro di queste corti veniva utilizzato per trovare lo Xomulzen o ‹unità astronomica di 18º› durante l’equinozio; che divide la volta celeste in 20 parti uguali. Questo, insieme alla scoperta dello zero matematico e all’uso dell’avanzata calcolatrice pre-ispanica conosciuta come Nepohualtzinzin, permise a queste società di studiare il calendario lunare di 260 giorni, il calendario solare di 365 giorni, il calendario venusiano di 854 giorni, il calendario pleiadiano di 52 anni e il calendario di conteggio lungo di 25.625 anni, ovvero il tempo che il nostro pianeta impiega per fare il giro della galassia, per poi per unire questi 5 calendari in uno solo, perfezionando il loro sistema di agricoltura e di navigazione e quindi la forza politica e religiosa di queste grandi capitali.
Il gioco della palla è pregno inoltre di una grande carica filosofica e spirituale: è descritto nel mito della creazione Maya del Popol Vuh come il gioco praticato dai gemelli sacri contro gli dei degli inferi per creare l’essere umano. È per questa ragione che, per esempio, il campo era visto anche come la porta per accedere all’inframundo, elemento che fu associato dai conquistadores spagnoli al satanico. Ma il concetto di inferi mesoamericani non ha solo un significato religioso; si riferisce anche al piano non fisico, dove si trovano la morte, ma anche i sogni, l’immaginazione, i pensieri; o, per esempio, lo stato mentale di flusso (mindfulness): un fenomeno studiato fin dal 700 a.C. da Lao-Tse, ma che ha recentemente permeato la cultura occidentale e che
lə atletə sperimentano come quel momento in cui il pensiero si dissolve permettendogli di esistere solo nel momento presente per l’attività che stanno eseguendo con intensa pace e destrezza.
Partecipare al gioco della pelota era un grande onore che rappresentava il coinvolgimento nel mantenimento dell’ordine cosmico dell’universo e la rigenerazione rituale della vita. Ma gli europei che arrivarono in America non erano in grado di assimilare i concetti filosofici e scientifici di questi indios ritenuti incivili, così ordinarono ai soldati di distruggere le corti sacre e proibirono la pratica di uno dei giochi più antichi del mondo.
Questa repressione dei popoli indigeni e delle loro conoscenze continuò a lungo dopo l’indipendenza messicana del 1810.
Le comunità indigene furono sottoposte a un sistema di semi-schiavitù, che le spogliò delle loro terre, costrinse la gente a dimenticare le loro lingue e tradizioni, a lavorare per molte ore, e negò loro il diritto di essere presə in considerazione come cittadinə, provocando terribili massacri contro i popoli Maya e Yaqui che tentarono di ribellarsi durante la cosiddetta guerra delle caste (1847-1901).
Così, tutto ciò che aveva anche solo un accenno di pre-ispanico, fu perseguitato e punito con la morte o la povertà estrema.
Ma l’aspra orografia del Messico ha zone che la mano colonialista non ha mai potuto raggiungere, come le montagne di Sinaloa, Oaxaca, Chiapas, o l’altopiano Purépecha di Michoacán; luoghi dove si sono mantenute lingue, costumi e conoscenze pre-ispaniche, come gli svariati utilizzi del mais, il sistema di organizzazione comunitaria democratica, le danze, la musica e i vestiti. È in questi luoghi appartati che si è continuato a giocare otto diversi tipi di gioco della pelota. Nonostante la lunga notte che questo gioco millenario ha vissuto, ci sono eroi che dedicano la loro vita a preservarlo, come Rogelio García Guzmán, ricercatore e allenatore di giochi e sport indigeni, che lotta contro il sistema educativo che continua a ignorare questi giochi come se non fossero mai esistiti. Guzmán lavora per salvaguardare uno sport che non consegna medaglie olimpiche sotto i riflettori dei media anglofoni. ‹Perché insistere ancora con il gioco della pelota?› ho chiesto nell’intervista che gli ho fatto per scrivere questo testo. La risposta:
‹perché implica identità, radici e uno scudo contro i tentativi neo-coloniali; per identificare ciò che ci ha colonizzato in precedenza e per far conoscere ai giovani le nostre affascinanti culture indigene. Per la cultura mainstream è più facile credere che gli alieni siano scesi sulla Terra con delle astronavi per costruire piramidi in Messico che immaginare l’inimmaginabile: ovvero che un gruppo di esseri umani, solo perché si trovava dall’altra parte dell’Atlantico e aveva la pelle marrone, possa aver trovato il modo di costruire un modello sociale avanzato che includeva meravigliosi sviluppi in astronomia, filosofia, agricoltura, letteratura, architettura, arte, musica, lingua, scienza e sport›.
La nostra ignoranza su ciò che è successo nelle Americhe prima dell’arrivo degli europei è involontariamente razzista.
‹Involontariamente› perché le istituzioni educative e religiose, così come la letteratura e il cinema, hanno perennemente impresso nella psiche collettiva l’idea che le civiltà indigene americane erano selvagge e non si sono mai evolute come quelle europee o asiatiche. Viviamo in una società globale materialista, colonialista, eurocentrica e americanizzata, che ha incorporato questa linea di codice squalificante verso l’indigenə nel nucleo del nostro sistema operativo, poiché ha bisogno di questa antica narrazione sociale per la sopravvivenza del suo modus vivendi. Questo pregiudizio rende più facile il voltarci dall’altra parte di fronte alle privazioni disumane di queste comunità e ci rende per sempre estraneə ai modi di pensare di quegli esseri umani, straordinari e fallibili come te e me, che a milioni vivono ancora coraggiosamente sugli altipiani, separati da tutto, o come migranti nelle grandi città, lottando contro il razzismo e gli abusi sistematici mentre cercano di conservare i loro costumi, solə e lontanə dalle loro radici.
Traduzione di Giovanna Maroccolo