Estratti dal cartaceo / 29 min
Tecnicamente femmina
La femminilizzazione di Siri e Cortana dipende da una genderizzazione degli ambiti lavorativi che attribuisce servizi di cura solo alle donne. Ma forse le stesse tecnologie femminilizzate sono la chiave per degenderizzare il lavoro.
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In una pubblicità della Recognition Equipment del 1966, una giovane donna con un sorriso affascinante avvolge un braccio attorno a una spalla del suo collega uomo e poggia dolcemente la testa su di lui mentre quest’ultimo cerca di leggere dei documenti seri e importanti. Lo slogan recita: ‹il nostro lettore ottico può fare tutto quello che fanno le impiegate delle macchine perforatrici (Be’, quasi)›. I suoi limiti? Il testo ci informa che il macchinario ‹non è in grado di usare l’ufficio per intimi tête-à-tête› o ‹essere socievole›. Tutto quello che può fare è lavorare, leggere e elaborare dati alla velocità di ‹2400 caratteri tipografici al secondo›. Un altro spot, pubblicato un anno dopo, evidentemente un sequel del primo, usa lo stesso slogan, questa volta accompagnato dall’immagine di una bionda in stato avanzato di gravidanza. Al contrario di questa donna, ci viene detto, le apparecchiature per ufficio della Recognition Equipment ‹non possono prendere il congedo per maternità. O soffrire di nausee mattutine. O lamentarsi tutto il tempo di essere stanche›. Dovrebbe essere chiaro a chi legge cosa convenga di più avere in giro in ufficio.
Uno spot dello stesso periodo del Digitek 70 dell’Optical Scanning Corporation adotta un simile approccio per piazzare il suo kit da lavoro. La metà superiore della pagina è occupata da fotografie in bianco e nero di parti del corpo di donne – gambe snelle sedute o in piedi (presumibilmente in giro per l’ufficio), e bocche di donne mentre parlano. Il testo chiede al lettore: ‹che cosa ha sedici gambe, otto bocche che non stanno mai ferme e ti costa almeno 40.000 dollari all’anno?› La risposta ovviamente è otto lavoratrici, che possono essere convenientemente sostituite da un solo lettore ottico Digitek 70. Un ulteriore esempio, di pochi anni prima, rafforza questo messaggio: in uno spot del 1962 della General Telephone, vediamo l’illustrazione di un occhialuto dirigente che presenta l’apparecchio della sua segreteria telefonica con un bouquet di rose. La didascalia superiore ci informa che ‹è innamorato della sua segretaria elettronica›. Esistono tanti altri testi pubblicitari che mettono in scena una strategia retorica simile. Questi spot si focalizzano sui problemi legati all’avere impiegate donne – il loro essere la personificazione del vagabondare, la loro capacità di distrarre e di farsi distrarre, le loro irritanti inclinazioni alla socializzazione e alla maternità. Puntano inoltre sull’idea della persona impiegata in ufficio (di solito bianca, cisgender, di classe media, per non dire femmina) come un semplice apparecchio per far risparmiare fatica al lavoro manageriale maschile – un apparecchio soggetto a aggiornamenti e alla sostituzione con le più recenti tecnologie d’ufficio disponibili. In queste pubblicità, il nuovo apparecchio tecnologico prende il posto (spesso in modo letterale) della segretaria. La tecnologia diventa lei.
Le storie delle macchine, quella del femminile e quella del lavoro salariato sono state per lungo tempo immaginate come profondamente aggrovigliate tra loro e reciprocamente costitutive. Questa fusione di donna, macchina e lavoro ha preso una nuova direzione nel XXI secolo con l’avvento degli assistenti digitali. Queste applicazioni sono dei navigatori della conoscenza, disponibili come parte di diversi sistemi operativi, che riconoscono il parlato naturale e usano questa abilità per provare a rispondere alle domande degli utenti e a fornire aiuto in compiti organizzativi, come pianificare meeting o impostare dei promemoria. Forse la più famosa è Siri di Apple – ora largamente conosciuta come la voce dell’IPhone – ma ce ne sono tante altre, incluse Google Now e Cortana della Microsoft, che svolgono tutte simili funzioni con diversi livelli di efficienza. I legami tra questi assistenti digitali e le consuetudini del lavoro d’ufficio di basso profilo sono ovvi: Microsoft è anche arrivata al punto di intervistare assistenti personali umani mentre stava sviluppando Cortana, e un recensore del magazine Wired ha dichiarato che usare Siri fosse ‹un po’ come avere la stagista non pagata dei miei sogni a mia completa disposizione, che organizza la mia vita al posto mio›. Queste app sotto molti aspetti rappresentano l’automazione di ciò che tradizionalmente è stato pensato come lavoro delle donne.
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Lavoro femminilizzato, lavoro tecnologizzato
Un recente cartellone pubblicitario dice: ‹incontra Cortana. Lei non soltanto impara e ricorda ciò che ti piace, ma può anche fornirti dei promemoria basati sulla tua localizzazione e sui tuoi contatti. Tutto quello che devi fare è chiedere›. Anche se si è consapevoli dei riferimenti intertestuali della campagna pubblicitaria a un personaggio di un videogame – la femminilizzata Ai della serie di videogame Halo di Microsoft – è comunque probabile che questo uso dei pronomi si faccia notare. Marcatori di genere di questo tipo associati a Cortana e altre app più vecchie enfatizzano ulteriormente l’associazione con il cosiddetto lavoro femminilizzato degli impieghi d’ufficio e del settore dei servizi. Sebbene siano disponibili varie configurazioni vocali – inclusa una versione maschile di Siri, molto ignorata – gli assistenti digitali in genere sono pubblicizzati con voci femminili. Nelle recensioni degli acquirenti, sui blog di tecnologia e nei materiali promozionali spesso ci si riferisce a essi con lei.
Da un lato, possiamo vedere come questo orientare in base al genere l’assistente digitale sia molto in linea con i più ampi trend dell’attuale panorama sonoro; come ha sottolineato Nina Power, in particolare l’ambiente cittadino contemporaneo è pieno di voci ‹spesso pre-registrate, scorporate, a volte piuttosto robotiche, riconoscibili come femminili o attribuibili a questo genere›. Le ascoltiamo sui mezzi di trasporto urbani, nei servizi delle casse automatiche al supermercato e così via. Power definisce questa onnipresente ridondanza acustica ‹la logica figlia vocale della centralinista› e sottolinea una negativa correlazione tra l’aumento di queste registrazioni di voci femminili e la rappresentazione o il riconoscimento degli interessi delle donne di oggi nella sfera pubblica. In altre parole, il suo lavoro suggerisce l’esistenza di una tensione tra differenti idee di che cosa voglia dire per una voce di donna essere ascoltata – la letterale e sovraesposta voce automatizzata femminile contro una inascoltata voce politica.
A dire il vero, il legame tra voci femminili incorporee e questioni di esclusione o sottorappresentazione potrebbe essere più diretto di quanto suggerisce Power; alcuni critici hanno sostenuto che l’uso delle voci femminili, per esempio, nei dispositivi di navigazione ‹risale alla seconda guerra mondiale, quando voci di donne venivano usate negli abitacoli degli aerei perché risaltavano su quelle degli aviatori uomini›. Voci di donne sono state quindi usate nel corso della storia per dare istruzioni esattamente perché non c’erano donne da ascoltare di persona lì intorno.
In qualche modo, sottolineare che gli assistenti digitali sono marcati secondo il genere è come evidenziare un’ovvietà – molti di noi sono più che consapevoli che Siri, per esempio, è femminilizzata, e molti di noi si sono già ambientati con la genderizzazione del lavoro dei servizi virtuali. Infatti, nel suo dibattito su una precedente generazione di assistenti virtuali (precisamente i bot dei servizi clienti dei primi anni zero), la studiosa Eva Gustavsson fa notare una dimostrabile preferenza per gli avatar femminili. Gustavsson liquida questo aspetto come ‹lo sventato risultato di un’ambizione a imitare le circostanze delle realtà dei servizi offline›; i bot di assistenza, in altre parole, sono raffigurati come giovani e come donne perché coloro che lavorano per i servizi clienti in genere sono giovani e donne. Peraltro, aggiunge delle considerazioni pertinenti sul ruolo dell’aspettativa in questi casi – considerazioni che spingono in primo piano il concetto del cosiddetto lavoro femminilizzato. Gustavsson suggerisce che la preferenza per questo tipo di avatar marcati secondo il genere ‹è radicata nell’immagine stereotipata della donna che sarebbe, per natura, più adatta a lavori di assistenza› e al lavoro emozionale rispetto agli uomini. Afferma inoltre che ‹l’immagine stereotipata dei fornitori di servizi come donne ha le sue basi nell’immagine stereotipata delle caratteristiche femminili. Un’immagine femminile così stereotipata di cura, empatia e di comportamento altruistico è diventata una componente standard in un protocollo dei servizi›.
Sotto questo aspetto, il lavoro del settore dei servizi si pone come lavoro femminilizzato (e i bot di assistenza diventano femmebot) non semplicemente perché le donne rappresentano la maggioranza della forza lavoro, ma perché l’immagine di questo settore è essa stessa femminilizzata; è associata cioè alle caratteristiche tradizionalmente codificate come femminili. In realtà, questo non è vero solo per i servizi di assistenza al cliente; molte idee attuali rispetto al lavoro femminilizzato ammiccano ai trend nel mercato globale del lavoro che può essere associato al dominio di una serie di abilità marcate socialmente secondo il genere – un’interessante ma problematica idea che analizzeremo più nel dettaglio nel corso di questo testo. Sia il lavoro nel campo dei servizi sia quello d’ufficio, quindi, sono stati convenzionalmente designati come femminili, e questo decorso differenziato per genere è stato verosimilmente parte dei motivi che hanno portato al prevalere di assistenti digitali femminilizzati. Stiamo assistendo alle procedure di una programmata femminilizzazione delle macchine, dato che il lavoro femminilizzato diventa lavoro tecnologizzato. Molti di noi sono abituati all’idea delle donne in questo tipo di ruoli e in quanto tali non facciamo caso quando incontriamo interfacce tecnologiche che sono chiaramente codificate come femminili. Ma è importante ricordare che la presenza di queste voci femminili delle macchine – la loro proliferazione al punto tale da essere diventate quasi invisibili culturalmente – non è mai stata una conclusione scontata.
Se infatti torniamo con la memoria agli albori dello sviluppo di queste tecnologie, incontriamo idee molto diverse su come programmarle al meglio. La compagnia che sta dietro il primo sviluppo di Siri, per esempio, affrontò seriamente la possibilità di una voce neutra dal punto di vista del genere, anche se le prime idee dei sistemi di navigazione della conoscenza di Apple apparivano molto diverse dagli assistenti digitali che conosciamo oggi. In un lavoro su un’ipotetica pubblicità aziendale dei tardi anni ottanta, per esempio, al navigatore della conoscenza di Apple vengono dati un nome e un avatar maschili. , che guarda al 2009 per immaginare l’assistente intelligente del futuro, fa vedere questa tecnologia nelle mani di un illustre professore maschio bianco in un grande ufficio rivestito di mogano.
Questa versione professionalizzata dell’assistente digitale lavora come un assistente di ricerca, come un bibliotecario accademico, e anche come un manager di informazioni piuttosto che come una segretaria personale. L’avatar inoltre mostra il classico elemento distintivo di un esperto nerd, il papillon. Questo software maschilizzato è presentato mentre esegue alcuni compiti d’ufficio e organizzativi (mentre dà al professore messaggi telefonici da parte dei suoi studenti e di sua madre, mentre trova vecchi file, mentre mette ordine nella sua agenda e così via) ma lo spostamento di accento da questa visione di una tecnologia di un ambiente di lavoro del ventunesimo secolo agli odierni navigatori della conoscenza, più multimodali, è evidente.
Mentre Siri, Cortana e GoogleNow sono commercializzati come strumenti utili sia per l’organizzazione personale che per i legami interpersonali (ricordando agli utenti di chiamare i propri coniugi, mandando messaggi di auguri di compleanno, aiutando le persone a riconoscere per strada le persone che conoscono), il navigatore di conoscenza di Apple del 1987 viene sbandierato come barriera di protezione tra il professore maschio e la sfera domestica. Infatti, sebbene l’assistente digitale nella pubblicità abbia sia una voce che un viso maschile, ci fa imbattere in un fantasma precursore del Siri contemporaneo rimodulato in base al genere, occultato nella forma di una madre incorporea. È la voce isolata che proviene dallo spazio dimenticato della riproduzione sociale, che affiora in forma di messaggi e promemoria su una festa a sorpresa per un compleanno di famiglia. Per fortuna, il navigatore della conoscenza riesce a raccogliere e trasmettere questi messaggi, consentendo nel modo migliore all’uomo professionista di ignorarli ripetutamente e di andare avanti nel proprio lavoro di essere un genio. La madre, e tutto ciò che si associa a lei, resta letteralmente oscena (nel senso di ‹fuori dalla scena›) per tutta la durata dello spot. Ciò che è chiaro, tuttavia, è la costante affinità, qui, tra la donna e la macchina. La madre del professore – nel chiamarlo per dargli promemoria, suggerimenti e assistenza – svolge funzioni in linea con quelle del software Apple high tech. Eppure, mentre la proto-Siri è un esempio di dominio umano della conoscenza, la madre è poco più di una seccatura da gestire.
Questo, dunque, è un elemento misconosciuto della genealogia di Siri; la madre che fa le telefonate (proprio come la centralinista, la segretaria sul posto di lavoro, il bot di assistenza ai clienti) è parte del mix che sta alla base dell’assistente digitale. Ma riconoscerlo solleva una serie di questioni; prima di tutto, è importante sottolineare che i confini tra la sfera della produzione e della riproduzione non sono così netti. Come le femministe materialiste sono da tempo consapevoli, le tradizionali attività di cura associate alla vita domestica sono parte integrante del preparare al lavoro mente e corpo del lavoratore salariato. Questo si potrebbe estendere a cose come l’organizzazione personale, il supporto morale, e anche il predisporre documenti. E viceversa, i doveri che sono ricaduti nelle mani della tradizionale segretaria si estendono fino a quelli associati alla riproduzione sociale. L’assistente personale, lui o lei, spesso si trova a condurre una specie di lavoro di cura a livello aziendale, incluso il provvedere al sostentamento del corpo tramite tè, caffè e ordinazioni per il pranzo, così come prendere appuntamenti dal dentista, passare in lavanderia, pagare bollette personali e così via.
Nel suo studio ormai classico Colletti bianchi: il ceto medio statunitense, C. Wright Mills descrive infatti la segretaria personale esperta come segue: ‹è la donna matura, efficiente nel proprio lavoro, che soffoca l’amore per il proprio capo sposato, per il quale si rende indispensabile, occupandosi dei lavori domestici del suo business›. È interessante notare, quindi, che molte pubblicità degli assistenti digitali li mostrano mentre svolgono quel tipo di servizi personali comunemente associati alla figura ibridata della ‹moglie aziendale› – lavoro su quel (non)confine impossibile-da-mantenere tra produzione e riproduzione sociale, tra lavoro salariato e lavoro di cura. Vediamo le tecnologie segnalare compleanni e anniversari, per esempio, o ricordare all’utente uomo di comprare dei fiori. Il lavoro emozionale che una volta, in mezzo a una certa classe di privilegiati, era appaltato sia alle segretarie che alle mogli, è ora affidato a dispositivi elettronici.
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Riproduzione sociale e iperimpiego
Questo ci riconduce al tema dell’iperimpiego. Cosa indichiamo con questa parola? Iperimpiego è un’idea, portata avanti da Ian Bogost, che lega gli sviluppi tecnologici contemporanei a una trasformazione qualitativa e quantitativa del carico di lavoro personale. La sua tesi è che la tecnologia – lontana dall’agire nella capacità di far risparmiare manodopera – difatti genera sempre più compiti e responsabilità. Come Bogost ha scritto in un articolo per The Atlantic:
È facile considerare le email come impegni indesiderati, ma molto raramente portiamo questo obbligo alla sua logica seppur ovvia conclusione: questi impegni sono sempre più simili a un altro lavoro – o meglio, a molti altri lavori. Quanti di noi sono abbastanza fortunati da avere un impiego sono sul serio iperimpiegati – impegnati nei loro soliti lavori e anche in molti altri lavori. È ovvio che non veniamo pagati per tutti questi lavori, ma la paga non è il punto, perché il costo reale dell’iperimpiego è il tempo. Stiamo facendo tutte quelle cose che altri non stanno facendo, al posto di fare tutte quelle cose in cui siamo competenti. E se falliamo nel farle, sia attraverso una resistenza attiva o un semplice sovraccarico, ne subiamo le conseguenze da soli; le calendarizzazioni saltano, i documenti non vengono inviati, i progetti non vengono stampati e così via.
Bogost sta dunque parlando del lavoro non remunerato di cui siamo obbligati a occuparci noi stessi, quello che un tempo altre persone facevano a pagamento. In qualche modo, questa è un’osservazione sulla redistribuzione del lavoro di ufficio di fronte al ridimensionamento, sui tagli o sulla massimizzazione del profitto per le aziende, così come sull’aumento dei carichi di lavoro e sul pagamento occultato degli amministratori. Attività che una volta erano tra le competenze di ruoli specializzati sono ora distribuite a uno spettro più ampio di persone, dato che diversi servizi sono stati smantellati. E giusto per essere chiari, la riflessione di Bogost non comprende solo le email di lavoro ma anche molti altri tipi di attività mediate dalle tecnologie – dai registri elettronici e dalle note spese per i nostri datori di lavoro a ogni comunicazione e operazione on line che abbiamo bisogno di effettuare per le nostre famiglie, a banali micro lavori associati a contenuti creati dagli utenti per siti come Facebook e Twitter. Quando ci misuriamo la pressione dai dottori, ci riforniamo di libri in biblioteca o paghiamo alla cassa la nostra spesa – quando eseguiamo qualcuno di questi nuovi compiti individualizzati, che un tempo sarebbero stati svolti da lavoratori stipendiati – tutto ciò testimonia uno stato di iperimpiego.
Pertanto, possiamo essere iperimpiegati anche se siamo disoccupati (e infatti la quantità di moduli da compilare, di appuntamenti da organizzare e l’autovalutazione richiesta a chi cerca lavoro suggerisce che è difficile essere disoccupati senza essere in un costante stato di iperimpiego). Nonostante la portata di questa discussione, comunque, è lo spettro del contemporaneo lavoro retribuito quello che più incombe sull’analisi di Bogost, come dimostrato dalla sua insistenza sul fatto che ‹lavoriamo sempre più duramente per sempre meno, soltanto per andare a casa a riprendere il lavoro a cui non riusciamo a lavorare mentre siamo al lavoro›. Il lavoro retribuito – nella forma del lavoro realmente stipendiato o in quella delle evoluzioni del lavoro stipendiato – si sta infiltrando in casa; il lavoro sta pesando un po’ troppo duramente sul bilanciamento lavoro-vita, e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione ci stanno consentendo sempre più di portare l’ufficio con noi ovunque andiamo – o, per meglio dire, ci stanno impedendo di lasciare l’ufficio ovunque andiamo. La femminista Cristina Morini similmente fa riferimento a questa idea, puntando il dito verso ‹l’ufficio in casa o la domesticazione del lavoro che delinea il nuovo paesaggio casalingo del lavoro›. Per Morini ‹vita privata e vita lavorativa vengono combinate assieme negli spazi domestici e i due contesti si trasformano reciprocamente in degli ibridi›, spingendola a chiedersi: ‹è la casa che si espande per andare a comprendere le modalità di lavoro stesse o, al contrario, è il lavoro a invadere uno spazio intimo e protetto?› Questi commenti sono molto rivelatori perché portano a uno dei limiti di questa idea di iperimpiego.
Sembra come se Bogost in questo caso stia presupponendo l’esistenza di due distinte sfere, con la sfera della produzione che starebbe macchiando e invadendo la sfera della riproduzione. Per diverse ragioni, comunque, questa distinzione – l’esistenza della quale è affermata in questo implicito tener conto della sua violazione – non regge. Alcune persone vivono da tanto tempo la casa come un luogo di lavoro – ossia le donne del proletariato, le donne delle minoranze etniche, e altre donne emarginate socialmente e economicamente. La casa è anche un ben noto posto di lavoro per le donne impiegate a tempo pieno. Non è così tanto uno ‹spazio protetto›, come suggerisce Morini, come un ulteriore luogo di lavoro e il contesto di un secondo (o terzo, o quarto…) turno non pagato. Il concetto di iperimpiego ‹va oltre i social media e le email e è realmente una forma di lavoro domestico e di sostegno per le nostre vite quotidiane›.
Come nota Karen Gregory, chiamare l’insieme di tecnologie digitali, data economy e lavoro invisibile ‹impiego› corre il rischio di aggirare il più profondo antagonismo (basato sul genere e razzializzato) inerente alla distinzione tra ciò che è considerato lavoro e ciò che è considerato ‹cura›. Infatti, sostiene, forse ciò ‹su cui Bogost sta richiamando l’attenzione ha meno a che fare con ‘l’impiego’ che con l’irregolare redistribuzione e privatizzazione del lavoro di riproduzione sociale, un antagonismo che le teoriche del femminismo sono andate scrivendo per più di trent’anni›. È da notare che gran parte del lavoro a cui Bogost si riferisce quando delinea l’idea di imperimpiego è il lavoro che possiamo in genere associare a quello svolto da mogli e madri – un certo sottogruppo delle quali, come risultato dei cambiamenti nei modelli lavorativi genderizzati, può davvero essere ora impegnato nel lavoro salariato fuori casa, quando nelle epoche precedenti non lo avrebbe potuto fare.
Ovviamente, per chi se lo può permettere, qualche lavoro su secondo turno può essere esternalizzato e scaricato su dipendenti pagati. Molti aspetti del lavoro domestico e del lavoro di cura non sono stati tecnologizzati ma soltanto ‹redistribuiti sulle spalle di soggetti diversi attraverso la loro commercializzazione e globalizzazione›. Mentre la partecipazione delle donne al lavoro salariato è aumentata nel nord del mondo, una parte del lavoro domestico è stata commercializzata e dislocata su lavoratrici sottopagate – spesso donne che vengono dal sud del mondo e da paesi ex socialisti. La figura della donna delle pulizie o della baby sitter straniera lo dimostra. Tuttavia non possiamo dimenticare che la globalizzazione del lavoro domestico non fa altro che spostare una questione femminista da una parte della popolazione a un’altra, e non si può dire in alcun modo che ciò attenui il problema di fondo. Dobbiamo comunque anche notare che alcuni aspetti del lavoro su secondo turno sono stati ovviamente tecnologizzati – alcuni aspetti di alcune mansioni, sotto la nostra supervisione e il nostro input, possono essere in parte delegati ai nostri dispositivi. Nelle parole di Robin James, quello che l’idea di iperimpiego indica ‹non è tanto un fenomeno nuovo quanto la riconfigurazione di una pratica in corso: […] sono i nostri smartphone a svegliarci, non le nostre mamme, proprio come le email si occupano di compiti relazionali (programmare, ricordare, controllare) convenzionalmente svolti dalle donne›. E ancora, questo sottolinea che la casa non è mai stata sacra: per molte persone è sempre stata un luogo di lavoro, ma il lavoro svolto lì è stato per lo più invisibile.
Genere, tecnologia e (in)visibilità del lavoro
È interessante che questo lavoro nascosto stia diventando visibile nel preciso momento storico in cui alcune donne stanno cominciando a farne a meno. Non viene più inquadrato come riproduzione sociale ma come iperimpiego – un termine che enfatizza la sua onerosa e spesso sgradita natura, così come la sensazione di inesorabilità che può corrispondere al mantenimento essenziale delle nostre vite quotidiane. Naturalmente, il fatto che alcune donne possano ora fare a meno di (alcuni aspetti di) questo è proprio il punto. Questa serie di obblighi e di micro compiti è stata trasformata in ‹impiego› perché le tecnologie attualmente se ne occupano più delle donne. Quando il navigatore della conoscenza dà un promemoria, è assimilabile a una funzione utile; quando tua madre dà un promemoria, è petulante in modo fastidioso. Questo lavoro è rimasto per lo più invisibile fino a quando non è diventato un compito delle macchine. Dunque, perché dovrebbe essere così? Come James si domanda, ‹la tecnologia digitale […] risignifica lo stigma di genere convenzionalmente affibbiato al lavoro di cura, al lavoro affettivo, e a altri tipi di lavoro femminilizzato che non contano mai davvero come lavoro ‘vero’?›
Beh, certamente la prima cosa da notare è che l’individualizzazione di questo lavoro ha redistribuito la gestione degli aspetti essenziali per la vita tra differenti parti della popolazione. Quando insinuo che i processi tecnologizzati hanno più probabilità di essere riconosciuti come lavoro più del lavoro riproduttivo femminilizzato, ovviamente sto sminuendo il fatto che gli esseri umani sono gli unici a programmare e a gestire i dispositivi elettronici – dobbiamo impostare la sveglia, inserire quel promemoria e così via. Quindi può essere che siamo culturalmente più attenti al valore di queste attività ora che persone diverse hanno più possibilità di essere coinvolte in esse. Le implicazioni politiche di genere di ciò sono ovvie; è piuttosto indicativo che Bogost inquadri ‹l’iperimpiego come una fastidiosa intrusione nella vita delle persone, piuttosto che la creazione di condizioni uniformi›. L’altra cosa da tenere in considerazione rispetto a questo, tuttavia, riguarda l’inquadramento culturale del cosiddetto ‹lavoro da donne› e i vari ostacoli messi in mezzo dall’immaginario sociale in termini di riconoscimento del lavoro riproduttivo come impegnativo, utile e prezioso. Il lavoro svolto in casa da soggetti genderizzati (in particolar modo nelle fantasie culturali di dinamiche familiari eteronormative) è stato normalizzato – vale a dire è stato storicamente inquadrato come un’estensione di predilezioni, affetti, forme di intimità, preferenze personali e così via che occorrono naturalmente nel femminile (e spesso, in particolare, nel materno).
Questa, infatti, è una cosa che Kathi Weeks conferma quando dichiara che ‹nella misura in cui l’espressione dell’emozione non è stata solo femminilizzata ma nella prassi anche naturalizzata – come un’eruzione spontanea piuttosto che come una manifestazione sofisticata – le abilità coinvolte nel gestirla con successo rimangono difficili da cogliere›. Ossia, queste abilità rimangono invisibili come lavoro sia in casa che nel luogo del lavoro salariato. Sebbene il lavoro emozionale si presti in modo particolarmente facile alla cancellazione culturale dello sforzo che sta dietro, possiamo vedere gli stessi processi in atto anche quando si tratta di cose come i lavori domestici – l’idea di una tendenza femminile a essere ‹orgogliose della casa› e a avere dei severi standard, per esempio, ammette ciò che Angela Davis chiama ‹l’ostinato primitivismo del lavoro domestico› e che riconfeziona ciò come una semplice questione di ‹tocco femminile›. Le funzioni e le attività svolte dai dispositivi elettronici sono ovviamente meno disponibili alla naturalizzazione, e perciò la loro utilità e necessità hanno meno probabilità di essere oscurate con gli stessi mezzi. Quindi, negli esempi che abbiamo visto, le macchine diventano più visibili come lavoratrici rispetto alle donne.
Mentre potrebbe essere un po’ irritante trovarsi di fronte al fatto che le attività di Siri, Cortana e altri siano più facilmente riconoscibili come lavoro rispetto a simili attività svolte da soggetti umani femminilizzati, ciò potrebbe comunque offrire opportunità interessanti per la progressiva liberazione del lavoro dal genere. Nelle parole di Waldman, ‹mentre brillanti e trendy congegni assorbono i lavori una volta delegati a persone di status inferiore, questi lavori (ancora non pagati) hanno perlomeno cominciato a perdere lo stigma›. Dato che il lavoro femminilizzato diventa lavoro tecnologizzato, potrebbe arrivare a essere meno denigrato culturalmente e di conseguenza più disponibile a essere svolto da persone di diverso tipo. Le persone che hanno libera scelta e un capitale culturale, in altre parole, potrebbero essere più disposte a fare questo lavoro se esso fosse associato a oggetti apprezzati culturalmente piuttosto che a soggetti denigrati socialmente – una vittoria estremamente parziale, certo, visto che presuppone che l’unico modo per eliminare lo stigma sia rimuovere ogni legame con donne concrete e con le persone legate alla propria classe sessuale. Questo intero fenomeno non è tanto una questione di ‹preferirei essere un cyborg che una divinità› quanto un ‹preferirei essere un iPhone che una donna›.
La femminilizzazione del lavoro contro la liberazione del lavoro dal genere
Sia la recente genderizzazione degli assistenti digitali che l’emergente identificazione con il maschile dell’iperimpiego ci invitano a rivedere e riconsiderare una delle tendenze più dominanti nella teorizzazione della forza lavoro: la cosiddetta femminilizzazione del lavoro. Come abbiamo visto, l’espressione ‹lavoro femminilizzato› è usata per definire, con le parole di Morini, ‹non solo l’aspetto oggettivo dell’aumento quantitativo della popolazione femminile attiva in tutto il mondo›, ma anche per sottolineare ‹il carattere qualitativo e costitutivo di questo fenomeno›. Si fa qui riferimento a nuove tendenze nella gestione del lavoro – come la precarietà, la mobilità e i bassi stipendi – e al predominio di nuovi tipi di condotte di lavoro nel tardo capitalismo, inclusa l’enfasi sulla costruzione di relazioni, sulla connessione emotiva, sul lavoro di comunicazione e la propensione alla cura.
Morini, infatti, lascia intendere che sia la forma che il contenuto del cosiddetto lavoro femminilizzato attingono al ‹bagaglio dell’esperienza femminile›. Le donne sono considerate ben preparate alle richieste di precarietà e all’insistenza sul fatto che la persona che lavora sia flessibile, costantemente disponibile e dedita a impieghi le cui modalità di lavoro possono essere imprevedibili. Questo è il risultato, considera Morini, di ‹una tendenza femminile a trasferire le modalità e le logistiche del lavoro di cura, in particolare rispetto al contesto della relazione madre-figlio che, in pratica, non ha limiti di tempo e dedizione, e a renderle parte dell’attività professionale di un soggetto›. I limiti di questo ragionamento sono immediatamente evidenti: la tendenza a posizionare le relazioni madre-figlio anche al centro delle vite di chi rimane senza figli, nonché l’apparente implicazione che esista un solo possibile modello di maternità e di crescita dei figli, e che questo sia diadico, privatizzato e a tempo pieno. Sebbene il discorso di Morini sia molto più delicato e profondo di quanto queste specifiche osservazioni possano suggerire, è importante riconoscere che questo pensiero rischia di naturalizzare e omogeneizzare cosa sia e voglia dire essere una donna.
Questo, in effetti, è uno dei problemi dell’etichettare come femminilizzazione i nuovi trend degli aspetti del lavoro. Non è mai esistita veramente un’esperienza di lavoro solo ‹femminile›, visti gli infiniti modi nei quali forme intersecate tra loro di oppressione di razza, classe e forza fisica hanno pregiudicato la portata delle opportunità delle donne e la loro possibilità di entrare e uscire dalla forza lavoro. Etichettare ogni cambiamento come ‹femminilizzazione› vuol dire portare in primo piano una precisa narrazione di come le donne lavorano (e hanno lavorato) che ingloba tutte le differenze sotto l’unico vessillo del genere – non dovremmo di certo dimenticare che quando parliamo delle tendenze del tardo capitalismo parliamo anche di una peculiare ‹razzializzazione del lavoro›, tra le altre cose. E in più, chiamare queste tendenze e processi contemporanei ‹femminilizzazione› vuol dire presumere l’esistenza di un rigido modello a due sfere del mondo sociale – produzione e riproduzione, maschile/maschio e femminile/femmina (come accennato nella descrizione dell’iperimpiego fatta da Bogost).
Nel sottintendere una violazione o un mescolamento delle sfere in tal modo, la ‹femminilizzazione del lavoro› postula una radicale differenziazione tra lavoro ‹da uomini› e ‹da donne› nel preciso istante in cui questa separazione viene ipoteticamente compromessa. Ciò rischia non solo di omogeneizzare ma anche di semplificare e reificare modi particolari di creare il genere. Come ha sottolineato argutamente Paul B. Preciado,
Niente ci permette di affermare che il nuovo modello postfordista di lavoro sia più ‹femminile› di quello che era il modello industriale. Possibile che le donne non lavorassero come schiave nei campi di cotone? Possibile che non fossero le prime a impacchettare sardine in una catena di montaggio, o a lavorare nell’industria tessile, o a costruire smart card per la Microsoft? Dire ‹femminile› per descrivere la progressiva precarizzazione del lavoro implica un eterocentrismo di fondo, una metafisica delle differenze sessuali, e il presupposto di una ‹retorica del genere› secondo cui il sicuro, lo stabile e il permanente implicano l’industriale e il maschile, e il flessibile, il mutevole, il mobile e il precario implicano il postindustriale e il femminile.
Etichettare certe forme di lavoro come ‹femminilizzate› rischia di portare avanti l’idea che esista una dinamica stabile e costante basata sul genere nel lavoro salariato del capitalismo cognitivo, in un momento in cui la stabilità del genere stesso è sempre più messa in discussione. Nel processo di rappresentazione di una contaminazione, in altre parole, si afferma una purezza di genere (sebbene sia una cosa dalla quale ci siamo già estraniati); le future regole di ingaggio attorno a idee come emozione, tatto, intimità, sesso – cura in tutte le sue forme – sono limitate dal loro essere imbottigliate nei paradigmi di genere esistenti. Di certo questa destabilizzazione del genere è qualcosa a cui Morini stessa presta vagamente attenzione quando dichiara che, nelle condizioni sociali attuali, ‹le semplici e binarie dicotomie di produzione/riproduzione, lavoro maschile/lavoro femminile perdono il loro significato al punto da spingerci a ipotizzare un graduale processo di liberazione del lavoro dal genere›. E ancora, ciò presuppone che le dicotomie una volta avessero un significato stabile – ma la nozione di ‹liberare dal genere› potrebbe comunque rimanere una raffigurazione più utile della ‹femminilizzazione del lavoro›.
In aggiunta a questo, descrivere i cambiamenti nelle prassi lavorative come ‹femminilizzazione› suggerisce anche che le donne si assumono alcuni tipi di responsabilità per facilitare la diffusione di una precarietà generalizzata. Diversi tipi di donne sono entrate nella forza lavoro, e più o meno nello stesso periodo lo stesso lavoro salariato è diventato più ‹femminile› – è facile interpretare ciò come una dinamica di causa e effetto; proprio come, quando le donne costituiscono l’esercito di riserva del lavoro, in qualche modo vengono considerate coinvolte nella pressione al ribasso degli stipendi. Il cambiamento di ruolo delle donne nella forza lavoro, quindi – la nozione di ‹femminilizzazione› sembra implicarlo – ha normalizzato le condizioni delle donne e imposto lo sfruttamento delle donne al ‹resto di noi›. Così leggiamo nelle parole di Power:
Quando le persone parlano di ‹femminilizzazione del lavoro›[…] il loro discorso è spesso ambivalente. L’espressione è sia descrittiva (il lavoro è generalmente più precario e legato all’ambito della comunicazione, come tendevano a essere i lavori delle donne in passato), sia indice di un risentimento (‹le donne hanno rubato lavori per veri e propri uomini! È colpa loro – in qualche modo – se non abbiamo più una vera e propria industria!›)
Questa serie di implicazioni è una ragione in più per essere molto diffidenti rispetto alla ‹femminilizzazione del lavoro› come concetto e slogan, e anche una ragione per insistere su una serie di puntualizzazioni e qualificazioni ogniqualvolta fossimo tentati di usare questa espressione. La sfida sta nel riconoscere gli importanti percorsi storici dei modelli di lavoro delle donne, senza trasformare ‹le donne› in un monolite, senza ignorare le forme diversamente genderizzate del lavoro ‹femminilizzato›, e senza fornire un ulteriore supporto discorsivo all’idea di un sistema dei generi binario marcato da pratiche e abilità femminili o maschili per natura. Non è un’impresa da poco, certo, è un delicato equilibrio che mi sono sforzata di sostenere in questo testo!
Generi programmabili
È forse rispetto al destrutturare alcuni assunti che stanno alla base della ‹femminilizzazione del lavoro› che l’automazione del lavoro d’ufficio, di quello legato ai servizi e del lavoro di cura può essere considerata molto interessante e produttiva. Il processo di automazione verosimilmente mette in crisi l’idea di una serie di abilità femminili innate o i legami percepiti come causali tra specifici corpi e specifici ruoli o caratteristiche sociali. È chiaro che molte delle app e dei sistemi automatizzati odierni attingono a preesistenti presupposti basati sul genere, programmati come se dovessero essere degli avatar donne o voci femminili scorporate. Essi sfruttano i nostri presupposti sul lavoro femminilizzato e le nostre relazioni per marcare socialmente in base al genere i comportamenti legati alla cura e alla fornitura di servizi, andando a battere sugli elementi della femminilità che hanno storicamente abilitato dei soggetti al caregiving e alla fornitura di servizi per svolgere meglio specifici obblighi, attività e compiti; fino a ora proprio inutile da un punto di vista femminista. Comunque, l’assimilazione tecnologica della femminilità e dell’automazione di ciò che una volta era codificato come ‹lavoro da donne› lo si può anche considerare un modo per togliere la parvenza di naturale a queste condotte di cura genderizzate, socialmente convenienti, programmate culturalmente che vengono spesso poste sotto lo slogan di femminilità.
Nel riconoscere che i nostri apparecchi e le nostre app sono state programmate attivamente per mimare specifici comportamenti marcati in base al genere – nel riconoscere che la loro femminilizzazione non è neutrale né inevitabile ma il sottoprodotto di specifici decorsi storici – siamo invitate a riconsiderare i modi in cui il genere non-macchinico potrebbe esso stesso operare come un costrutto artificiale e programmato culturalmente. Quando le tecnologie ‹creano il genere›, ovviamente esso non è naturale, ma piuttosto visibile come il prodotto di scelte precise su come connettere, assistere o convincere l’immaginato utente di prodotti tecnologici. Come abbiamo visto, la femminilità (intesa qui come un insieme particolare di aspettative, nessi e norme di comportamento genderizzato) spesso gioca un ruolo negli strumenti dello sviluppatore. Ciò mette in primo piano l’idea della femminilità come un’etichetta certamente problematica per una serie fluida di capacità, tecniche o strategie potenzialmente disponibile per le macchine e per gli umani variamente genderizzati, minando così l’idea di comportamenti femminili come il prodotto di un’abilità sessuata per natura o come spontanea eruzione. Le app attuali sfruttano le idee sul genere nel loro tentativo di offrire un efficace servizio agli utenti. Tenendo a mente ciò, quindi, possiamo considerare la femminilità come una tecnologia che le nostre tecnologie stanno usando adesso?
Traduzione di Silvia De Marco
Grazie a Rosie Warren e Salvage Quarterly. Originariamente pubblicato su Salvage Quarterly #3.
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