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Un vaccino per aumentare la produttività

Il primo vaccino contro la malaria verrà presto somministrato in malawi. L’OMS accoglie con favore un modello che vede la salute pubblica come business e l’africa come laboratorio di sperimentazione delle aziende farmaceutiche.

Un vaccino per aumentare la produttività

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Il primo vaccino contro la malaria sarà usato in malawi, per poi essere somministrato anche in ghana e kenya. La notizia è stata comunicata con entusiasmo dall’organizzazione mondiale per la sanità (OMS), che ha parlato di “momento storico”, e è stata riportata con gli stessi toni su quotidiani come la stampa e independent. Tuttavia il modello proposto dall’organo delle nazioni unite che si occupa di salute nasconde molte ombre: la salute pubblica è ridotta a modello di business e l’africa viene usata come laboratorio di sperimentazione delle aziende farmaceutiche.

Dati OMS, who.int/malaria

La malaria è una malattia causata da punture di zanzare che ne ospitano i parassiti, zanzare appartenenti al genere anopheles, che in europa sono scomparse da tempo, mentre sopravvivono in alcune zone dell’africa, oltre che nel sud est asiatico e in america latina. Ci sono diversi tipi di malaria, con conseguenze più o meno gravi. Non esisteva fino a ora un vaccino, solo profilassi impiegabili per tempi brevi e dal costo elevato: il malarone, uno dei farmaci più prescritti in italia, non coperto dal sistema sanitario nazionale, ha un costo per confezione di circa 50 euro: se si vuole coprire un viaggio di due settimane di permanenza ne sarebbero necessarie almeno due confezioni.

Come fanno gli africani che vivono in zone esposte al contagio, quindi? Sopravvivono, quando riescono.

Il personale medico locale è più preparato a riconoscere e trattare la malaria rispetto a quello europeo,

com’è normale che sia in zone dove la presenza della malattia è più diffusa, ma l’utilizzo di strutture sanitarie è spesso appannaggio di pochi. Profilassi a parte, oggi la prevenzione della malattia consiste principalmente nell’utilizzo di reti insetticide per proteggersi durante la notte, oppure direttamente di insetticidi. La prevenzione quindi si concentra solo sulla limitazione del vettore, la zanzara. L’accesso alla prevenzione così come al trattamento rimane tuttora limitato e il numero di morti legate alla malaria molto alto. Le stime OMS parlano di 435.000 morti da malaria in tutto il mondo nel 2017, con il 92% di queste in africa. I soggetti più vulnerabili sono i bambini sotto i 5 anni, che rappresentano il 62% delle morti globalmente. 

Il vaccino è stato sviluppato dall’azienda farmaceutica glaxo smith kline (GSK) in collaborazione con gates foundation, e ha superato diversi test prima di arrivare alla somministrazione su larga scala in malawi. Secondo fonti ufficiali OMS (che in parte finanzia il progetto e quindi ne è direttamente coinvolto) i bambini trattati hanno dimostrato in 4 casi su 10 resistenza alla malaria, 3 su 10 resistenza alla malaria nella sua forma più grave. Quindi si parla di un vaccino dall’efficacia limitata, che ha sollevato dubbi nella comunità scientifica e non ha ricevuto l’appoggio di medici senza frontiere, che già nel 2015, quando l’agenzia europea per i medicinali (EMA) aveva dato il suo nullaosta al vaccino, aveva dichiarato il suo rifiuto di unirsi al programma di sperimentazione

Meglio di niente, si potrebbe dire. Ma a quale costo? 

In contesti dove la malaria causa molte morti, è facile salutare l’arrivo di un nuovo farmaco come la manna dal cielo: facile per una famiglia che potrebbe perdere un figlio ma anche per chi in europa ha in mente un’immagine spesso stereotipata dell’africa per cui questi africani sono poveri, vanno aiutati e qualunque cosa è meglio di niente. Come nel caso di Carola Rakete e della seawatch, la rappresentazione è sempre la stessa: il salvatore bianco risolve i problemi dei poveri e deboli neri, incapaci di risolverli da sé. 

Non ci si domanda che cosa ha da guadagnare chi porta la luce della scienza. Nel caso del vaccino antimalarico cosa ci sia da guadagnare è difficile stimarlo dall’esterno, certo è che

il territorio africano, specie quello subsahariano, può rappresentare un gigantesco laboratorio di sperimentazione umana dal punto di vista medico.

Infatti la popolazione africana è in rapida crescita demografica e è composta in larga parte da giovani e bambini, con scarso accesso a cure mediche e assistenza legale. È già successo.

L’industria farmaceutica ha una lunga storia di esperimenti eticamente discutibili su suolo africano, in quanto ha beneficiato di governi locali conniventi e sostanziale assenza di conseguenze legali. Un caso tra i tanti: Kano, Nigeria, 1996. Nel mezzo di un’epidemia di meningite meningococcica (cioè batterica) la pfizer conduce il test di un nuovo antibiotico, il trovan, su un campione di 200 bambini. Per determinarne l’efficacia si dividono i bambini in 100 trattati con trovan, gli altri con ceftriaxone, un altro antibiotico in commercio, in dose significativamente inferiore a quelle raccomandata dalla stessa FDA. In pratica, metà dei bambini sta ricevendo cure, l’altra metà no, senza saperlo. Dodici bambini muoiono (sei per gruppo) altri subiscono gravi danni alla salute.  Emergeranno poi dubbi sulla legittimità del test da un punto di vista scientifico, in fase di processo che porterà a un nulla di fatto: delle quattro sentenze emesse negli Stati Uniti, le prime tre saranno assoluzioni per vizi di forma. Il quarto procedimento legale avverrà nel 2007 quando il governo nigeriano intenterà causa contro pfizer sulla base del fatto che il test del farmaco non ha mai avuto via libera ufficiale. A questo punto pfizer cerca un patteggiamento e in una vicenda poco chiara di pressioni su funzionari governativi e documenti spariti finirà per pagare 10 milioni di dollari, contro i 6.95 miliardi inizialmente richiesti in danni dal governo nigeriano.

Modello proposto da GAVI

Come in quest’ultimo caso, il modello di riferimento del gruppo di finanziatori del vaccino e della stessa OMS è quello della collaborazione tra pubblico e privato in contesti di “aiuti e emergenze umanitarie”, in cui in sostanza si assiste all’intervento di un privato che risponde a esigenze pubbliche. Secondo questo modello è nell’interesse del privato investire in interventi umanitari:

“una maggiore copertura immunitaria porta a popolazioni più sane e più produttive e a una maggiore prosperità”

Espressioni come “dare forma ai mercati”, “modello di business”, “dare un chiaro segnale ai produttori”, proprie del mondo degli affari più che del welfare. Si dovrebbe quindi accogliere questo modello senza riserve, c’è il salvatore bianco che ci pensa. Ma gli interessi del privato non necessariamente coincidono con quelli della collettività, senza tenere conto del fatto che le aziende farmaceutiche che operano in questi contesti spesso hanno capacità finanziarie e uffici legali in grado di avere la meglio su interi governi e uscirne indenni.

La domanda reale è se sia desiderabile questo modello, in cui le conseguenze potenzialmente positive o negative di un intervento su larga scala sono lasciate alle buone intenzioni di alcune aziende, senza nessuna garanzia. Ci si deve fidare, perché non c’è alternativa. Perché è meglio di niente. Forse bisognerebbe chiedersi se scegliere senza alternative sia effettivamente una scelta.

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