NET93 Lavori prometeici e realismo domestico. Helen Hester / E02

Contro il realismo domestico

La quarta parte dell'articolo di Helen Hester, promethean labors and domestic realism, pubblicato su e-flux architecture, artificial labor, 2017.

Contro il realismo domestico

parole di:

La spinta a portare le casalinghe al lavoro, va notato, è lontana dall’obiettivo finale del progetto di Davis, che vorrebbe vedere una sorta di socializzazione hi-tech dei lavori domestici con “team di persone qualificate e ben pagate, che si spostino di casa in casa, che progettino macchine per le pulizie tecnologicamente avanzate” sotto la guida dello stato¹. Ma una tale visione dell’emancipazione individuale dal lavoro domestico potrebbe essere realizzabile solo sotto il socialismo, suggerisce, e la trasformazione del sistema politico e economico deve perciò essere promossa come obiettivo primario.

L’argomentazione di Davis presuppone che le donne dovrebbero per prima cosa diventare lavoratrici stipendiate al di fuori del contesto domestico, al fine di contribuire a determinare cambiamenti progressivi nell’ordine sociale,

così da poter dare avvio a iniziative per la deprivatizzazione del lavoro domestico (probabilmente una serie di azioni di trasformazione sociale in qualche modo rigida e controintuitiva, dato che richiede che le donne prima di tutto combattano per avere un posto all’interno della stessa forza lavoro contro cui i loro colleghi uomini stanno lottando).

Può darsi che questa argomentazione risulti in qualche modo difficile per i lettori contemporanei, dal momento che tutti noi siamo sempre più consapevoli dell’”erosione del confine fra il tempo del lavoro e il tempo della vita” – un confine che è sempre stato sottile o inesistente per alcune frange della classe lavoratrice². Per molte persone tra noi abbastanza fortunate da essere sfruttate dal capitale – e, nel momento in cui si considera la maggioranza delle alternative attuali, siamo quasi tutte fortunate, anche mentre riconosciamo la necessità di lottare per delle alternative nuove e migliori – la casa diventa spesso un contesto in cui si svolge del lavoro salariato (o delle attività che non vengono riconosciute come lavoro salariato). La cosiddetta “femminilizzazione del lavoro”, allo stesso tempo, significa che le attività riproduttive un tempo associate principalmente alla casa “non hanno più la funzione di riprodurre forza lavoro ma sono piuttosto attività che producono direttamente plusvalore”³. È necessario che, in aggiunta a questo, siano oggetto di un attento esame critico il fatto che lavoratori non sindacalizzati e precari trovino notoriamente difficoltosa l’organizzazione sul posto di lavoro e che molte lavoratrici delegheranno a personale domestico sottopagato l’ingestibile lavoro di riproduzione sociale e ogni rivendicazione della necessità di dare priorità al convenzionale luogo di lavoro salariato.

Nel lavoro di Davis la sfera domestica, cosa che forse potrà sorprendere, appare in qualche modo spogliata di opportunità politiche. A differenza dei tradizionali spazi di lavoro salariato, tale sfera è vista come un potenziale luogo per la trasformazione, ma non come un possibile campo di operazioni per causare tali trasformazioni; è sempre figura, mai sfondo.

È interessante notare che – a dispetto di quel che cita dal lavoro di Charlotte Perkins Gilman, visionaria studiosa di economia domestica e femminista del tardo diciannovesimo secolo – Davis appare poco fantasiosa nella sua prospettiva di ciò che la casa è o potrebbe essere.

Laddove Gilman ha teorizzato nuove soluzioni domestiche (inclusi complessi abitativi femministi con angoli cottura condivisi) al fine di promuovere l’evoluzione del socialismo, il pensiero di Davis è per lo più limitato alle abitazioni privatizzate di tipo convenzionale (sebbene rese di recente oggetto di un lavoro domestico di tipo socializzato, tecnologizzato e organizzato dallo stato)⁴. Per lei, sembrerebbe, il significato e la forma della casa sono stati stabiliti e non si possono più modificare.

Infatti, anche molte delle attiviste coinvolte nell’ambizioso progetto “Salario per il lavoro domestico” – una campagna apertamente diretta a trovare modalità per scuotere dal di fuori gli spazi tradizionali di lavoro salariato – ai tempi non riuscirono a andare oltre la nozione di spazio domestico come unità privatizzata e unifamiliare. Nel suo saggio del 1975 Wages against house work, per esempio, Silvia Federici cerca esplicitamente di “tracciare una linea” fra la sua posizione e “la proposta di socializzazione e collettivizzazione del lavoro domestico”, che a suo parere rischia di concedere troppo potere allo stato. Aspetti delle strutture sociali e spaziali associati al lavoro riproduttivo vengono qui ancora una volta quasi del tutto trascurati come ambiti per trasformazioni radicali. L’organizzazione della casa stessa – uno spazio che è verosimilmente sia specchio che fattore di influenza su aspetti dell’esperienza umana come le relazioni economiche e le norme sessuali – non sembra essere percepita come terreno di potenziale cambiamento.

Questa mancanza di volontà o incapacità di re-immaginare gli spazi di riproduzione sociale si collega alle affermazioni di Dolores Hayden contenute nel suo eccellente lavoro sulla storia dell’home design femminista e della pianificazione femminista di comunità, The Grand Domestic Revolution. In questo testo, Hayden fornisce una panoramica di alcuni dei diversi esperimenti di design e organizzazione domestica condotti dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Trenta. Malgrado tale genealogia dell’innovazione domestica, comunque, Hayden nota che le femministe sono giunte, negli anni più recenti, a accettare “il design dello spazio della casa singola, che (richiede) una quantità eccessiva di tempo e energie umane per mandarla avanti, come una componente inevitabile della vita domestica”. È l’evidenza di ciò che io propongo di chiamare “realismo domestico” (nominato così in accordo con Realismo capitalista di Mark Fisher, e non come il genere letterario) – cioè, dell’ostinazione o inflessibilità dell’immaginario domestico, anche di fronte a una modernizzazione socio-tecnologica altrimenti di ampia portata. Il realismo domestico definisce il fenomeno per cui la piccola unità abitativa indipendente e individualizzata (e la concomitante privatizzazione del lavoro domestico) diventa talmente accettata e ordinaria che risulta quasi impossibile immaginare una vita organizzata altrimenti. Il fatto che ciò accada nonostante molte persone vivano la pressione e le difficoltà nella gestione del lavoro riproduttivo, per come è attualmente organizzato, non fa altro che rendere la questione ancora più degna di nota.

La casa, per usare il gergo prometeico, arriva a coincidere con qualcosa di dato, non riprogettabile. Come il lavoro di Hayden precisa, tuttavia,

esistono molte possibili forme di organizzazione domestica, sia di tipo spaziale che relazionale, oltre allo spazio familiare atomizzato e depoliticizzato che Davis ha in mente.

Le femministe materialiste dello studio di Hayden

notarono che molte delle decisioni sull’organizzazione della società futura venivano incorporate nell’organizzazione dell’ambiente architettonico. Pertanto, identificarono la trasformazione spaziale dell’ambiente lavorativo domestico sotto il controllo delle donne come un elemento chiave di collegamento fra le campagne per l’equità sociale, la giustizia economica e la riforma ambientale.⁷

Queste femministe svilupparono diversi approcci a una riorganizzazione della vita domestica, per esempio quartieri residenziali collettivi dotati di centri di gestione domestica cooperativa e case prive di cucina, residence con sale da pranzo comuni e spazi condivisi per la cura dei figli, condomini con cortili dotati di lavanderia in comune, spazi ricreativi e biblioteca (così come spazi dedicati alla preparazione del cibo)⁸.

In effetti tali interventi – o qualcosa di simile – si concretizzarono nelle abitazioni socialiste del periodo della “Vienna Rossa”, progettate e costruite come parte del programma radicale di riforme municipali promosso dal consiglio cittadino socialdemocratico fra il 1919 e il 1934. In questo contesto, le residenze dei ‘lavoratori’ furono integrate con asili, biblioteche, cliniche dentali e mediche, lavanderie, laboratori, teatri, negozi cooperativi, giardini pubblici, impianti sportivi e un’ampia gamma di altre strutture pubbliche”⁹.

Sebbene non esplicitamente inquadrata come misura femminista, il potenziale in termini di politiche di genere in questi tentativi di “modellare una nuova forma di vita proletaria socializzata” appare tanto evidente quanto allettante¹º. Gli storici dell’urbanistica sono stati abbastanza chiari rispetto ai limiti e ai fallimenti di questa particolare iniziativa austriaca, e critiche come Eve Blau si sono date un gran da fare per delegittimare l’idea di una soluzione architettonica già pronta, insistendo invece sulle inesorabili connessioni fra le relazioni spaziali e sociali. Il modo in cui questi esempi fanno leva sulla casa come luogo da ripensare hanno tuttavia implicazioni interessanti per la politica prometeica. Suggerimenti pratici per eliminare “il tran tran domestico attraverso il design” abbondavano all’inizio del ventesimo secolo, poiché socialiste e femministe immaginavano allo stesso modo nuove tecnologie in grado di favorire una gestione domestica meno oppressiva, estenuante e dispendiosa in termini di tempo¹¹.

Il fatto che le femministe di questo periodo abbiano provato a inserirsi all’interno delle egemonie materiali di una vita basata sulle differenze di genere, prima di dedicarsi a manifestare per un maggiore coinvolgimento degli uomini nel lavoro riproduttivo, dice qualcosa sulla inflessibilità di quei ruoli sociali che penalizzano selettivamente chi non è di sesso maschile.

In molti spazi domestici re-immaginati, l’ambiente materiale veniva considerato uno strumento utile a incoraggiare una gestione domestica collettiva.

La condivisione e la specializzazione del lavoro domestico che ciò contribuì a determinare furono concepite per ridurre il fardello che gravava sulle singole donne e per permettere loro di ridurre i costi mentre si riappropriavano di un po’ del loro tempo, e non per attuare altre forme di lavoro o per il perseguimento di interessi personali, civili o politici. In verità, molti di questi progetti furono guidati da studiose di economia domestica borghesi (come Gilman). Molte persone appartenenti alle classi lavoratrici urbane di certo avrebbero avuto esperienze di vita comunitaria e di servizi condivisi molto meno positive, considerate le condizioni dei caseggiati del tardo diciannovesimo secoli e degli inizi del ventesimo. Comunque, le implicazioni di questi progetti spesso si estesero oltre le classi medie. Forme di cooperazione domestica negli insediamenti urbani della Chicago degli anni novanta del 1800, per esempio, servirono a facilitare l’organizzazione dei sindacati e aiutarono a scoraggiare il crumiraggio¹².

Diversi degli esempi storici citati nel testo di Hayden erano soltanto speculativi o apertamente immaginari, e molti non andarono mai oltre lo stadio di progettazione, ma un certo numero fu realizzato (almeno parzialmente). La socializzazione del lavoro domestico implicata nei progetti che si concretizzarono giustificò i grandi investimenti in tecnologie per la casa. Hayden nota, per esempio, che alcune comuni americane negli anni sessanta del 1800 poterono godere delle innovazioni rivoluzionarie per quei tempi come “luce a gas, bagni turchi e riscaldamento a vapore”, portando un giornalista del diciannovesimo secolo a dichiarare che “una vita comunista è piena di apparecchi per l’agio e il comfort”¹³. Troviamo qui i semi di un progetto, radicato nelle vite reali, che smentisce le calunnie gettate sul “folk political” – un’impresa trasformativa e tecnologicamente avanzata che si occupa di importanti questioni relative all’oppressione di genere e mira a fare spazio, nelle attuali condizioni, a un futuro femminista più emancipatorio.

In effetti, solo un vero movimento prometeico può rivelarsi adatto a smembrare qualcosa di apparentemente granitico come il realismo domestico.

I femminismi contemporanei (e altri cosiddetti prometeici) cosa possono sperare di ereditare, assorbire e riproporre da questa tradizione di esercizio socialista e femminista?

Verso un femminismo prometeico. Leggi qui il quinto e ultimo episodio di Lavori prometeici e realismo domestico.

 

Pubblicato originariamente su: E-Flux Architecture, Artificial Labor, 2017

Tradotto da Silvia De Marco e Andrea Raviolo

 

¹ Angela Y. Davis, Women, Race and Class, Vintage Books, New York 1983, p. 223; trad. it Bianche e nere, Editori riuniti, Roma 1985 (riedito da Edizioni Alegre, Roma 2018, con il titolo originale Donne, razza e classe)

² Antonella Corsani, Beyond the Myth of Woman: The Becoming-Transfeminist of (Post-)Marxism, SubStance 36 n.1, 2007, p. 124

³ Ivi, p. 125

⁴ Dolores Hayden, Grand Domestic Revolution: History of Feminist Designs for American Homes, Neighbourhoods and Cities, MIT Press, Cambridge 1996, p. 184.

⁵ Silvia Federici, Wages Against Housework (1975), in Revolution at Point Zero: Housework, Reproduction, and Feminist Struggle, PM Press, Oakland 2012, p. 21; trad. it. Salario contro il lavoro domestico, opuscolo pubblicato a cura del Collettivo femminista napoletano per il salario al lavoro domestico, 1976

⁶ Dolores Hayden, Grand Domestic Revolution, cit., p. 294

⁷ Ivi, p. 10

⁸ Ivi, p. 71

⁹ Eve Blau, The Architecture of Red Vienna 1919- 1934, MA: MIT, Cambridge1999, p. 2.

¹º Ivi, p. 50

¹¹ Nel 1914, per esempio, l’Unione delle femministe di New York propose la costruzione di un condominio femminista che avrebbe dovuto avere “tutti gli angoli arrotondati, tutte le vasche da bagno a incasso, tutte le finestre basculanti, tutti i letti a scomparsa nelle pareti e tutte le attrezzature domestiche con rifiniture opache” con lo scopo di ridurre la fatica di spolverare, lucidare e così via. Vedi Dolores Hayden, Grand Domestic Revolution, cit., p. 200.

¹² Ivi, p. 167

¹³ Ivi, p. 48