Fiction / 8 min
Due pride a sud
Nelle metamorfosi di Ovidio, Ifi e Iante si amano ma sono due ragazze. Non c'è altra soluzione: Ifi deve diventare un maschio. E se fossero nate oggi nel sud italia? Siamo stati ai gay pride 2019 di messina e reggio calabria e abbiamo immaginato la loro storia. Un racconto ibridato da un fotoracconto.
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Se avessi avuto sedici anni oggi, forse la mia storia non sarebbe andata esattamente come l’ha narrata Ovidio. Forse non sarei nata nella regione di Festo, a Creta, in Grecia, ma nella contrada Annà di Melito di Porto Salvo, Calabria, Magna Grecia. Mio padre non avrebbe minacciato mia madre di uccidermi se non fossi nata maschio, anche se si sarebbe capito che avrebbe voluto un maschio, “perché soldi non ce ne stanno”, e secondo lui solo un maschio avrebbe potuto lavorare nella sua officina, uno dei pochi lavori sicuri, che tanto le macchine tutti ce l’hanno e tutte si spasciano. Mia mamma avrebbe pregato tutti i santi perché lo assecondassero e una notte avrebbe sognato tutte le nostre divinità, zia Giò, nonno Michele, commare Brunilde e nonna Clotilde, e pure Anubi, il nostro cane di un tempo, tutti attorno al letto a accarezzarla e rassicurarla e a leccarle la faccia. Così si sarebbe convinta di avere nella pancia un bambinO con la “o” finale maiuscola.
E invece sarei nata genitalmente femmina.
Se avessi avuto sedici anni oggi, all’anagrafe non mi avrebbero certo chiamata Ifi ma Antonina, come mio nonno paterno Antonino, perché così avrebbe voluto mio padre, che dato che sarei stata femmina almeno il nome avrebbe dovuto sceglierlo lui. Ma a casa sarei diventata Anto, e a me sarebbe andato bene perché Anto sta bene su tutto, sui maschi e sulle femmine. Mamma mi avrebbe detto che Antonio e Antonia vogliono dire “combattente”, e anche quello mi sarebbe piaciuto, perché combattente finisce in “e”, mica in “a” o in “o”, anche se poi, se fossi stata adolescente oggi, su Wikipedia avrei potuto scoprire che forse ‘sta storia di mamma sul senso del mio nome è una fake news e che addirittura gira un’altra voce falsa che venga dal greco e voglia dire “fiore”. Ma se fiore avesse dovuto essere, sarebbe stato il fiore dell’agave, che qui come in Grecia cresce ovunque in mezzo al nulla. L’agave fa un solo fiore nella vita, che può diventare alto dei metri, e anche se poi per la fatica immane la pianta muore non è che ci si può concentrare sulla morte. Tutto muore, ma vuoi mettere morire dopo un fiore così figo che dall’alto della sua testa riesce a vedere cose che gli altri fiori non vedono?
Se avessi avuto sedici anni oggi, i miei non mi avrebbero combinato un matrimonio, perché nella mia famiglia non si sarebbe usato più, ma mio padre avrebbe comunque cercato di farmi zitare con Enzo, il figlio del fontaniere, per lo stesso principio dell’officina, che i tubi si spasciano sempre e il lavoro c’è. E io invece sin da bambina sarei stata innamorata senza successo di Elisa, sua sorella. Avrei sofferto per anni come una bestia per quell’amore e avrei desiderato essere innamorato come un maschio, innamorato con la “o”, solo per poterla avere. Averla o morire.
Mia mamma avrebbe pianto lacrime salate e pregato ogni notte per potermi salvare da quel tormento che a casa solo lei avrebbe saputo. Una notte di giugno avrebbe chiesto di nuovo aiuto alle nostre divinità, di certo non per trovare i soldi per farmi operare e diventare maschio, ma perché mi potessi trasformare, non so bene in chi o in cosa, e non so manco se sarebbe stato per merito loro ma il giorno dopo al Pride di Messina avrei conosciuto Iante, che qui di nome avrebbe fatto Giulia. Da quel momento non mi sarei più fatta chiamare Anto ma Nina, non avrei più voluto diventare un maschio per poter amare una femmina.
Avrei solo voluto essere una femmina che ama una femmina.
Se avessi avuto sedici anni oggi, 26 luglio 2019, mi sarei infilata una canotta e un pantaloncino, gli auricolari alle orecchie e sarei uscita di casa sotto il sole battente. Avrei aspettato Peppe alla stazione con due Brasilena ghiacciate rubate dal frigo di casa, avremmo preso il treno delle 14:54 e saremmo arrivati a Reggio Centrale alle 15:28, giusto in tempo per incamminarci verso il porto, vedere arrivare l’aliscafo che avrebbe portato Giulia e tanta altra gente dalla Sicilia e andare insieme alla pineta Zerbi per il concentramento del Pride.
Vicino alla pineta, dietro il primo carro, Peppe avrebbe alzato il suo cartello e lo avrebbe tenuto in alto per tutta la via Marina. A dispetto di quello che avrebbero detto in loop i nostri compagni di scuola ogni santo giorno, Peppe non sarebbe stato un semplice ricchione ma di una specie ancora più evoluta. Non avrebbe saputo dire se gli piacessero i maschi o le femmine e un giorno a scuola mi avrebbe fatto ‘sta domanda: “Ma perchè dovrei scegliere?”. Per esempio tra Alyssa e James sarebbe andato in crisi, pure tra Maeve e Otis o tra Eleven e Mike, e avrebbe scaseddato sia per Jaden Smith che per la figlia di Johnny Depp. In questo io e Giulia saremmo state più tradizionaliste, ci sarebbero piaciute solo le femmine, anche se femmine diverse, a lei Beyoncé e Tokyo, a me Janis Joplin e Nairobi.
Se avessi avuto sedici anni oggi, io e Giulia avremmo imparato una nuova parola, “queer”, e una nuova espressione, “rainbow capitalism”. Peppe, che da genio avrebbe saputo tutto, ci avrebbe spiegato che “queer” vuol dire tante cose. Quello che avrei capito è che non saremmo più stati il vomito, l’errore umano, il finocchio, il pervertito, il culattone, la zoccola, la lesbica, il bocchinaro, la leccafica ma saremmo potuti andare in giro a dire “sono queer”. Avrei sperato che un giorno “queer” diventasse di uso comune e che prima o poi nel vocabolario avrebbe voluto dire “persona”. E basta.
“Rainbow capitalism” Peppe ce l’avrebbe spiegato mettendo in mezzo un certo Marx, che lui a scuola avrebbe già studiato e io e Giulia no. In sintesi ci avrebbe detto che siamo una nuova e sempre più grande fetta di mercato, e che perciò ai capitalisti interessa sempre più il nostro mondo, mica per altro. Per farci capire ci avrebbe indicato due tre che lì al Pride si sarebbero messi a vendere ventagli, bandierine e coroncine di fiori di plastica color arcobaleno. Uno di quelli dei ventagli se ne sarebbe venuto dietro a noi tutto serio e sudato con un enorme sacco azzurro, facendo moine spagnoleggianti in mezzo alla folla e girando su se stesso con il ventaglio in mano, “Comprate i ventagli dell’amore”. Ma non sarebbe stato certo un capitalista, lo avrei riconosciuto: il meccanico di mio padre qualche anno prima. Quello sarebbe venuto lì solo per fare due soldi e provare a campare.
Se avessi avuto sedici anni oggi, avrei pensato tanto a mio padre e a mia madre. Guardando lo striscione dell’Agedo e tanti genitori mi sarei commossa pensando che forse l’anno prossimo l’avrei convinta a venire, a mia madre. Ma mio padre sarebbe stato una grossa spina nel cuore, non l’avrei convinto mai. E poi non sarebbe stato solo quello. Non sarei riuscita a capacitarmi di tutto quel suo nuovo razzismo. Avrei pensato alla sua infelicità, perché non è vero che in un’officina il lavoro c’è sempre. Le macchine si spasciano, ok, anche più di prima, ma ce ne sarebbero state sempre di meno perché in paese ci sarebbe stata sempre meno gente e i diciottenni appena patentati se ne sarebbero andati al nord a studiare, a lavorare, a guidare e a spasciare le macchine.
A distanza di un anno avrei ancora avuto un grosso sospetto: mio padre tra i 367 che a Melito nel 2018 hanno votato Lega. “Ti sei dimenticato cosa diceva Salvini dei meridionali?”, gli avrei chiesto una sera di luglio, poco prima del Pride. “A me non interessa quello che diceva prima. Mi interessa quello che fa adesso”, mi avrebbe risposto sbucciando una pesca e blaterando contro qualche sbarco in tv. Avrei voluto sputargli in faccia i semi dell’anguria e non lo avrei fatto solo per mia madre e perché mi avrebbe fatto rabbia e pena. Ma avrei solo aspettato di fare diciott’anni e di votare per sputarglieli, a lui e a tutti i genitori come lui che dimenticano da dove sono venuti. O forse per abbracciarlo e perdonarlo.
Se avessi avuto sedici anni oggi, forse Giulia sarebbe esistita e Peppe non si sarebbe chiuso in casa da mesi dopo che gli hanno sfracellato il telefono giù per una finestra di scuola, e non contenti anche la faccia a pugni.
Adesso forse non sarei stata di ritorno dal Pride su questo treno buio e vuoto e non mi sarei tolta l’arcobaleno dalle guance. Me ne sarei rimasta qui tranquilla con Peppe in mezzo a un treno colorato, pieno di gente, con il mio cartello in mano mostrato a Messina intera, a Reggio intera, al mondo intero. Mi sarei messa a guardare fuori dal finestrino le luci della Sicilia, Giulia da qualche parte in mezzo a quelle luci e appena arrivata in stazione, da fiore combattente, me ne sarei scesa dal treno e avrei attraversato il paese con il cartello bello in alto ripensando a nonno Michele, mandato da Melito manco ventenne nel ’45 a fare il militare in Piemonte e poi rimasto lì con le brigate partigiane. Avrei fatto tutto il giro del paese passando dal bar, dalla piazza, dal tabacchino e davanti alle case dei più fitusi fino a sotto casa mia a fischiare a mamma “Affacciati ma’, non aver paura”.
Se avessi avuto sedici anni oggi, chissà se avresti sentito i miei desideri. Se l’indomani avresti trovato questa foto su facebook scattata da Peppe, e proprio sotto il punto esatto in cui Sicilia e Calabria si toccano avresti visto le mani mie e di Giulia, che invece di essere due lembi di terra lontani, perché avremmo dovuto fare finta di non essere Nina e Giulia, saremmo state finalmente vicine e tra qualche anno ci saremmo potute sposare. Li avresti sentiti i 35 gradi all’ombra e l’umidità a palla? L’odore del mare e le nostre urla di felicità? La libertà di poter stare qui, tra queste due terre, perché oggi avremmo capito di non essere sole e che qui, così a sud, non tanto lontano da casa loro, Ifi e Iante si possono davvero amare.
Il racconto è liberamente ispirato al mito di Ifi e Iante in Ovidio, Metamorfosi, Libro IX.
Ogni riferimento a persone esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Si ringraziano il Reggio Calabria Pride e lo Stretto Pride Messina. Per le foto e la disponibilità si ringraziano Elvira Calluso e Rossana Melito dell’Associazione Culturale Magnolia RC, Saverio Pellicanò e Dalila Romeo.