La nostra casa, la nostra lotta.
La storia di 120 persone che si uniscono in una comunità, quella dello Spazio popolare Neruda, per rispondere a un'emergenza abitativa.
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Raccontare lo Spazio popolare Neruda e raccontarne le storie vuol dire parlare di casa, di lotte, delle vite che vi si intrecciano. La sua porta, di legno robusto, è la porta di una casa occupata. Apre alle cinque del mattino, quando gli occupanti diventano lavoratori, e chiude la sera tardi, quando i turni giungono al termine. Da qui passano ogni giorno a centinaia, donne e uomini, italiani, marocchini e nigeriani, bambini, adulti e anziani. Il Neruda è un piccolo mondo, una comunità fondata sulla lotta, su occupanti e militanti, sorelle, compagni, fratelli, amici o semplici conoscenti. Ci sono poi mura, stanze, cavi e termosifoni, impianti idraulici, il riscaldamento e un tetto. Tutti questi elementi rimangono assieme, e non senza sforzo.
Come per ogni luogo che spezza la logica dello spazio in cui si inserisce, il modo migliore per farsene un’idea è l’esperienza diretta: attraversare il portone e dall’atrio prendere le scale o uno dei corridoi. Si può arrivare sul tetto, dal quale ci si farebbe subito un’idea dell’estensione di questa anomala occupazione abitativa, o si potrebbe incontrare qualche occupante, intento a cucinare o a chiacchierare con il proprio dirimpettaio. Incontreremo un mercataro, che si prende una pausa mentre carica e scarica la sua merce da un carrello o da un furgone. Forse una lavoratrice precaria, che torna a casa rapidamente dopo una riunione. Incontreremo degli studenti universitari, forse venuti a trovare qualcuno, a prendere un té, o forse venuti per il cineforum o per il doposcuola. Più tardi forse andranno a cena e usciranno assieme. Si può incontrare un gruppo di ragazzini che giocano a calcio in corridoio, vicino ad altri coetanei seduti sui gradini, chini sui loro telefoni a cospirare. Servono cinque sensi per poter capire cos’è il Neruda. E ancora, dopo averci fatto i chilometri, su e giù per scale e corridoi, continueranno a mancare le parole giuste.
Chi per la prima volta partecipa alle assemblee del venerdì spesso rimane stranito. Cerca una categoria a cui ricondurre quanto sta vivendo, ma non la trova. È un’assemblea politica, un’assemblea di gestione o un’assemblea condominiale?
Non esiste un’occupazione uguale a un’altra. In ognuna vi sono libertà e autogestione, creatività, ambivalenze e contraddizioni, e ognuna ha i suoi gradi di permeabilità.
Per poterci capire qualcosa è utile tenere a mente come l’autorganizzazione non si limiti ai momenti formali, per quanto importante sia l’assemblea degli occupanti, nota anche come riunione del venerdì. Tra i vicini le questioni vengono affrontate nei corridoi, tra i mercatari in cortile o in cantina,
non è un’esagerazione affermare che il gossip, tra le quattro mura di questo paesino, abbia un ruolo politico.
È un processo ininterrotto fatto di discussioni, fraintendimenti, chiacchiere informali, chiarimenti, liti tra vicini, liti tra moglie e marito, tra cugini e nipoti, improvvisate assemblee di piano, sospettosi capannelli sulle scale, eloquenti silenzi. Le voci circolano, tutti si conoscono, e su molte questioni si è già discusso fin troppo in passato. Non stupisce quindi che ci sia chi preferisce farsi i fatti propri, presentandosi alle assemblee una volta ogni tanto o se succede qualcosa di particolare, e chi non se ne perde una.
Altrettanto difficile è raccontare un movimento. Certamente avremmo potuto parlare del Neruda senza parlare della lotta per la casa, consegnando un’immagine puramente estetica, o concentrandoci su una singola affascinante biografia. Tuttavia, questo articolo rappresenta il tentativo di ricostruire la storia di un processo politico, il tentativo di raccontare le esigenze e le ambizioni che hanno dato il via a questa occupazione, cos’è e cos’è stato il movimento per la casa. Perché se l’esperienza del Neruda mosse i primi passi nel 2015, quando un centinaio tra donne, uomini e bambini decisero di riprendersi una casa, la lotta è cominciata molto prima, e non ha alcuna intenzione di arrestarsi.
Casa, lavoro e documenti
Se la storia del movimento per la casa a Torino inizia per molti con il mito dell’occupazione della Falchera, quartiere popolare all’estrema periferia un tempo al centro di intense lotte per il diritto all’abitare, oggi il problema abitativo è ben lontano dall’essere risolto, al punto che nel 2016 il numero di domande per la casa popolare ancora insoddisfatte sfiora le 18.000.¹ In questa situazione il movimento per la casa è quindi una delle più visibili manifestazioni di conflittualità sociale. Limitandosi all’occupazione delle case popolari, spesso portate avanti da nuclei familiari slegati da ogni forza organizzata e non connesse tra loro, ne sono state occupate 83 nel 2016 e 60 nel 2017.² Numeri comunque ridotti se paragonati a altre grandi città e a molti centri meno abitati. Vi sono poi le numerose occupazioni abitative di interi edifici, in cui trovano ospitalità decine di famiglie, come nel caso del Neruda, e le occupazioni portate avanti da rifugiati e richiedenti asilo. Tra queste la più nota è stata certamente l‘Ex Moi, l’occupazione abitativa di diverse palazzine parte del villaggio olimpico torinese, dove più di un migliaio tra richiedenti asilo e rifugiati hanno vissuto fin dal 2013 e sgomberato definitivamente solo il 30 luglio di quest’estate. Molte di queste non sono connesse a reti organizzate, autogestendosi spesso in completa autonomia. Negli ultimi anni si sono poi mobilitate diverse forze organizzate, ovvero Asia USB, organizzazione legata al cosiddetto sindacato di base USB, lo Sportello per la casa del centro sociale Gabrio, il Comitato Popolare Vallette-Lucento e il collettivo Prendocasa, la cui storia è legata a quella dello Spazio Popolare Neruda. Vanno poi considerate le numerose lotte supportate da parte di anarchiche e anarchici.
Le lotte dei rifugiati, per un ciclo lungo più di 10 anni, sono direttamente connesse da una serie di occupazioni abitative, la cui storia è segnata da importanti convergenze tra migranti e solidali. Si può individuare nel 2006 l’inizio di una nuova fase del movimento per la casa, che vede da un lato un crescente protagonismo da parte di migranti appena giunti sul territorio torinese e dall’altro di famiglie di immigrati sfrattati o sotto sfratto, presenti sul territorio spesso da più di un decennio. E se “migrante” e “immigrato” sono entrambe categorie prodotte dalla frontiera e dalla violenza delle leggi in materia di immigrazione, è pur vero che tali termini definiscono soggetti distinti, come distinte sono le forme di oppressione a cui le persone ascritte a queste due categorie sono sottoposte.
Per raccontare questa storia partiremo dall’autunno del 2006, quando una cinquantina di giovani richiedenti asilo e rifugiati provenienti da diverse regioni dell’Africa orientale, dopo aver passato diversi mesi in un capannone industriale abbandonato alla periferia di Torino, allestirono per una settimana una tendopoli di fronte al palazzo del comune. Questo primo atto, fortemente simbolico, segna l’inizio di una lunga serie di mobilitazioni nella quale alla lotta per il diritto all’abitare si legano le istanze specifiche di rifugiati e richiedenti asilo. Casa, lavoro, residenza e documenti sono al centro di un ciclo di lotte che deve confrontarsi con le specifiche forme di oppressione cui i migranti sono sottoposti.
La lotta per la casa diventa quindi centrale nella lotta contro il razzismo, in quella che si configura fin da subito come una lotta intersezionale.
A partire dall’anno successivo il percorso di rivendicazione si concretizzò in diverse occupazioni abitative. La prima è l’ex caserma di via Bologna, nel novembre 2007, cui seguono nell’ottobre 2008 l’ex clinica San Paolo e l’edificio adiacente, la Casabianca, situati nei pressi di corso Peschiera, a partire dalle quali si organizzeranno numerose mobilitazioni nel corso del 2008 e del 2009.
Pochi anni più tardi, nel 2013,nascerà l’Ex Moi, una delle occupazioni abitative più grandi e popolose d’Europa. Per sei anni quasi 1500 persone, originarie di diversi paesi dell’africa occidentale e centrale, autogestirono 4 palazzine dall’infrastruttura fatiscente, dando vita a dure lotte e resistendo a tentativi di sgombero, a minacce e ricatti. A distanza di qualche mese, nel gennaio del 2014, saranno invece occupate le Salette, in precedenza un edificio vuoto appartenente ai missionari Salettiani. Ancora una volta le due occupazioni saranno il punto di partenza per diverse mobilitazioni durante le quali, ancora una volta partendo dalla questione abitativa, saranno posti al centro il tema dei documenti e della residenza.
La lotta contro gli sfratti
A partire dal 2010 diventa centrale la lotta contro gli sfratti, che porterà anni più tardi all’occupazione dello Spazio Popolare Neruda. In questo senso è quindi importante delineare una rapida storia del collettivo Prendocasa, attore centrale nel supportare il movimento che portò all’occupazione del Neruda. La spinta iniziale di questo collettivo va ricondotta al radicamento del Centro Sociale Askatasuna nel tessuto sociale del quartiere Vanchiglia: è infatti tramite il comitato di quartiere che si instaurano i legami tra le prime famiglie sotto sfratto, all’inizio per la maggior parte di nazionalità italiana, e i militanti autonomi. Nasce quindi il collettivo e viene creato lo Sportello Prendocasa, strumento tramite cui si tessono relazioni con le diverse persone in condizioni di disagio abitativo.
Nel 2013 gli sfratti continuano ad aumentare, passando dai 3700 del 2012 a 3900, e andando verso il picco storico di 4600, toccato nel 2014. La strategia del collettivo mira da un lato a resistere agli sfratti, impedendo che le diverse famiglie vengano letteralmente buttate per strada, e dall’altro a sollecitare energicamente le istituzioni, tramite la pressione sulle agenzie governative preposte alla governance del disagio abitativo, affinché si trovino soluzioni dignitose. Se la controparte non cede si passa allora all’appropriazione diretta. Nascono quindi le riunioni degli sfrattati, ovvero dei momenti in cui le famiglie sotto sfratto si incontrano, solidarizzano e si auto-organizzano.
Sono esperienze di politica popolare diretta a guidare l’azione governamentale.
Lontano dal processo decisionale pseudo-democratico, così come da ogni forma di protagonismo in quanto semplici cittadini, il movimento si confronta direttamente con le controparti istituzionali, con i diversi uffici governativi, imponendo che alle insufficienti soluzioni finora proposte vengano sostituiti interventi concreti, quale ad esempio l’assegnazione di una casa popolare. Con le famiglie sfrattate o a rischio sfratto viene portata avanti una prima occupazione abitativa, a Pietra Alta, quartiere periferico a nord di Barriera di Milano, seguita da una seconda in corso Traiano, tra Mirafiori e Lingotto, sgomberata dopo undici mesi.
Nel 2014 una percentuale crescente delle persone che si rivolgono allo sportello non possono cominciare un percorso vertenziale, collocandosi completamente al di fuori dei criteri previsti per una qualsiasi presa in carico da parte delle istituzioni. Molti sono immigrati e, per quanto in larga misura regolari, una generalizzata precarietà giuridica ne pregiudica l’accesso alle graduatorie e a altre soluzioni istituzionali. Gli ostacoli burocratici che limitano l’accesso ai diritti più basilari, già problematici per chi dispone della cittadinanza italiana, si moltiplicano infatti per chi deve rinnovare il proprio permesso di soggiorno di anno in anno, affrontando una burocrazia insostenibile solamente per ottenere una residenza e dovendo spesso lottare perché il datore di lavoro accetti di stipulare un contratto. In questo periodo si va oltretutto a innescare un meccanismo di passaparola tra nigeriani e marocchini, che spesso tramite i propri compaesani vengono a conoscenza dello sportello o delle occupazioni. Sono i mesi precedenti all’occupazione del Neruda.
L’occupazione dello Spazio Popolare Neruda
Domenica 21 Giugno 2015 una trentina di nuclei familiari insieme ai militanti del collettivo Prendocasa, legati dalla partecipazione ai picchetti antisfratto, dopo un lungo confronto assembleare, decidono di occupare. Comincia così l’occupazione dello stabile abbandonato di Via Bardonecchia, sgomberato però in meno di un mese. Da quell’esperienza l’occupazione ha ereditato il nome Neruda, ispirato al poeta cileno cui è stato dedicato un graffito lì presente nel cortiletto interno. Gli occupanti non si perdono d’animo e pochi mesi più tardi, il 30 ottobre, si spostano in Corso Cirié 7. Prende vita il secondo Neruda.
A una manciata di passi da San Pietro in Vincoli, dove ogni sabato straborda il Balon, uno dei più grandi mercati popolari d’europa, e poco lontano dal mercato di Porta Palazzo, il Neruda si trova al centro del rione Valdocco, parte del più ampio quartiere Aurora, noto per i rapidi processi di gentrification. Si tratta di uno storico palazzo adibito per decenni a scuola di conciatura, quando ancora portava il nome di istituto Baldracco. È una struttura ampia al punto da occupare un intero isolato, articolata tra diversi edifici tra loro connessi, alcuni a un piano, altri di due e tre piani, con un cortiletto interno e varie terrazze. A vederlo, per i primi due anni di occupazione si presentava in forma piuttosto anonima, e solo più tardi, grazie a diversi graffiti interni e esterni, avrebbe assunto anche la sua identità visiva.
Così come lo Spazio Popolare Neruda, anche la lotta per la casa continua a essere attiva, e anche tra gli occupanti sono in molti a partecipare ai picchetti antisfratto, confrontandosi con le prevaricazioni della polizia e con l’arroganza di proprietari, avvocati e ufficiali giudiziari. Nel corso degli anni il rapporto tra il collettivo e l’occupazione si è consolidato, e non sono pochi i militanti che hanno scelto di viverci, felicemente e al di sopra delle proprie possibilità.
La solidarietà è un’arma
Grazie a attività mutualistiche, culturali, sportive e aggregative portate avanti all’interno dell’occupazione, e al coinvolgimento di numerosi nuclei familiari nella lotta per la casa, il Neruda è attraversato continuamente sia dagli abitanti delle aree limitrofe sia da studenti e lavoratori che frequentano o organizzano le diverse attività. Nel fare ciò abbiamo rifiutato retoriche assistenzialistiche o pseudoumanitariste.
All’integrazione opponiamo la solidarietà.
Una solidarietà nella ribellione alle subalternità e alle diseguaglianze sociali. Questa scelta si rispecchia tanto nelle iniziative rivendicative portate avanti dal movimento per la casa quanto nell’azione dei volontari. Perché se nel corso degli anni sono dozzine le persone che si sono spese nel portare avanti le diverse esperienze, è bene sottolineare che al Neruda non facciamo volontariato, almeno non nel senso che tale parola ha finito per assumere.
A muoverci è un’urgenza morale divenuta consapevolezza politica.
È l’urgenza di vivere una vita differente, è la consapevolezza di non poterlo fare se non costruendo una nuova comunità, in cui i rapporti non siano finalizzati al consumo e mediati dal mercato e in cui ciascuno di noi non debba vivere intrappolato nel ruolo assegnatogli dal proprio lavoro. Tutto questo si traduce nell’organizzazione di iniziative che consolidino questi legami, come la scuola di italiano, il doposcuola, la palestra popolare Neruda Boxe, ma anche il cineforum di quartiere, feste e concerti, presentazioni di libri, dibattiti, progetti artistici e allestimenti di mostre, come nel caso di Ultrabandiere, curata insieme al collettivo Guerrilla Spam. Appuntamenti fissi sono per esempio la festa di compleanno del Neruda, a fine ottobre, la festa d’inverno e la festa di primavera. Alla base di queste attività vi sono i ricorrenti momenti assembleari, che consentono a ciascuno di avanzare proposte. Sono proprio questi momenti di confronto a portare all’attenzione collettiva problemi, esigenze e possibili soluzioni. Questo è ad esempio il caso della Stanza delle donne, spazio di condivisione per le donne che vivono in occupazione e non solo, nato con l’obiettivo di aggregare e unire energie e proposte rivolte alla distruzione delle catene patriarcali, ma anche discutere, parlare di temi spesso difficili da affrontare in assemblea, trovare ascolto. Diversi sono stati anche gli appuntamenti di Non Una Di Meno che hanno avuto luogo presso il Neruda, come in occasione dell’incontro con la storica attivista statunitense del movimento Black Lives Matter, Karlene Griffiths Sekou.
Un altro punto fondamentale riguarda il rapporto col quartiere, tutt’altro che scontato, costruito giorno dopo giorno con la consapevolezza di essere spesso percepiti come un corpo estraneo rispetto al tessuto sociale della città. Lavorare, anche sporcandosi le mani, provando a inserirsi dentro un contesto apparentemente inconciliabile è un’urgenza reale. L’organizzazione di feste e cene di quartiere, così come del resto di tutte le altre attività, è stato in questo senso il pretesto per avvicinarsi a un mondo così lontano e allo stesso tempo così vicino e dimostrare che, per quanto possano apparire differenti le esigenze e i problemi di ciascuno, la risposta rimane la medesima. Ci rendiamo conto che detto così tutto sembri bello, facile e lineare. Tra contraddizioni e ambivalenze, il Neruda è tutt’altro che un’isola felice contrapposta a un mondo in preda al caos. Una volta affrontato il problema abitativo ne rimangono molti altri, tra lavoro, documenti, salute, famiglia… A ciò si aggiunga che non è facile vivere in 150 in una casa, trovando il modo di coordinare ritmi di vita, esigenze, desideri, manie, scleri.
Qui nessuno naviga nei soldi e siamo ben lontani dall’autarchia.
Certo, siamo una forza politica auto-organizzata, ma riorganizzare i turni per la lavatrice è ogni volta un problema. E anche chi di noi non vive al Neruda e si impegna in volontariato o militanza non è per questo liberato dalla proprie alienazioni o dal proprio lavoro. Nonostante ciò, piuttosto che mantenere inalterati i rapporti di potere o peggio ancora perpetuare la vecchia logica del dividi et impera, l’esperienza dello Spazio Popolare Neruda ci dimostra come sia possibile, oltre che giusto, invertire radicalmente la rotta, uscire dall’isolamento, rompere la gabbia delle periferie e dare vita a una comunità resistente. Questa inversione vale sia rispetto alle narrazioni discriminatorie che vorrebbero ergere barriere escludenti, sia rispetto a quelle che si presentano come apparentemente includenti senza però mai rischiare la radicale messa in discussione delle cause strutturali dietro alla continua emergenza umanitaria. Uscire dal tracciato, anche passando attraverso le contraddizioni, è la nostra pratica.
Compagne e compagni dello Spazio Popolare Neruda
¹ Città di Torino. P. Cingolani, F. Pastore, I. Ponzo, R. Ricucci. Considerazioni di sintesi, a cura di FIERI, in “Osservatorio interistituzionale sugli stranieri in provincia di Torino. Rapporto 2016”, 2018, pp. 407-416. ² Città di Torino, Divisione Servizi Sociali Area Edilizia Residenziale Pubblica. Osservatorio della Condizione Abitativa. XVI Rapporto Anno 2017.