NET10 La città muta, #2 / E05

ONG: un problema con le persone nere.

Anche le ONG possono essere veicolo di razzismo.

ONG: un problema con le persone nere.

parole di:

La prima ONG con cui ho mai lavorato era americana. Lo staff era composto in proporzione 1:7, rispettivamente bianchi e ugandesi. In superficie appariva come un meraviglioso ufficio multiculturale dove i colleghi ti regalavano cupcake per il tuo compleanno, e una volta all’anno si potevano indossare abiti tradizionali a lavoro. Sotto la superficie si combatteva invece una guerra fredda. La nostra versione della minaccia nucleare? Le riunioni. Lo staff straniero ne fissava di gran lunga troppe. Gli ugandesi ne ignoravano una grossa parte o quando presenziavano non partecipavano attivamente. La mia capa americana, che a volte mi faceva confidenze pur trattandomi spesso veramente male, una volta venne da me e mi chiese: “che cosa posso fare per aiutare ad adattarvi alla struttura?” Non capivo la domanda così balbettai una mezza risposta e cambiai argomento. 

“Adattarsi alla struttura”, imparai in seguito dal suo superiore, significava adottare la cultura americana del business, così come si faceva nel mondo sviluppato.

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Sei online per una chiamata Skype cinque minuti prima che inizi. Prepari un update in anticipo per l’incontro individuale con il capo, che siede a una scrivania letteralmente a ridosso della tua. Per ogni report che scrivi prepari bozza 0, 1, 2.. Ognuna revisionato da diversi colleghi (spesso bianchi). Se sei fortunata, ‘Bozza 3’ è inviata al donatore. Altrimenti, rassicurano, è stata un’opportunità per imparare. Anche se siedi nello stesso open office con i tuoi colleghi, con accesso sia a email che messaggi istantanei, per collaborare, butti giù alcuni punti in cui specifichi su cosa serve supporto, e li porti alla riunione settimanale. È una riunione diversa rispetto a un’altra riunione settimanale che hai con il tuo team più stretto – in un asse verticale che consiste di esattamente tre persone che non possono muovere la scrivania senza andare uno addosso all’altro. Per questa riunione, porti una lista ben strutturata di cose da fare. Che cosa c’è sotto la colonna compiti “urgenti ma non così importanti”? Il report mensile al nostro donatore più modesto è sotto la colonna “grossi compiti”? Ah, non dividi la tua lista di cose da fare in colonne di priorità? Beh, c’è questo libro scritto da un efficientissimo leader di un’azienda americana che non conosci. Ti cambierà la vita in termini organizzativi. Non saprei come altro formularlo: noi, gli ugandesi, pensavamo che questa burocrazia fine a se stessa non avesse alcun senso. Con la quieta ostinazione di persone che resistono al proprio governo semplicemente non partecipando alla vita pubblica, rifiutavamo le riunioni facendo infuriare i nostri capi.

Ma vedete, le riunioni erano solo un mezzo per un’intera guerra culturale.

Gli ugandesi sentivano che molta della cultura organizzativa che erano chiamati ad accettare fosse chiaramente razzista. Eravamo arrabbiati per lo stipendio diseguale tra i colleghi bianchi e le loro controparti ugandesi (le buste paga trapelarono una volta, ma potevamo comunque farci un’idea dai loro pranzi e caffè di lusso). Eravamo arrabbiati perché mentre per molti di noi c’erano voluti anche tre colloqui formali per avere il lavoro, i nostri colleghi bianchi raccontavano di essersi conosciuti al country club di Kabira chiacchierando. Da lì, così ci sembrava, si erano offerti l’un l’altro lavori di alto profilo, come capi dello staff locale assunto con una procedura rigorosa. Dove lo staff ugandese necessitava di titoli più alti e anni di esperienza per diventare manager, per i nostri colleghi bianchi bastava una normale laurea. Raccontavano storie come “stavo facendo uno stage nella sede americana quando è capitato questo progetto. Avevo assistito nella ricerca per la proposta così mi hanno chiesto se volevo venire in Uganda e gestirlo”.

Avremmo potuto iniziare queste grosse conversazioni, ma da dove cominci, quando il tuo capo parla a te e di te, come qualcuno che ha bisogno di sviluppare la capacità di seguire una riunione? Non ho mai visto un posto dove così tante persone semplicemente non volevano rinnovare il contratto. Tutti i migliori erano alla continua ricerca di un altro lavoro. Essendo io la persona che li monitorava e valutava, mi veniva chiesto di aggiungere ‘staff turnover’ alla lista di parametri che tracciavo. Staff turnover in un ufficio di massimo 35 persone! Quando i capi bianchi si stancarono di dare opportunità alla gente locale che non le apprezzava (assumendoci per lavori da cui scappavamo a gambe levate), cominciarono ad assumere più bianchi. Persino i neri affezionati all’organizzazione non vedevano come avrebbero potuto fare carriera, perché significava togliere il posto a un bianco, e quali probabilità c’erano che accadesse? A un certo punto, a colpo d’occhio si vedeva l’ufficio diviso in zone bianche e nere. Io le vedevo, quando tornavo a salutare i miei amici, anni dopo che me ne ero andata. Per come sono fatta (irrimediabilmente pettegola), sono rimasta aggiornata sul gossip in ufficio. In uno, lo staff bianco fece una colletta per comprare una macchina da caffè di lusso e solo chi aveva contribuito poteva usarla. Quindi c’era una normale macchina da caffè nero per i neri e una macchina che faceva ogni sorta di bevanda per i bianchi. In un ufficio a Kampala? Bene, comunque, anni dopo quell’organizzazione si ripiegò su se stessa verso il dimenticatoio, dopo aver bruciato non meno di 20 milioni di dollari di aiuti allo sviluppo in circa sei anni.

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Ero felice di essermene andata ma non fu immediatamente in un posto migliore. Mi spostai in una ONG britannica, dove atterrai nel mezzo di una faida tra un senior manager ugandese e una consulente canadese di vecchia data. La consulente aveva fatto il lavoro del manager prima che questo venisse assunto. Dopo, la consulente venne tenuta a bordo, continuando in parte a fare lo stesso lavoro. Sembrava che l’organizzazione stesse contendendo il rischio che il manager non sapesse quello che faceva. O forse, veniva ripagata per qualche altro contributo. In ogni caso, i due elefanti si scontravano e spesso scaricavano sullo staff sotto di loro. Non era insolito che un collega si chiudesse nel bagno a piangere. Ogni istruzione che ti dava uno era il contrario di quello che voleva l’altro. Conclusi che quel tipo di cooperazione internazionale allo sviluppo era mero caso di studio in cattiva gestione e lasciai anche quel lavoro, dopo 11 mesi. Trovai una ONG locale dove oggi continuo a lavorare nell’aiuto allo sviluppo ma con un grado di separazione dal suo ingranaggio tossico e razzista.

Ho avuto più successo di quello che avrei sperato, operando nel mezzo in cui potere e condensazione razziale fanno da padrone. Nel mondo dello sviluppo, i miei capi bianchi mi inondano di possibilità con strumenti quali Microsoft Excel. Dopo un anno di lavoro alla ONG locale, i miei capi scrissero una raccomandazione stellare per la mia domanda di ammissione a una prestigiosa scuola di specializzazione, concedendomi dieci mesi liberi per frequentarla. 

Credo fermamente nel lavoro di cooperazione allo sviluppo, in realtà.

Non salto sul carro “l’Africa ha bisogno di commercio, non aiuto”. L’Africa ha bisogno di commercio, aiuto e altro, perché come altre aree è fatta da società complesse. Quello che una parte reputa negativo per l’immagine del continente è disperata necessità di un’altra. Lo scambio commerciale può aprire porte per le classi ricche e medie di africani. Chi ha un reddito basso spesso non può neanche propriamente partecipare all’economia locale, figuriamoci al mercato di esportazioni transoceanico. Le persone hanno bisogno di fondi per la sanità, espansione dell’agricoltura che le raggiungano davvero, qualcuno che le difenda dedicando la vita a garantire loro eque possibilità. Le minoranze marginalizzate hanno bisogno di supporto per le loro lotte, e non lo otterranno da quegli stessi governi o sistemi sociali africani che le sviliscono. L’aiuto allo sviluppo riempie questi spazi.

Perché finché queste disuguaglianze persistono, vorrò sempre lavorare nello sviluppo. Solo, non voglio farlo a fianco di coloro che le hanno portate qui, fintanto che non faranno un esame di coscienza su come il settore tratta i lavoratori che mi assomigliano.

Traduzione di Elisa Simoncelli.
Originariamente pubblicato su African Feminism.