Di cosa parliamo quando parliamo di caporalato
La stampa descrive il caporalato come un fenomeno arcaico, ma in realtà è una manifestazione contemporanea della precarietà del lavoro neoliberista.
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Agosto 2018. Nel giro di quarantotto ore a causa di due incidenti stradali nella provincia di Foggia muoiono 16 braccianti agricoli originari dell’Africa occidentale. In entrambi i casi, l’incidente è causato dallo scontro tra il furgone che trasportava i lavoratori e un tir. L’allora ministro del lavoro Luigi Di Maio promette subito più controlli contro il caporalato e la fotografia di uno dei due incidenti che ritrae una distesa di pomodoro rosso sangue sull’asfalto diventa l’emblema del caporalato e dello sfruttamento del lavoro nella filiera del pomodoro. Pochi giorni dopo, alla marcia dei «berretti rossi», centinaia di lavoratori sfilano a Foggia contro lo sfruttamento in agricoltura al grido di «Schiavi mai».
Quello dell’agosto 2018 rappresenta un episodio da inserire in una lunga serie di tragedie che hanno coinvolto i braccianti a cui sono seguiti altrettanti momenti di lotta.
Dieci anni prima, nel 2008, dopo che sei persone persero la vita in seguito a una sparatoria eseguita da un commando di Camorra a Castel Volturno, i braccianti scioperarono nei kalifoo ground, le rotonde nelle quali solitamente aspettavano l’ingaggio del caporale ogni mattina, esibendo dei cartelli in cui affermavano «Oggi non lavoro per meno di 50 euro». Le violenze del 2010 a Rosarno e il primo sciopero auto-organizzato dei braccianti stranieri nel 2011 a Nardò portarono nello stesso anno all’introduzione del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro nel codice penale (art. 603-bis). La morte di Paola Clemente nell’estate 2015 scosse particolarmente l’opinione pubblica, dimostrando che il problema dello sfruttamento non riguardava esclusivamente i lavoratori stranieri, ma anche migliaia di lavoratrici e lavoratori italiani e si estendeva al di là dei tradizionali sistemi di ingaggio con caporale, attuandosi anche attraverso le agenzie interinali.
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Nel 2016, con lo sciopero dei braccianti Sikh a Latina, un nuovo soggetto fino allora ignorato entrò in campo, gettando luce sulla natura endemica del caporalato e dello sfruttamento in agricoltura che, sebbene diversificato, interessava tutto il territorio italiano. A seguito di questi ultimi avvenimenti, il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è stato modificato, attraverso la legge 199/2016, estendendo la responsabilità penale all’azienda che fa uso di intermediazione illecita di manodopera e/o impiega i lavoratori in condizioni di sfruttamento. La legge 199/2016 è stata ampiamente applicata nella sua parte repressiva ma lo stesso non può essere detto per la parte preventiva, rimasta per lo più lettera morta.
Negli ultimi dieci anni, a causa di molteplici tragedie a cui sono susseguite altrettante istanze di lotta dei braccianti stranieri,
il caporalato ha acquisito crescente visibilità e rilevanza nel dibattito pubblico italiano.
Se da un lato è positivo che l’attenzione sullo sfruttamento lavorativo in agricoltura (e non solo) e sul caporalato sia aumentata, dall’altro la copertura mediatica che ne è stata data nel corso degli anni ha generato una percezione distorta e semplificata del fenomeno. Complice il fatto che la legge 199/2016 sia stata ribattezzata legge contro il caporalato, questo è divenuto nella maggior parte dei discorsi mediatici, e non solo, sinonimo di sfruttamento lavorativo e spesso paragonato alla schiavitù.
Da un’analisi degli articoli sul caporalato pubblicati sui principali quotidiani e settimanali italiani, come La Repubblica del 13 ottobre 2018, Il Sole 24 ore del 3 settembre 2018, Il Corriere della Sera del 6 febbraio 2019, e L’Espresso del 18 ottobre 2019, ma anche di periodici internazionali, come il Guardian, è possibile notare come, nella maggior parte dei casi, il paragone con la schiavitù porti a concentrare l’attenzione su attori individuali, gli schiavisti, deviando l’attenzione dalle cause strutturali alla base dell’esistenza di tale sistema di reclutamento e sfruttamento. Infatti, raramente viene fatto riferimento al fallimento delle soluzioni istituzionali, spesso emergenziali, nell’affrontare il problema, e ai fattori che spingono i lavoratori a accettare paghe misere e condizioni di vita precarie, non da ultimo, l’assenza o precarietà del permesso di soggiorno nel caso di lavoratori non comunitari.
Di cosa parliamo quando parliamo di caporalato?
Considerato una pratica di ingaggio storicamente radicata nel Sud Italia, in particolar modo in Puglia, con caporalato si intende l’intermediazione illecita (o informale) di manodopera che un soggetto terzo (il caporale) svolge per fini di lucro, facendo incontrare la domanda e l’offerta di lavoro. L’intermediazione lavorativa va di pari passo, specialmente nel caso dell’agricoltura, con il trasporto dei lavoratori sul luogo del lavoro.
Le origini del caporalato vengono spesso rintracciate nel mercato di piazza degli inizi del ‘900, quando ogni mattina all’alba i braccianti si recavano nelle piazze per essere scelti nel mercato delle braccia e portati a lavoro: lavoratori alla giornata. Come scriveva Alessandro Leogrande in Uomini e caporali, una delle prime analisi sul caporalato moderno, «la più grande rivoluzione antropologica del Mezzogiorno rurale negli ultimi venti anni» è stata probabilmente la sostituzione di braccianti e caporali italiani con quelli stranieri, ma sempre al servizio di proprietari terrieri italiani. Focalizzandosi su gravi casi di sfruttamento lavorativo che avevano coinvolto alcuni cittadini polacchi all’indomani dell’ingresso della Polonia nell’Unione Europea, Leogrande istituisce un parallelo tra il «caporalato globalizzato» del XXI secolo e il caporalato tradizionale, ricostruito a partire dalla stessa storia familiare dell’autore, una storia che si lega al passato contadino di tutta l’Italia. Sebbene il lavoro di Leogrande rappresenti una pietra miliare, il caso dei lavoratori polacchi preso in analisi è un esempio estremo nel quale il caporale era responsabile del controllo di ogni dettaglio della vita del lavoratore, svolgendo il ruolo di intermediazione a partire dalla Polonia, trasportando i lavoratori in Puglia, sottoponendoli a condizioni di estremo sfruttamento, riduzione in schiavitù e isolamento, conclusisi in più di un caso con sparizioni e morti. A partire da questa indagine e dalla lettura mediatica successiva, i lavoratori migranti delle campagne sono spesso stati definiti come «nuovi schiavi» e i caporali come «schiavisti».
Il caporale diviene il nemico principale, residuo di un sistema arcaico, l’elemento da eliminare per risolvere lo sfruttamento.
Tuttavia, secondo le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto in circa il 60% casi il caporale è un capo-squadra, ossia un primo tra pari, che, dotatosi di un mezzo di trasporto gestisce i rapporti con le aziende, organizza le squadre di lavoratori e le conduce sul luogo di lavoro. Nel 30% dei casi invece, il caporale viene definito come «violento e dirigista» in quanto esercita maggior controllo sui lavoratori, il sistema di organizzazione è altamente centralizzato e chi non si allinea rischia l’esclusione. Il caporale in questo caso trattiene quote sostanziali del salario e può estendere il controllo anche di là del luogo di lavoro, fino alla gestione dell’alloggio. Infine, solo nel 10% i caporali hanno legami con la criminalità organizzata, siano essi collusi con organizzazioni criminali (7%) o mafiosi essi stessi (3%).
Il caporalato contemporaneo è stato più volte definito come «caporalato etnico» poiché caratterizzato da una frammentazione sulla base della provenienza geografica dei lavoratori. Il ruolo di intermediazione viene dunque in molti casi svolto da un caporale proveniente dallo stesso paese o zona geografica mentre il tipo di organizzazione varia a seconda dei gruppi, con una differenza consistente tra lavoratori provenienti dalla comunità europea e quelli esterni. Lo stesso Leogrande suggerisce una differenza sostanziale tra il tipo di controllo svolto dai caporali polacchi e quello dei caporali africani, che in molti casi non si estende fin dentro le mura dei casolari né si instaura a partire dai paesi di origine. Nel caso dei lavoratori di origine africana, infatti, il caporale, cosiddetto «capo nero», è spesso parte della stessa comunità con cui condivide il tempo libero, le feste e non raramente le condizioni abitative precarie all’interno di insediamenti informali. A seconda del numero di lavoratori che gestisce, il «capo nero» può lavorare in diretto contatto con l’azienda o per conto di un caporale superiore, spesso italiano, cosiddetto «capo bianco». A differenza dei lavoratori originari dell’Est Europa, l’intermediazione in questo caso non si instaura fin dal paese di origine ma viene a crearsi una volta in Italia, anche perché il lavoro agricolo rappresenta in molti casi un momento di stallo del percorso migratorio, piuttosto che il punto di arrivo. Inoltre, il collegamento tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro sottopone i lavoratori non comunitari a un rischio estremo di ricattabilità da parte del datore di lavoro, indipendentemente dal ruolo del caporale.
Ciò non significa che non sia presente sfruttamento, ma la definizione del caporalato come schiavitù appare approssimativa e incapace di catturare il fenomeno nella sua complessità e nelle sue molteplici sfaccettature.
Una delle analisi più innovative e interessanti del caporalato è quella proposta da Pietro Alò, attivista, politico e promotore nel 1995 della Commissione di inchiesta sul fenomeno del cosiddetto «caporalato». Nel suo lavoro di tesi, pubblicato postumo nel 2010 nel volume «Il caporalato nella tarda modernità», Alò rintraccia le origini del moderno caporalato negli anni ’70, all’affermarsi di un nuovo modello di produzione agricola nel Sud Italia caratterizzato dalla domanda crescente da parte delle aziende di manodopera scarsamente qualificata e altamente mobile. Il caporale, nella veste di «autista-bracciante-trasportatore», emerge dunque come figura illegale ma socialmente legittimata che soddisfa da un lato le esigenze produttive delle imprese agricole e il loro bisogno di manodopera just in time mentre dall’altro solleva le masse popolari del Sud Italia, in particolar modo le donne, dalla disoccupazione.
Il caporale è dunque una figura ambigua: garantisce il lavoro ma sfrutta una condizione di vulnerabilità per creare profitto e assoggettamento.
La vera essenza del caporalato è, secondo l’autore, da individuare nella «violenta riduzione a merce del bene lavoro e nella totale subordinazione della persona e dei suoi diritti al fatto produttivo». Questa chiave di lettura permette a Alò di definire il caporalato in modo diverso:
Il caporale non è un residuo di relazioni di produzione arcaiche ma una anticipazione dei rapporti di lavoro caratteristici del neoliberismo.
Dietro l’apparente arcaicità del caporalato si cela dunque una natura iper-moderna caratterizzata da flessibilità, precarietà, incertezza e perdita di tutele. Non è difficile cogliere le somiglianze con la struttura e le parole d’ordine del mondo del lavoro contemporaneo, con particolare riferimento al lavoro nella gig economy, in più occasioni infatti ribattezzato come caporalato 2.0.
Il riferimento all’interpretazione di Alò non è un puro esercizio teorico. Infatti, rintracciare nell’organizzazione del lavoro tipica del caporalato alcune somiglianze con l’iper-flessibilità, iper-precarietà e estrema asimmetria nella distribuzione di potere tra intermediario e lavoratore, caratteristiche delle piattaforme della gig economy, è fondamentale per definire tale fenomeno non come residuo arcaico e pre-capitalista ma come parte integrante del capitalismo contemporaneo.
Al contrario, il focus sulla repressione penale del caporalato tende a concentrare l’attenzione su attori individuali, siano essi caporali o imprese, definiti come devianti rispetto alla norma.
In realtà essi appaiono come perfettamente integrati e funzionali al sistema di produzione agro-industriale a livello globale, basato sulla compressione dei costi del lavoro. Se è vero che i caporali partecipano attivamente e traggono beneficio da tale sistema, accentuando la precarietà e lo sfruttamento dei lavoratori, non possono tuttavia essere considerati come i principali responsabili. L’intermediazione svolta dai caporali trova la sua forza nella totale assenza di meccanismi di collocamento pubblico e nella carenza dei sistemi di trasporto e accoglienza per lavoratori stagionali. Inoltre, le imprese della grande distribuzione traggono molteplici benefici dall’esistenza di questa catena di sfruttamento, che sussiste anche in assenza di intermediazione e in presenza di contratti di lavoro in apparenza formalmente corretti ma caratterizzati da una sotto-dichiarazione delle giornate lavorate (il cosiddetto «lavoro grigio»).
Il fatto che, a dieci anni dagli avvenimenti di Rosarno, le condizioni di vita e lavoro di molti braccianti siano rimaste immutate obbliga a interrogarsi sull’efficacia dei provvedimenti adottati finora. La natura endemica e strutturale del lavoro irregolare e dello sfruttamento lavorativo in tutti i settori produttivi (secondo le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto il lavoro irregolare e il caporalato in agricoltura rappresentano solo 4,8 miliardi dei 77 miliardi di euro a cui è stimato il valore del lavoro irregolare in Italia) obbliga a rifiutare un approccio sensazionalistico al caporalato. La prospettiva di analisi proposta da Alò è in questo senso provocante poiché, interpretando il caporalato come anticipazione dei rapporti di lavoro caratteristici del neoliberismo, ci spinge a considerarlo in relazione a una più generale riflessione sui modelli di produzione e consumo e, per quanto riguarda i lavoratori stranieri, sui regolamenti alla base dell’ingresso e soggiorno dei cittadini stranieri. In questa luce, le lotte dei braccianti stranieri, piuttosto che ribellioni contro forme arcaiche di organizzazione dei rapporti produttivi, appaiono nella loro essenza di lotte contemporanee per la tutela dei rapporti di lavoro nell’epoca della precarietà.