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Minnesota, goddam! Nina Simone e la rivolta armata.

Il razzismo è sistemico. Le sue esplosioni non sono incidenti isolati. Nina Simone fu una sostenitrice della rivolta armata: come ieri cantò ‹Mississippi, goddam›, oggi avrebbe cantato ‹Minnesota, goddam!›.

Minnesota, goddam! Nina Simone e la rivolta armata.

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La schiavitù non è mai stata abolita dalla mentalità americana, diceva Nina Simone. E la libertà è l’assenza di paura. Difficile dire che avesse torto: la comunità afroamericana non ha mai smesso di avere paura. La violenza è sempre lì, incardinata in un sistema che continua a uccidere e segregare, e che lo fa impunemente. Gli episodi recenti non fanno che confermare l’applicazione brutale del razzismo da parte di un sistema da sempre insofferente alle richieste di giustizia delle minoranze: Minnesota, 2020, Mississippi, 1963.

L’ho fatto solo per mia totale soddisfazione, dice in un pesante accento del Mississippi l’assassino di Roland Summers (che in realtà è Medgar Evers) in Where is the Voice Coming From?, racconto che Eudora Welty, concittadina di Evers, scrisse di getto dopo l’omicidio dell’attivista. L’omonimo suprematista nel racconto era talmente vicino a un plausibile identikit del reale assassino che l’editor del New Yorker William Maxwell dovette modificare alcuni dei dettagli presentati nella storia per evitare grane legali. L’assassino, dopo aver usurpato la propria superiorità in pericolo nel modo più vigliacco e brutale possibile – Non saremo mai uguali, e lo sai perché? Uno di noi due è morto. Che te ne pare, Roland?, urla al cadavere riverso sul vialetto di casa – stacca la vecchia chitarra appesa al muro e inizia a cantare. Welty dichiarò di aver scritto il racconto il giorno stesso dell’omicidio (ovvero il 12 giugno 1963) spinta da un impeto irrefrenabile di shock e repulsione. Non fu l’unica a reagire d’istinto e con violenza all’assassinio di Evers.

Come l’anonimo killer del racconto, Simone, fino a allora apprezzato (ma non particolarmente politicizzato) talento delle serate del Greenwich Village, sente la necessità di mettere in musica i sentimenti di quel giorno di sangue, e del successivo, terribile attentato alla chiesa battista sulla Sedicesima strada a Birmingham, Alabama, in cui quattro bambine afroamericane furono fatte a pezzi da quindici candelotti di dinamite piazzati dal Ku Klux Klan. Si siede al piano in uno dei famosi e temibili attacchi di rabbia che ne andranno a comporre il mito, e, in meno di un’ora, compone Mississippi Goddam

Sulla custodia della prima stampa, il titolo della canzone verrà in realtà reso come Mississippi *@!!?*@! perché, com’è lecito aspettarsi dal puritanesimo ipocrita degli Stati Uniti, stampare un’imprecazione contro il padreterno era assolutamente inaccettabile per l’epoca. Tant’è che, approfondendo ancora di più il solco dell’ipocrisia americana, negli stessi stati del sud dove giurie composte unicamente di bianchi assolvevano linciatori e torturatori appartenenti, come l’assassino di Evers, a gruppi di suprematisti come il White Citizens’ Council (o apertamente terroristici come il Ku Klux Klan), e dove le leggi razziste di Jim Crow privavano gli afroamericani dei diritti civili più basilari, oltre che della dignità di esseri umani, il singolo fu bandito dalle radio, e le copie promozionali spezzate a metà e rinviate al mittente.

A onor del vero, non sarebbe stato possibile aspettarsi una reazione diversa dall’establishment WASP (White Anglo-Saxon Protestant). Sull’album, Nina Simone in Concert (1964), la musicista introduce il pezzo dichiarando a voce alta ‹Questa canzone si chiama Mississippi Goddam [che suona come cazzo, Mississipi! n.d.a]›, aggiungendo, dopo le risate del pubblico (quasi interamente bianco) sono serissima›. Con il sarcasmo feroce che la contraddistingueva, la si può sentire affermare, tra una strofa e l’altra, che il pezzo è la colonna sonora di uno spettacolo, ma che lo spettacolo non è stato ancora scritto. Il pubblico ride di nuovo, il che è doppiamente ironico, perché 

lo spettacolo che Simone aveva in mente non sarebbe probabilmente piaciuto a molti di loro. 

La cantante, infatti, non andrà a far parte della costellazione rassicurante degli attivisti che i bianchi simpatizzanti con la causa dei diritti civili sostenevano con l’inevitabile paternalismo della razza privilegiata. In aperto contrasto con Martin Luther King (sulla cui moderazione, soprattutto negli anni finali, sarebbe forse il caso di riaprire il dibattito), che pure stimava, e al quale dedicò Why? (The King of Love is Dead),

Simone fu un’ardente sostenitrice della rivolta armata, della rivoluzione violenta, del nazionalismo nero, e addirittura dell’indipendentismo afroamericano. 

Un radicalismo profondo e sfacciato che avrebbe fatto venire i capelli bianchi a qualsiasi signora liberal e amante di jazz dell’Upper East Side. Certo Nina Simone non resterà nella storia della musica e della politica statunitensi per la moderazione. In una famosa intervista, la pianista dichiara compiaciuta di aver esploso dei colpi contro un produttore colpevole di averle rubato i diritti di alcuni album. ‹L’ho mancato, e me ne sono tornata in America›. ‹Ha davvero premuto il grilletto?› chiede l’intervistatore, basito e divertito dalla sfacciataggine. ‹Cazzo, sì. Oh, mi scusi… l’ho fatto eccome›, è la risposta. I proiettili che andranno a segno, invece, saranno proprio quelli di Mississippi Goddam, un pezzo che Simone stessa definì come una risposta al fuoco incessante che in quegli anni si abbatteva sulle comunità afroamericane di tutti gli Stati Uniti, e del Sud in particolare. Con Nina Simone in Concert la musicista aprì la propria stagione da attivista di prima linea, un impegno mai più abbandonato, e anzi ribadito pezzo dopo pezzo nonostante il boicottaggio continuo e logorante dell’industria musicale. Oltre a Mississippi Goddam, l’album contiene Old Jim Crow (‹chiederemo la grazia al diavolo/finché non sarai morto e scomparso›, canta), e Go Limp, un pezzo pieno di humor e nonsense, ma mortalmente serio quando si riferisce alle marce per i diritti civili.

E proprio durante le storiche marce da Selma a Montgomery, insieme ad altri attivisti e intellettuali radicali come James Baldwin, Simone suonerà, canterà, e romperà i cordoni del violento e razzista corpo di polizia dell’Alabama, che in quell’occasione non si fece scrupoli a farsi assistere da squadracce di suprematisti locali. Da lì alla metà degli anni settanta, l’impegno politico sarà al centro della vita della musicista, che, tra le altre cose, collaborerà con l’amico Langston Hughes, poeta-simbolo della Harlem Renaissance, nel comporre Backlash Blues

Il pragmatismo storico-materialista di Hughes, che aveva militato nel Partito comunista americano negli anni trenta, si accorda perfettamente con l’atteggiamento concreto e aggressivo di Simone. Il pezzo, lungi dall’essere un utopistico canto di libertà come molte delle canzoni insopportabilmente melense prodotte dagli idealistici (e psichedelici) anni sessanta, espone senza ambiguità il razzismo sistematico e istituzionalizzato dell’America:

Mi dai case di serie B

mi dai scuole di serie B

pensi che tutti i neri

siano solo degli idioti di serie B, Mr. Backlash?

Ricordando quegli anni, Simone scriverà ‹mi sentivo più viva allora di adesso perché c’era bisogno di me, e potevo cantare qualcosa che avrebbe aiutato la mia gente›. Negli Stati Uniti di oggi, preda di un razzismo forse meno spudorato ma non meno evidente, ci sarebbe ancora bisogno di una Nina Simone capace di additare la violenza e denunciarla pestando con rabbia sui tasti del pianoforte. Non che gli artisti manchino: nomi più che noti quali Kendrick Lamar, Beyoncé e Childish Gambino (ognuno a modo suo, e ognuno con la propria dedizione), portano avanti la grande tradizione della musica di protesta afroamericana. Ma la verve della regina del soul, capace di unire la grazia della compositrice classica a esplosioni di violenza da vera e propria gangster del ghetto, è, al di fuori di qualsivoglia malinconia retrospettiva, senza dubbio una cosa rara. Chissà come avrebbe reagito nel leggere dell’omicidio di Ahmaud Arbery, venticinquenne della Georgia vittima di una vera e propria caccia all’uomo da parte di due suprematisti bianchi, un linciaggio figlio solo dell’odio razzista più insensato. Il 23 febbraio 2020, Arbery stava facendo jogging nelle strade di Satilla Shores quando Gregory e Travis McMichael, padre e figlio, dopo averlo inseguito, gli esplodono contro tre colpi di fucile da distanza ravvicinata, mentre un terzo uomo, William Bryan, riprende tutto con il suo smartphone. Dopo avere opposto una strenua ma futile resistenza, Arbery stramazza al suolo, morto. 

Georgia,  goddam.

E chissà come avrebbe reagito al video del 25 maggio 2020, in cui Derek Chauvin, agente della polizia di Minneapolis con una lunga storia di violenza impunita, soffoca George Floyd tenendogli un ginocchio sul collo per nove lunghissimi minuti, insensibile alle suppliche dell’uomo e degli astanti, e anzi visibilmente compiaciuto nel vederlo spegnersi lentamente. 

Minnesota,  goddam. 

Nel video-manifesto della campagna Black-Palestinian Solidarity, Angela Davis mostra un cartello che dice ‹il razzismo è sistemico. Le sue esplosioni non sono incidenti isolati›. E infatti, alle proteste per l’omicidio di Floyd, la polizia che solo qualche giorno prima aveva permesso a vari gruppi di nazionalisti bianchi armati fino ai denti di manifestare ‹libertà di pensiero›, ha risposto con lacrimogeni, manganelli e proiettili di gomma. Stavolta, come altre volte nel passato, la comunità nera si è sollevata, rispondendo alla violenza endemica di cui le forze di polizia sono troppo spesso il braccio armato. Le proteste si stanno allargando a altre città. Miss Simone, probabilmente, sarebbe arrabbiata. E felice. ‹Restare vivi è una lotta quotidiana›, cantava in Revolution. ‹Potremo alzarci solo quando toglierete i piedi dalle nostre schiene›.