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Critica dell’assistenza virtuale domestica

Cosa si nasconde dietro la comodità dei dispositivi di assistenza virtuale domestica?

Critica dell’assistenza virtuale domestica

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Quando le ho paventato l’idea di acquistare un assistente virtuale, un apparecchio magico con il potere di trasformare le parole in ordini, Maria mi ha semplicemente chiesto a cosa mi servisse. Le mie patetiche risposte, che si destreggiavano tra mettere la musica a distanza e impostare la sveglia, mi hanno velocemente ridestato e convinto dell’essere stato intrappolato per l’ennesima volta dalle catene del desiderio indotto. Niente di nuovo: da tempo sono addestrato a riconoscere, sebbene a posteriori, la malia della sirena che formula la sua ingiunzione a consumare. Ma Maria mi ha anche fatto notare che da questo desiderio appena accennato forse andava stanato qualcosa di più profondo, qualcosa che eccedeva la mera logica del desiderio imposto. Radicato in un fondo antropologico oscuro che la mia cattiva coscienza non smette di rimuovere, un altro torbido desiderio aveva fatto capolino.

Ho subito immaginato la scena: io, in panciolle sul divano, che elenco uno alla volta i miei desideri di vita comoda a una voce pronta a soddisfarli. I sistemi di domotica, l’attribuzione alla casa di una forma caparbia d’intelligenza reificata, contrabbandati come liberazione dalla fatica della vita nello spazio domestico, mi si sono mostrati a quel punto come la manifestazione del desiderio di dominio per eccellenza: non tanto comandare, quanto l’essere obbediti. Un surrogato di fantasia padronale esercitato sullo spazio più intimo della vita, quello domestico. Senza dubbio c’è un tratto profondamente ironico nel fatto che la fantasia di un potere che ha magicamente la stessa estensione della parola, di una parola che pretende di avere forza di legge, si manifesti, in fin dei conti, nei comandi più ridicoli: Siri: metti la musica; Alexa: dimmi qual è la capitale dell’Uruguay. Voce, voce delle mie brame, dimmi che tempo farà domani.

Nonostante (o proprio in virtù) della loro natura di dover soddisfare desideri in fin dei conti piccoloborghesi, tutte queste richieste vengono comunque pronunciate nella forma imperativa: sono la manifestazione di una volontà di comando gioiosamente dissimulata. E ancora Maria, che controlla sempre la mia cattiva coscienza da sopra le mie spalle, mi faceva notare l’aspetto non irrilevante del genere. Non è affatto secondario che gli assistenti virtuali, queste estroflessioni della volontà di dominio dalla modulabile voce metallica, siano dotati di default di una suadente voce femminile. È una voce di donna a essere sempre pronta a soddisfare questi desideri ridicoli, a spegnersi e accendersi assecondando i sussurri, a farsi assegnare qualsiasi nome, a dire ciò che si vuole dica. Insomma, è una voce di donna a obbedire. Cosicché il comando domotico, come vorrei definirlo, invera il sogno del dominio maschile senza mai frustrarlo. Da questa fantasia fallica procedono anche quei giochi ridicoli esercitati su questi scrigni magici in cui la fantasia di dominio viene moltiplicata a dismisura: un amico mi mostrava divertito e  senza vergogna alcuna come avesse rimodulato il comando vocale della sua assistente virtuale in modo da farsi chiamare Signore.

La fantasia di una voce che comanda un corpo mistico che ubbidisce si acquista per pochi spiccioli: appagare il proprio piacere perverso (nel senso letterale del termine: deviato, diretto altrove) non è mai stato tanto a buon mercato. Grazie alla plenipotenza della parola, la domotica realizza l’atto magico per eccellenza, quello di una voce a cui il mondo, con la sua ottusa resistenza, è costretto a inchinarsi. Il dominio della voce può essere esercitato immediatamente.

Come un vecchio re, che comanda a ogni parola che pronuncia, allo stesso modo oggi si esercita un ridicolo potere comodamente seduti sul sofà.

L’obiezione è presto pronta: qualsiasi tecnologia nasce per obbedire, e il mondo che Asimov immaginava non è altro che la conseguenza estrema di questo rapporto padronale tra l’essere umano e i dispositivi tecnologici. Ma l’assistenza virtuale innesca un processo del tutto differente. Qui la voce si propone come l’incarnazione fantasmatica di un soggetto. In questa domotica della parola la necessità di riconoscimento tra soggetti si volge nella fantasia di un dominio indiscusso agito in virtù di uno scombussolamento ontologico. Come sapeva Simone Weil, il piacere padronale, il piacere dei forzuti, non sta tanto nel comandare una cosa, ma nel trasformare le persone in cose in modo da comandarle meglio. Non si può comandare la pietra, ma si può trasformare qualcuno in una statua: legarlo, imbavagliarlo, incatenarlo, sottometterlo. Il potere che trasforma i soggetti in cose è il potere di Gorgone. Ma la domotica espressa dall’assistenza virtuale domestica compie il gesto inverso: trasforma le cose in soggetti, assegna tratti di umanità a ciò che può essere in qualsiasi istante acceso o spento. Non si tratta più di trasformare i soggetti in cose, ma di assegnare alle cose i tratti del sub-jectum: ciò che sta sotto, ciò che è dominato. Si può comandare una statua solo dandole una voce. Il potere che trasforma le cose in soggetti è quello di Efesto, che instilla la vita nelle sue creazioni.

Ecco allora che grazie a questo ribaltamento ontologico nell’ordine del potere, la presenza dell’assistente virtuale trasfigura lo spazio sonoro della casa in uno spazio di comando. L’assistenza virtuale restituisce la fantasia di un’intelligenza minerale, di un Golem che per sottrazione continua della materia è diventato pura voce obbediente. È il sogno di una cosa che ha i tratti più passivi del soggetto; è il sogno di un soggetto disposto a farsi trattare come una cosa. Così negli innocenti ordini impartiti a queste metalliche voci di donna, che ci chiamano proprio come ci piacerebbe essere chiamati, fa capolino una terribile volontà di dominio mai sopita.

Alle accuse di cullarsi in uno sguardo sospettoso sul mondo, un occhio oltremodo ostile su ciò che lo circonda, e che cerca sapendo già cosa vuole trovare, si può soltanto rispondere dicendo che da molto tempo, per noi, nessun centimetro di realtà può proclamarsi innocente. La superficie del mondo, apparentemente liscia, è in realtà un arabesco di pieghe. E in queste pieghe si annidano i depositi del dispotismo che l’ha impercettibilmente piegata solo per nascondersi meglio.