Confronti / 30 min

Sulle orme del desiderio. Intorno al libro di Elisa Cuter

Accostare Catharine MacKinnon a Elisa Cuter, autrice di ‹Ripartire dal desiderio›, potrà sembrare bizzarro, ma non lo è: per entrambe il femminismo è la convinzione radicale che le donne sono esseri umani.

Sulle orme del desiderio. Intorno al libro di Elisa Cuter

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I riferimenti al libro di Elisa Cuter, Ripartire dal desiderio, (minimum fax, Roma 2020) sono indicati fra parentesi tonde nel testo dell’articolo.

ANCHE LE CATTIVE MAESTRE DESIDERANO

Nel 2006 gli editor della New York Times Book Review pubblicarono una nota per informare i propri lettori della scorretta attribuzione di una citazione. La frase in questione recitava: ‹Tutto il sesso penetrativo [intercourse] è stupro›. Menzionata in un libro scritto da Daphne Patai e Noretta Koertge, veniva ricondotta all’opera di due femministe radicali, Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon, pur non comparendo mai nei loro scritti. Ancora oggi ci si riferisce talvolta a loro come ‹femministe anti-sesso›.

Devo ammettere che, anche quando non potevo appurare la loro veridicità, accuse del genere non mi hanno mai impressionato molto. In modo casuale, il primo testo femminista che mi capitò di leggere, negli anni del liceo, fu il Manifesto SCUM di Valerie Solanas. È uno scritto peculiare: se solitamente si ritiene che rappresentare il femminismo come una forma di odio per gli uomini, di mero rovesciamento del maschilismo, sia un topos reazionario del tutto infondato,

il Manifesto era esattamente un testo femminista che invoca l’eliminazione (se necessario violenta) del genere maschile. 

Trovai il lavoro di Solanas oscenamente divertente: finalmente, dopo tanti libri letti che si rivolgevano proprio a persone come me (maschi eterosessuali giovani), avevo trovato qualcosa di sfidante, che mi chiamava in causa. Solanas voleva farmi fuori, anche se in un senso infinitamente più complesso di quanto potessi comprendere allora.

Insomma, dopo le dichiarazioni potenzialmente genocide di Solanas, la presunta contrarietà al sesso di Dworkin e MacKinnon sembrava poca cosa (ci furono proprio i loro lavori più criticati, quelli contro la pornografia, nel programma di letture femministe che mi diedi durante il primo anno di università). Credo che sia stato in quel periodo che scoprii qualcosa, nella figura di MacKinnon, che davvero mi scandalizzò (e che forse è la spiegazione più profonda della ‹bugia› diffusa sul suo conto). Risulterà paradossale, ma per me l’oggetto più perturbante nella produzione di questa autrice resta un’intervista del 1993 sul New York Magazine. Il pezzo, un piccolo capolavoro del pettegolezzo intellettuale, narrava della storia d’amore fra MacKinnon e Jeffrey Masson, uno studioso ambiguo che divenne famoso negli anni 80 per una controversia che lo vide protagonista in quanto direttore degli archivi di Sigmund Freud[1]. Al di là della singolare traiettoria intellettuale di Masson, era il suo personaggio a destare meraviglia affianco a MacKinnon: celebre donnaiolo, noto per aver dichiarato rapporti sessuali con circa un migliaio di donne, Masson pareva l’emblema del tipo di maschilità che la giurista aveva speso decenni a combattere. Non aiutavano poi la mielosa banalità delle sue dichiarazioni alla giornalista (ascoltare MacKinnon mentre faceva lezione lo ‹commuoveva fino alle lacrime›, vivere con lei era come ‹vivere con dio›) e le foto fintamente ‹rubate› (in realtà posatissime) dei due che si scambiavano baci e abbracci in favore di obiettivo.

L’intellettuale femminista e il dongiovanni, aggiungeva l’articolo, stavano per convolare a nozze.

Sarebbe stato pateticamente stereotipico inferire dalla lettura dei suoi saggi che MacKinnon fosse asessuale o lesbica, ma vederla in quelle foto al fianco di un uomo che all’epoca molti ritenevano, a livello sia umano che professionale, un ‹mascalzone› (così lo definì Cesare Musatti) e un seduttore da due soldi, ebbe su di me un effetto strano, che mi lasciava confuso. Cominciavo a addentrarmi nella letteratura del cosiddetto femminismo della seconda ondata, e ne ero già troppo addentro per sorprendermi nel notare che persino la giornalista del New York Magazine descriveva MacKinnon con toni fastidiosamente oggettificanti. A destare la mia perplessità non era infatti la femminista radicale fatta, per ripicca, oggetto di desiderio erotico, ma la femminista radicale come essere desiderante: MacKinnon desiderava avere al proprio fianco un uomo come Masson, coccolarlo sulle pagine di una rivista patinata sotto la dicitura ‹la femminista d’assalto e il casanova pentito›, il tutto senza smentire le sue battaglie culturali e politiche – anzi, apparentemente spingendo lui ad appoggiarle. Per il me diciannovenne era un po’ troppo.

PENSARE L’IMPENSABILE – O DI COME LA VITA SI ISPIRI ALLA CATTIVA TELEVISIONE

Accostare Catharine MacKinnon a Elisa Cuter potrà sembrare l’ennesima bizzarria di un articolo che già ne contiene diverse: come combinare una delle più acerrime oppositrici del porno con una critica culturale che apriva la recensione di un film sulla pornoattrice Valentina Nappi affermando che ci fosse qualcosa di ‹insospettabilmente romantico› nel concetto stesso di ‹pornostar›? Il paragone, in realtà, non è del tutto peregrino. MacKinnon ha sostenuto per lungo tempo che i diritti fondamentali delle donne non sono percepiti come diritti ‹umani› al pari di quelli degli uomini. Cuter, dal canto suo, rispondeva di recente a chi le chiedeva che cosa fosse il femminismo con una parafrasi forse inconsapevole di MacKinnon: ‹Il femminismo è la convinzione radicale che le donne sono esseri umani›.

È leggendo Ripartire dal desiderio, il libro firmato da Cuter e pubblicato da minimum fax, che mi è tornata in mente la mia confusione dinanzi alle insolite rivelazioni sulla vita amorosa di MacKinnon, ma del resto si potrebbero fare considerazioni analoghe su quella di Andrea Dworkin.

Cuter e MacKinnon sono agli antipodi su molti temi, ma hanno una qualità comune: sanno scompaginare il dibattito, provocano con intelligenza graffiante, spingono a pensare l’impensabile.

L’impensabile, come tutte le cose, è almeno in buona parte una costruzione sociale.

Oggi si fa fatica a concepire un femminismo mainstream che vada oltre l’elitismo liberal e l’esaltazione della femminilità come l’ultimo prodotto sul mercato, mentre Cuter critica in un sol colpo il puritanesimo di certe varianti del #metoo e la retorica neoliberale del ‹se ti piace e te lo puoi permettere, nessun problema›:

L’oggettificazione della donna mi eccitava. Era colpa del mio imprinting, di Panorama, di Non è la Rai? Certo, le donne oggettificate ma che comunque esplicitano la loro dimensione sessuale continuano a sembrarmi molto meno «fragili» delle vittime create dal #metoo. Eppure resta il fatto che non basta appropriarsi dell’oggettificazione per liberarsi dell’imbarazzo. È vero che il mio desiderio è anche esibizionista e narcisista, su questo Nietzsche aveva ragione. Ma questo è faticoso, penoso, contradditorio. E non certo per sessuofobia interiorizzata (p. 183).

Ripartire dal desiderio prende le mosse proprio da Non è la Rai, leggendo la celebre trasmissione televisiva e l’intricata dialettica che intercorreva tra il suo demiurgo Gianni Boncompagni e la conduttrice-valletta Ambra Angiolini come un paradigma, l’associazione di un insieme di elementi singolari che nei loro rapporti analogici rimandano all’ideologia, vale a dire ‹l’inconscio sociale che si manifesta sulla superficie› (pp. 10; 20). Nel programma di Mediaset l’autrice individua quattro narrazioni interconnesse:

La prima storia […] è quella di un’idea del femminile costruita dallo sguardo maschile. Ambra […] che rappresenta il Femminile per come lo desiderano gli uomini. […]. La seconda storia è quella di un uomo che nonostante il successo, la competenza, la visibilità e il potere di cui dispone è costretto a scomparire dietro a una quindicenne, e quella di una, cinque, dieci, cento ragazze per le quali quella visibilità è l’opportunità di una vita. […] La terza storia è […] di quello che potremmo chiamare il capitale erotico. Il potere dell’attrazione, della persuasione, che diventa molto più pervasivo di quei poteri forti che il discorso politico populista continua a identificare con figure maschili […]. L’ultima storia è quella di un individuo mutante, con le fattezze acerbe di Ambra Angiolini e il cervello smaliziato di Gianni Boncompagni (non quello che ragiona freddamente sui dati Auditel, bensì quello che gioca a fare la quindicenne […]), che diventa un sex symbol (pp. 10-19).

Le varie storie fungono da inneschi per gli altrettanti capitoli che seguono, ma la corrispondenza non è perfetta, e anzi i momenti migliori del testo sono proprio quelli in cui il rispetto dell’ordinato schematismo espositivo cede il passo alla foga della scrittura, che scorre via asfaltando miti culturali edificanti (The Handamaid’s Tale), attaccando alla giugulare ogni appello alle buone intenzioni (‹Peccato che anche la morale sia un privilegio di classe›; p.96) e non risparmiandosi incursioni del memoir in cui nessuno (non l’autrice, non la sua famiglia, neppure i suoi amici) scampa al fuoco di fila della critica. Se Cuter si interroga a un tratto sulla possibilità di essere una ‹cattiva femminista› (p. 27), viene da rassicurarla: è l’esatto inverso, una femminista cattiva, secondo l’eredità del miglior femminismo radicale, una di quelle che si ammirano di soppiatto mentre dietro la schiena si incrociano le dita augurandosi che le proprie figlie non diventino così.

Non si facciano false speranze quelli che vorrebbero aver trovato un’intellettuale camaleontica ma in fondo ricomprendibile sotto l’ala reazionaria, che in cambio della negazione più o meno acrobatica di qualche forma di ingiustizia sociale si aspetti un invito per il ballo mascherato della celebrità. Cuter si professa ‹comunista› (p. 203)  e non come vezzo: il secondo capitolo sviluppa la tesi che non possa darsi un femminismo che non sia al contempo anticapitalista con un’ampiezza rara per un testo non accademico. Rifacendosi alla riflessione sulla femminilizzazione del lavoro in un contesto neoliberale, che in Italia ha trovato in Cristina Morini una delle proprie apripista, il capitolo non salva il capitale per aver reso progressivamente ‹femmina› la forza lavoro, ma condanna la tradizionale identità di genere femminile per la sua complicità con lo sfruttamento:

Un lato negativo della modernità capitalista è proprio questo processo perverso di femminilizzazione, che più di includere le donne in un processo di emancipazione allarga la condizione di subalternità esperita storicamente soprattutto dalle donne a tutta la società. Decisamente non quello che auspicava il femminismo. Ma a far notare questo cortocircuito […] si rischia di passare per misogini. Eppure è possibile (e infatti esiste) un femminismo che non si basa sulla celebrazione acritica del femminile e che proponga invece un modello anticapitalista (p. 94).

La posta in gioco che Cuter si pone è alta: proporre una formulazione accessibile e non specialistica, ma anzi ricca di riferimenti al cinema, alla letteratura e alla televisione di massa, di un femminismo che sia allo stesso tempo radicalmente anti-essenzialista e trans-includente (p. 157) (dal momento che rinuncia a individuare un’essenza immutabile, biologica o altro tipo, come radice dell’essere donna), comunista, non moralista né incline a passare ‹dalla padella della repressione alla brace di una sex positivity all’acqua di rose, da pubblicità› (p. 171), pronto ad abbracciare una visione del sesso inclusiva ma anche ‹conflittuale› (p. 202). L’obiettivo, descritto così, suonerà probabilmente funambolico, ma il saggio di Cuter non ha niente delle lunghe liste di petizioni di principio ortodosse sui temi all’ordine del giorno di certo postmodernismo accademico d’accatto, né dei toni apocalittici ma inconcludenti di tanti rivoluzionari fuori tempo massimo. Il suo è un libro a tratti punk, che ha il potenziale di raggiungere fasce di pubblico pressoché ignote alla (spesso pregevole) saggistica femminista pubblicata in Italia. Pazienza se per ottenere questo risultato l’autrice può a tratti apparire impegnata a dimostrarsi più cattiva e manichea di quanto non sia: le teenager la adoreranno, e qualcuna dovrà pur prendersi la briga di convertirle alla causa rivoluzionaria. Scandalizzare la borghesia, con Cuter, ricomincia a essere cool.

‹HO VOGLIA DI LITIGARE!› – O DEL PERCHÉ IL DESIDERIO RIFIUTA LA MACCHINA BINARIA

L’elemento più straniante, in tutto questo, è che chi scrive si trova in disaccordo con l’autrice di Ripartire dal desiderio su una buona metà delle cose che afferma, disaccordo che su alcuni temi è addirittura noto da anni. Diversamente da quanto mi accade il più delle volte si tratta di un disaccordo stimolante. Non è un contrasto di tipo ideologico, ma uno che nel suo piccolissimo fa pensare che a sinistra possa esistere una terza via tra la noia dell’omologazione su posizioni sempre più al ribasso e lo scissionismo massimalista praticato come attività da diporto. Non si tratta neppure di divergenze a livello meramente argomentativo – non penso tanto che Cuter si sbagli, ma che il più delle volte si complichi la vita. Il suo è un libro che farà probabilmente discutere e che ci riconcilierà con una delle pratiche che spesso si menzionano con fare sessista come tipicamente femminili e che invece dovremmo tutte e tutti coltivare: litigare con chi è simile a noi.

Se dovessi mettere in lista quelle che vedo come le possibili cause di disaccordo rinfocolate da Ripartire dal desiderio, occorrerebbe più di un singolo articolo; ma siccome un litigio smette di essere interessante quando si inizia a dimenticare da dove si era partiti, mi limiterò in questa sede agli aspetti a mio avviso più urgenti. Nessuno è più centrale di quello che dà titolo al volume: che cos’è e come funziona il desiderio?

Intitolando il quarto capitolo Il nostro desiderio è senza nome, l’autrice opera uno spiazzamento. Il riferimento implicito è a un omonimo, breve scritto di Mark Fisher. In quel testo, il compianto intellettuale inglese rifletteva sulla necessità di rilanciare un pensiero anticapitalista positivo, orientato al futuro, e sulla parallela impossibilità di riesumare il termine ‹comunismo› per riferirsi a una aspirazione di quel tipo. La nozione di comunismo veniva vista come indissolubilmente legata ‹agli incubi del ventesimo secolo›, per cui si poneva la necessità di pensare ‹un nuovo tipo di soggetto collettivo› in grado di condurci fuori da un’epoca nella quale ‹persiste la realtà di classe, ma non la coscienza›. Questo soggetto collettivo, questa ‹nuova possibilità di parlare in prima persona plurale› rimaneva, per il Fisher del 2015, di là da venire, ‹senza nome› appunto, ma si muoveva già nell’orizzonte di una ‹politica di classe› capace di ‹prendere sul serio le istituzioni› (cioè nella direzione che due sodali di Fisher, Nick Srnicek e Alex Williams, avrebbero indicato di lì a poco). Il desiderio di cui parla Cuter è, con ogni evidenza, di tipo in parte diverso: non è tanto un desiderio collettivo, ma privato, che riguarda ciascuno e soprattutto ciascuna. La sua è una prospettiva psicoanalitica e, nello specifico, lacaniana.

Può essere utile riportare alcuni passaggi e definizioni dal libro: desiderio è ‹quell’esperienza che crea un conflitto, una cesura tra soggetto e oggetto. […] Un rapporto che esiste tra persone, tra persone e cose, e soprattutto all’interno delle persone stesse. È il rapporto che intercorre tra il sé e l’altro – laddove anche il sé è molto spesso un altro per noi› (p. 34). Facendo un passo oltre si afferma, ‹con una formula lacaniana›, che esso ‹è sempre il desiderio dell’altro›, ‹in entrambi i sensi del genitivo›: ‹ha un oggetto, non è indiscriminato, voglio qualcosa e (dunque) non voglio qualcos’altro. Allo stesso tempo non voglio niente in particolare io come soggetto, voglio che il mio oggetto (l’oggetto del mio desiderio) si faccia soggetto e voglia me› (p. 36). Il desiderio ‹sposta il nostro interesse da dentro a fuori di noi› perché parte ‹da un sé castrato, manchevole› (pp. 180-181).

Andrea Long Chu, in un pamphlet apparso lo scorso anno, aveva mostrato come partendo da una prospettiva simile si potesse finire facilmente a accarezzare prospettive impolitiche. Per Chu quello femminile sarebbe il sesso ‹universale› in quanto ogni essere umano sperimenterebbe la passività fondativa (e in ultima analisi masochistica) del volere che l’altro desideri al posto suo, che il proprio desiderio si riduca totalmente a quello di venire desiderata o desiderato. La politica, in un tale scenario, poiché ci fa comprendere ciò che chiamiamo il ‹nostro› desiderio è in realtà quello altrui e ci fa rendere conto che la nostra condizione generalizzata di ‹femmine› è in realtà qualcosa che odiamo, diventa ‹il nemico giurato› della ‹femminilità›. Chu, però, lungi dall’abbracciare una politica così intesa, restava in un limbo ambiguo, senza sciogliere il dubbio che smettere di essere ‹femmine›, di sperimentare un desiderio del tutto in balia dell’alterità, fosse in ultima analisi impossibile.

Cuter non intende cadere in questa trappola e tenta invece di dimostrare in diverse occasioni la rilevanza anche politica e collettiva della propria concezione del desiderio, secondo una complessa strategia argomentativa che riassumerei come segue:

  • in funzione anti-patriarcale, il desiderio può aiutarci a comprendere la natura illogica e violenta della ‹maschilità egemone›. Essa da un lato ha bisogno di figure femminili costantemente desideranti (l’uomo non deve chiedere mai, non può essere ‹sfiorato dalle disavventure identitarie di chi si trova nella condizione di desiderare›), ma dall’altro nega alle donne in quanto gruppo la facoltà di desiderare (l’uomo è al tempo stesso l’unico soggetto ‹a cui sia socialmente consentito di desiderare›) (p. 133);

 

  •  in chiave anticapitalista, il desiderio permette di criticare in profondità l’ideologia neoliberale che trasforma anche i lavoratori maschi in portatori di capitale umano femminilizzati: ‹Tutti sono già diventati oggetto, sono costretti a sforzi disumani per curare il sé, renderlo appetibile, spendibile sul mercato del lavoro e contemporaneamente per curare le ferite prodotte da questo costante lavoro sul sé – e a questo punto non anelano ad altro che a diventare oggetto per davvero. Diventare un oggetto del desiderio (come una donna)› (p. 144) anche all’interno di relazioni intime regolate alla stregua di contratti di diritto privato. Sotto questa luce, il discorso intorno alla natura del ‹consenso› nella vita sessuale rischia di assumere su di sé il peggio dell’individualismo proprietario (pp. 173-174),  facendo tornare alla mente la critica femminista di Carol Pateman alla forma-contratto. Al contempo, mentre la sussunzione del lavoro al capitale si accresce il consumismo fornisce a una forza-lavoro sempre più alienata l’illusione che ogni suo desiderio sia un ordine – su Amazon –, mentre in realtà quella al consumo costituisce una vera e propria ingiunzione (pp. 171-172);

 

  • come strumento di critica dell’essenzialismo, il desiderio segna anzitutto una presa di distanze da una lettura oppressiva e immodificabile della figura materna da parte di certo femminismo della seconda ondata. L’idea di una donna votata per natura alla maternità, infatti, conduce il desiderio a assumere un’inflessione perversa sia nella madre che nella prole. A causa della propria minore rappresentazione e dignità nella sfera pubblica, la donna-madre tenderà inconsciamente a percepire il proprio ruolo come ‹inferiore, limitante, discriminante›, finendo per viverlo ‹con il sapore di una vendetta›. Si instillerà dunque nei figli e ancor di più nelle figlie un dovere di riconoscenza, un’interiorizzazione della norma fonte di costanti sensi di colpa e dell’incapacità di vivere in modo consapevole il proprio desiderio (pp. 150-152). Lungi dal restare in ambito familiare, la dinamica si allarga all’intera società nel momento in cui è buona parte della sinistra a comportarsi da madre giudicante che distribuisce patenti di inclusività – lasciando così ‹uno spazio enorme alla colonizzazione del fascismo, di cui si comprende l’appeal: una resa alla deresponsabilizzazione, la risposta al bisogno di protezione, e insieme il brivido della trasgressione› (p. 159);

 

  •  come critica di un certo costruttivismo, o meglio di quelle che Cuter vede come le sue appropriazioni perbeniste e depoliticizzanti in materia di approcci alla sessualità. L’autrice non ha alcun dubbio sul fatto che il genere sia ‹un falso ontologico› (p. 33), ma al tempo stesso ammette che ‹la differenza di genere che uno vorrebbe mettere alla porta nella società, rientra dalla finestra attraverso il sesso e il desiderio› (p. 54). Questo perché ‹il sesso è la prima cosa che crea un conflitto che chiede costantemente di posizionarsi› (p. 202). Il desiderio che vediamo all’opera così chiaramente nella sfera sessuale (p. 189) ma che non è confinato a essa, allora, è un processo del quale non conosciamo gli esiti, ma che implica un ammontare variabile di conflitto che non può essere fatto scomparire. Di qui le obiezioni che Cuter muove a un modo fintamente liberatorio di educare alla sessualità, che spiega alle persone ‹cosa devono fare, come devono sentirsi, come devono presentarsi›, disattendendo ancora una volta il loro desiderio (p. 171);

 

  • in chiave epistemologica, adottare un punto di vista desiderante può permetterci di rileggere in maniera radicale e non moralistica concetti, come quello di cura, che oggi si ripropongono in abbinamento a discorsi deteriori su una ‹femminilità› associata alla sfera domestica e alle potenzialità di accudimento supposte illimitate delle donne, soprattutto madri (p. 191). Inoltre, riprendendo la tradizione della standpoint theory femminista, l’autrice rivendica un ‹privilegio epistemico› che viene ‹dall’esperienza della subalternità› e che oggi ci rivela come una lotta transfemminista ci spinga a desiderare alleanze con istanze anticapitaliste e antirazziste non per qualche senso di colpa di stampo etico, ma anzitutto per ‹interesse› politico. Al di là di ogni codice morale, l’interconnessione delle forme di oppressione strutturale rende inefficace sul nascere una strategia che non le metta a fuoco insieme (pp. 196-199).  

 

Emerge chiaramente da questa panoramica come per Cuter il desiderio faccia tante, tantissime cose. La domanda allora diventa come sia, o dovrebbe essere, un desiderio in grado di svolgere tutti questi ruoli – e se coincida con l’immagine datene, in modo un po’ rapsodico, nel corso del libro. Mantenendo sempre lo sguardo puntato al dibattito politico occorre chiederci se vi siano, nel modo in cui il testo ci restituisce il desiderio, delle tensioni che potrebbero compromettere, o perlomeno mettere in ombra, certi tipi di pratiche e rivendicazioni.

Una prima questione degna di nota riguarda il rapporto del genere, riletto alla luce del desiderio, con la classe e l’antiessenzialismo. Se l’obiettivo della lotta di classe è una società senza classi, l’abolizione della classe in sé, quello di una lotta femminista non essenzialista sarà simmetricamente l’abolizione del genere? Su questo punto Cuter appoggia la posizione di Helen Hester e più in generale dello xenofemminismo: del genere occorre eliminare ‹il portato sociale e prescrittivo› (p. 33), ma un approccio che rinunci a vedere come ‹naturali› alcune identità di genere piuttosto che altre non potrebbe mai auspicare un’‹austerità del genere›, augurandosi invece ‹l’abolizione del sistema della differenza di genere attraverso la proliferazione delle differenze›. L’approccio di Hester solleva molte complicazioni. In primo luogo, postula che il genere, al contrario della classe, esista al di là del suo ‹portato sociale e prescrittivo›. Se così fosse, esso risulterebbe in qualche modo eterogeneo anche rispetto alla ‹razza›: non ci sono ormai molti dubbi, tra chi analizza le pratiche di razzializzazione, cioè di produzione e riproduzione sociale della razza, che tale nozione sia intrinsecamente prescrittiva in senso gerarchico (non esistono modi egualitari per applicare alle persone una categorizzazione razziale). Ovviamente, essendo lo xenofemminismo antiessenzialista, non si potrà nemmeno argomentare facendo riferimento a una visione biologica dei sessi basata sul dimorfismo. Tutto potrebbe ridursi allora a una tesi a dir poco improbabile secondo cui, storicamente, la differenza di genere sarebbe stata per buona parte della sua esistenza non intrinsecamente discriminatoria per le donne. Un approccio minimale, che personalmente condivido, riconoscerebbe invece alle idee di razza e genere due ruoli residuali ma di grande importanza: la denuncia di forme di oppressione che ancora vengono perpetrate facendovi riferimento e la memoria delle lotte contro di esse. Niente di più, niente di meno. Di conseguenza, l’augurio xenofemminista ‹che mille generi sboccino!› pare un po’ volontaristico e antistorico: tale moltiplicazione rischierebbe di risultare solo in un corrispettivo aumento delle forme di discriminazione, o di venire sussunto all’interno di una logica di mercato (‹prendi il genere che vuoi, purché paghi›).

La questione potrebbe ancora avere delle implicazioni politiche limitate (dopotutto, l’abolizione sia del genere che della classe sembra sideralmente lontana!), se non fosse che Cuter apporta una torsione ulteriore alla posizione di Hester: c’è a suo avviso ‹un campo in cui la differenza di genere continuerebbe a ripresentarsi› anche venute meno le sue ricadute in termini di distinzione sociale. Quel campo è il sesso, rispetto al quale Cuter non vede maschile e femminile come categorie anatomiche o biologiche, quanto alla stregua di opposte ‹posizioni› che rimandano alla distinzione fra soggetto e oggetto (p. 33). Qui, dopo xenofemminismo e marxismo, entra in scena il principale riferimento interpretativo del libro: la psicoanalisi lacaniana. Effettivamente, l’adozione di una matrice lacaniana consente di intendere soggetto e oggetto al livello linguistico del simbolico (e quindi come significanti piuttosto che significati) – simbolico che è a sua volta ordinato da un significante padrone. Quest’ultimo, dando una consistenza (sia pure provvisoria) alla moltitudine dei significanti, è la condizione di possibilità del linguaggio (diremmo, filosoficamente, che si tratta di un elemento trascendentale). Se maschile e femminile sono allora le due logiche che reggono l’ordine simbolico, e se il sesso è, come ha affermato Cuter, il campo in cui maschile e femminile (la differenza di genere) continuano a ripresentarsi, allora si dovrà ammettere che, in effetti, tale differenza assume un ruolo fondazionale che (tutte le) altre, inclusa quella di classe, non hanno.

Tutto parrebbe risolto, se non fosse che affidarsi a una concezione lacaniana del desiderio genera, a cascata, problemi per ogni funzione politica che Cuter gli attribuisce. In Lacan il desiderio possiede una carattere ‹profondamente nostalgico›, perché lega il soggetto a un oggetto perduto per sempre, La Cosa, un’entità che eccede sia la dimensione linguistica del simbolico che quella rappresentativa dell’immaginario e costituisce il vuoto al centro del reale lacaniano, un godimento irraggiungibile nella sua pienezza. La Cosa pone uno scarto proprio fra il piano del desiderio e quello del godimento: il desiderio del soggetto è messo in moto dal vuoto della Cosa o più precisamente dall’oggetto a, la parte che il linguaggio ne può carpire. L’oggetto a può essere definito plus-godimento nel senso del plusvalore marxiano: così come il più di valore che permette il profitto del capitalista è reso possibile solo dalla spoliazione della forza lavoro, il plus-godimento è il residuo della perdita della Cosa. Occorre notare, però, che mentre nel caso del plusvalore chi espropria non coincide con chi viene espropriato, nello scenario descritto da Lacan il soggetto è il medesimo: la Cosa è irrimediabilmente perduta, per cui il soggetto dovrà di volta in volta accontentarsi di un surrogato diverso, di una sublimazione. Di qui la struttura infinitamente ripetitiva (di surrogato in surrogato verso surrogati che non finiscono mai) del desiderio così inteso.

L’insegnamento lacaniano, qualunque sia il proprio giudizio su di esso, cozza con altre coordinate importanti del discorso di Cuter. Dalle pagine di Ripartire dal desiderio emerge abbastanza chiaramente la conoscenza (p. 36) e la condivisione della tesi esposta da Judith Butler in Questione di genere per cui una distinzione rigida fra un sesso inteso come puramente naturale e un genere concepito in quanto totalmente culturale non è sostenibile. Nel testo, il termine ‹genere› non indica soltanto un costrutto sociale immateriale, ma Cuter sembra appunto seguire Butler nel farne un concetto più complesso e nel trovare in tale complessità una delle radici della propria spinta anti-essenzialista. Nondimeno, nello stesso testo citato da Cuter, Butler prende nettamente le distanze dalla visione lacaniana del desiderio, ritenendo che condannare quest’ultimo a un fallimento idealizzato in modo quasi ‹religioso› renda la narrazione di Lacan ‹ideologicamente sospetta› o, peggio, ‹una sorta di morale degli schiavi›. Per Butler, una tale ‹struttura da tragedia religiosa› ‹mina decisamente› quelle strategie che potrebbero puntare, contro un ordine simbolico patriarcale (si tenga a mente che la forma consueta del significante padrone è il Nome-del-padre), ‹a configurare uno scenario alternativo per il gioco dei desideri›. L’implicazione qui è non solo che il desiderio lacaniano si presenterebbe come intrinsecamente eteronormativo, ma più in generale che avrebbe degli accenti politici preoccupanti per chi voglia cambiare radicalmente lo status quo.

Le perplessità di Butler si approfondiscono se proviamo a guardare alla rappresentazione lacaniana del desiderio anche da una prospettiva marxista, che Cuter fa esplicitamente propria. Lacan, con un tipica movenza idealistica, introduce una cesura fra la materialità del bisogno, la sua espressione linguistica o domanda, e il desiderio (che non può ridursi a alcuna domanda particolare e che, più in profondità, testimonia la condizione di costitutiva mancanza del soggetto). Già Butler aveva notato il rischio implicito nell’operazione di separare la sessualità (parte della domanda d’amore lacaniana) sia dal bisogno che dal desiderio (ridotto in tal modo a ‹una sorta di trascendenza estatica che eclissa completamente [il sesso]›), ma a questo occorre adesso aggiungere la centralità dell’idea di bisogno nello stesso Marx. Come notava quasi cinquant’anni fa Agnes Heller, ‹all’interno delle scoperte economiche che Marx indica come proprie il concetto di bisogno gioca uno dei ruoli principali›. Marx, tra le altre cose, nella Critica del programma di Gotha descriveva la fase elevata della società comunista come quello stadio in cui, superata la contrapposizione tra lavoro manuale e intellettuale, sulle bandiere potrà leggersi il motto ‹Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni›. È proprio questa frase che Cuter menziona al termine del suo volume, riflettendo su come il ripartire del titolo fosse da intendersi non solo nel senso della ripartenza, ma anche in quello della ripartizione (p. 201) – non semplice farlo con una concezione del desiderio che lascia i bisogni sullo sfondo.

Volendo arrivare alla radice del problema, dobbiamo domandarci se un desiderio fondato, come quello lacaniano e più in generale psicanalitico, su una mancanza incolmabile, possa fungere da efficace strumento di critica del capitalismo. Gilles Deleuze e Félix Guattari sono coloro che hanno fornito con più vigore una risposta negativa a tale interrogativo. I due pensatori francesi ribaltarono completamente la lettura psicanalitica del desiderio: non è la mancanza con i suoi bisogni a generare il desiderio, ma è il desiderio a essere antecedente alla mancanza. Il desiderio, lungi dal risultare eternamente orfano e insoddisfatto, è produttivo: ‹autoproduzione› di un inconscio concepito non più come teatro dove vanno in scena sempre le stesse tragedie (Freud), né sotto forma di linguaggio dalla sintassi asfittica (Lacan), ma in quanto ‹fabbrica›. La mancanza sarà allora un ‹controeffetto› niente affatto innocente del desiderio, istanza di quell’‹antiproduzione› che si oppone alle forze produttive – in ultima analisi, ‹l’arte di una classe dominante›. Per Deleuze e Guattari non ci sono propriamente né un soggetto né un oggetto del desidero: esso ‹non manca di nulla›. Pensare che il desiderio sia ciò che intercorre fra le due posizioni date del soggetto e dell’oggetto significherebbe ridurre la sua sterminata creatività (quella creatività che in ultima analisi produce il reale) entro una ‹macchina binaria che presiede alla distribuzione dei ruoli› tra il polo oggettivo e quello soggettivo. Lacan aveva un bel dire a sostenere di aver mostrato la natura perversa del dovere kantiano: la morale da preti che predica la natura inaccessibile e mortifera del godimento non andava meno a nozze con la grande innovazione introdotta dalla borghesia capitalistica, ‹cioè la scomparsa del godimento come fine, la nuova concezione della congiunzione secondo cui il solo fine è la ricchezza astratta›. La scomparsa del godimento dall’orizzonte borghese apre allora le porte all’autosfruttamento: ‹non c’è più neppure padrone: solo degli schiavi, ora, comandano agli schiavi e non c’è più bisogno di caricare l’animale dall’esterno, dato che si carica da sé›.

Lacan non era certo un araldo del capitalismo sfrenato, basti pensare alla conferenza del 1972 a Milano, in cui introdusse il discorso del capitalista come quel discorso caratterizzato da un lato dall’ingiunzione a godere tramite i beni di consumo e dall’altro dall’inevitabile frustrazione di tale anelito al godimento. Cuter stessa pare ben consapevole di questo contributo quando parla del ‹solipsismo dell’ideologia neoliberale› e del ‹senso di onnipotenza individuale costantemente frustrata che questo genera› (p. 181). Il problema della critica lacaniana della retorica capitalistica, tuttavia, risiede proprio in quello che gli autori dell’Anti-Edipo vedevano come uno degli elementi di complicità della psicanalisi con il capitalismo: il porre limiti strettissimi all’enunciazione, riconducendo le parole della persona analizzata all’interno di una serie limitata e depoliticizzante di possibili permutazioni. Il discorso del capitalista non fa eccezione: variante del discorso del padrone, lo si otteneva applicando la regola di trasformazione, ‹ossia la rotazione oraria e antioraria di un quarto di giro dei simboli nelle quattro posizioni [significante padrone, soggetto, sapere e oggetto a], stabilendo i passaggi, le opposizioni, le esclusioni, cioè l’insieme dei rapporti tra i discorsi›. Che una realtà multiforme come il capitalismo contemporaneo, caratterizzato dall’intreccio di una molteplicità di operazioni, possa venire analizzata efficacemente facendo ruotare una manciata di simboli è un’eventualità remota. Ma ancora più pericoloso ai fini di Cuter può rivelarsi il mobilitare alcuni motivi psicanalitici (la passività al desiderio, l’incompletezza costitutiva del soggetto, il ruolo potenzialmente positivo della vergogna, ecc.) per contrastare la narrazione neoliberale: in una fase storica in cui emergono sempre più chiaramente gli aspetti austeri, autoritari e demonizzanti del neoliberalismo nei confronti della maggioranza della popolazione, invocare la necessità di scandagliare la natura scandalosa del proprio desiderio può diventare facilmente una mossa elitista. A maggior ragione vista la posizione di sfruttamento economico comparativamente peggiore vissuta dalle donne.

Non va molto meglio sul piano dell’adozione di un’agenda xenofemminista: se Hester auspica un’era della ‹post-scarsità› del genere, nella quale i generi fioriscano liberamente e in modo sovrabbondante, la mancanza alla base della macchina binaria lacaniana finirebbe per disinnescare l’elemento radicale di una tale molteplicità, riconducendola all’abituale dialettica della logica maschile e femminile del significante, oppure declassandola a mero agglomerato di preferenze estetiche che poco hanno a che fare con il processo di individuazione degli esseri umani.

Cuter possiede ovviamente molte più risorse di Lacan per evitare esiti simili. In questo senso, pur non dando l’impressione di voler propendere per una lettura deleuziana desiderio,  l’autrice sembra muoversi in prossimità della riappropriazione del lessico psicanalitico da parte del femminismo italiano della differenza. Chiara Zamboni, che di quella corrente è fra le protagoniste, colloca nei movimenti politici della seconda metà degli anni 60 ‹il vero punto di partenza per un pensiero femminile autonomo del desiderio e del godimento›. Tra le maggiori innovazioni del femminismo della differenza Zamboni segnala il ripensamento del rapporto tra desiderio e bisogno, mutuando l’attenzione al primo dalla psicoanalisi lacaniana e la perdurante rilevanza del secondo dalla tradizione marxista. Questo approccio ibrido è reso possibile dal fatto che ‹le donne avvertono un rapporto intimo con il corpo che non è solo riducibile al bisogno, ma ha a che fare con l’inconscio, i sogni, dunque con il desiderio che ne è elemento portante›. Scavalcando almeno in parte la dittatura del significante, si potrà allora riconoscere che ‹il desiderio ha a che fare con l’inconscio che è sì linguistico, ma la cui radice onirica è presente nella percezione stessa› – e di conseguenza il godimento cesserà di apparire come il mostruoso interdetto della psicanalisi, diventando una più rassicurante ‹apertura al mondo, all’essere con tutte se stesse›.

Si direbbe che Cuter abbia qui finalmente trovato l’impalcatura perfetta per il proprio discorso sul desiderio, ma non è così: il femminismo della differenza è esattamente il tipo di femminismo fondato sul materno e costantemente tentato dall’essenzialismo con cui l’autrice di Ripartire dal desiderio vorrebbe rompere. Tra le righe, una tale problematica emerge già dalle parole di Zamboni: sono le donne che nel rapporto con il proprio corpo percepiscono la coesistenza di bisogno e desiderio. Del resto, il passaggio citato in precedenza continua riconducendo la radice di questa speciale sensibilità al ‹legame profondo con il materno›, in quanto ‹la madre rappresenta il legame primo che abbiamo con la vita e noi stesse possiamo diventare madri›. Federica Giardini, che viene da una generazione successiva a quella di Zamboni e dal femminismo della differenza si è poi staccata, chiude virtualmente la questione quando scrive che ‹per difendersi dal queer, la differenza sessuale ha finito per corrispondere all’assegnazione predeterminata di due identità, il maschile e il femminile, al cosiddetto binarismo di genere›. La macchina binaria, insomma, esce dalla porta solo per rientrare dalla finestra.

Il femminismo della differenza, tuttavia, non rappresenta per Cuter solo un incontro mancato, ma qualcosa di più insidioso. In uno dei passaggi più avvincenti e ambigui del saggio, l’autrice descrive l’esperienza bizzarra del trovarsi a presentare un documentario sull’educazione sessuale frutto del progetto autogestito di otto giovani fra i diciotto e i venticinque anni (pp. 163-172). C’è però una particolarità: malgrado l’insistenza sul fatto che si tratterebbe di un prodotto ‹senza censura› e volto a mostrare la realtà del sesso nelle vite di ragazze e ragazzi, la pellicola non contiene scene di rapporti sessuali. Attrici e attori, per giunta, tengono a precisare che non vi siano state interazioni sessuali fra loro nel corso della lavorazione. Cuter chiosa: ‹mi delude che dei ragazzi che si occupano di un progetto di educazione sessuale siano così orgogliosi di non aver fatto sesso fuori dal set›. La sua critica è tanto ficcante quanto è apparentemente facile il bersaglio da colpire: il film riguarda solo marginalmente il sesso e per nulla il desiderio; piuttosto, si tratta di una sorta di terapia d’urto per vincere le proprie insicurezze riguardo l’aspetto fisico o l’orientamento sessuale (un’iniziativa a suo avviso facilmente colonizzabile dalla logica auto-imprenditoriale del capitale umano).

La rappresentazione della sex positivity di cartapesta che Cuter descrive manca di qualunque accenno alle dinamiche di potere che si articolano anche in situazioni consensuali. 

A pelle, sento di condividere molte di queste obiezioni, ma mi chiedo se sia per il fatto che Cuter abbia ragione o piuttosto per il suo essere infinitamente più sofisticata e – non me ne voglia – un po’ più avanti negli anni delle persone che critica.

Che cosa, di preciso, assegnerebbe alla visione del sesso dell’autrice una maggiore corrispondenza alla realtà rispetto a quella dei ragazzi che hanno realizzato il film? Cuter ha dalla sua la raffinatezza della psicanalisi lacaniana, certo, ma abbiamo già visto le aporie che questa può creare. Potremmo del resto invocare fonti altrettanto illustri per sostenere che il sesso non sia necessariamente un’esperienza dal grande potenziale emotivo o (cosa che immagino farebbe drizzare i capelli a diversi analisti) che non ci sia, nel sesso, nulla di speciale.

In fondo, perché mai la nostra vita erotica dovrebbe ruotare attorno alla dimensione noiosamente genitale che siamo abituati a chiamare sessualità?

Nell’ambito del sesso non procreativo che cosa, se non una costruzione sociale arbitraria, rende una penetrazione vaginale più erotica di un bacio, o di un abbraccio, o del guardarsi negli occhi? Un documentario che non mostra scene di penetrazione smette per questo di essere sincero sul sesso? Il fine, per dirla con Foucault, non sarebbe qui tanto smettere di fare sesso, ma passare dalla moltiplicazione dei discorsi confessionali sul sesso propria della scientia sexualis a un’ars erotica che estragga la verità sul sesso ‹dal piacere stesso, considerato come pratica e raccolto come esperienza›. Lasciare il sesso libero di non significare niente – non è forse questo un prerequisito perché possa anche significare qualcosa di rilevante? Ho l’impressione che la generazione Z, bombardata di rappresentazioni sessualmente esplicite molto più delle precedenti, si confronti proprio con questa tematica.

Il sesso per come hanno insegnato a pensarlo a me e Cuter, per dirlo con una battuta, fa molto anni 90.

Cuter in realtà non si limita a dire che la sua visione del sesso sia migliore o più realistica. Forse inconsapevolmente, mette in atto con la sua critica una delle pratiche più originali e controverse del femminismo della differenza: la relazione di autorità. All’interno di un collettivo femminista, può succedere che una sua componente più esperta svolga un ruolo educativo ma al contempo gerarchico nei confronti delle compagne più giovani di militanza o di età. La relazione di autorità non mira a istituire delle dinamiche di potere orizzontali fra le singole ma, ‹sulla scorta di una revisione radicale della relazione materna inaugurale, punta sulla possibilità di pensare che la disparità non sia esauribile nei termini di un maggiore o minore potere, ma che si presti e diventi occasione per diventare soggetti di desiderio. Sono sicuro che sia in questa accezione nobile che Cuter rimproveri l’evidente ingenuità dei giovanissimi attori e a attrici. Al netto delle intenzioni, però, la relazione d’autorità presta il fianco a tentazioni cripto-autoritarie (‹la porta stretta› la definisce Luisa Muraro, che tanto per far inorridire l’autrice di Ripartire dal desiderio la lega a doppio filo ‹al valore della gratitudine nei confronti della madre›). La relazione d’autorità – aggiunge Giardini – divenne con il tempo la mera richiesta ‹di un’attribuzione indiscussa di potere›, esacerbando la frattura generazionale all’interno del femminismo della differenza.

Il problema non è unicamente politico, ma epistemico: avere guadagnato autorevolezza sul campo non implica che si abbia ragione sull’oggetto del contendere. Se Cuter cita giustamente la perspicacia dei punti di vista situati dei gruppi oppressi, con la relazione d’autorità viene meno la dimensione sociale e collettiva fatta propria dalla standpoint theory: sono le singole a far valere il proprio carisma e i propri talenti, non il gruppo nel suo complesso a generare dal basso una visione comune. Ci sono dei momenti in cui un rischio analogo serpeggia fra le righe di Ripartire del desiderio, la cui autrice si dimostra tanto brillante quanto all’apparenza sola. Il passaggio dal desiderio individuale a quello collettivo – la ‹prima persona plurale› di Mark Fisher – sembra ora assunto come un assioma, ora rinviato a un futuro indefinito. Riusciremo a ripartire dal desiderio? E da quale, visto che un desiderio che funzioni con l’efficacia che l’autrice vorrebbe deve ancora essere trovato?

LA VIRTÙ DELL’INCOMPLETEZZA

Si potrebbe pensare che dopo una disamina critica così lunga, il giudizio molto positivo rivolto in precedenza al testo di Elisa Cuter debba intendersi in qualche modo attenuato. Non è così. Ripartire dal desiderio sorprende anche per il candore con cui ammette i propri limiti. ‹Mentre so che c’è chi, concluso e mandato in stampa il suo libro, si sente di aver contribuito a qualcosa, di aver fatto qualcosa di buono per sé o per gli altri, e si sente dunque soddisfatto, io ora sono terrorizzata› (p. 205), questa la chiusa del libro. Al termine della lettura ci si rende conto così che quello che si ha fra le mani è, nonostante i pochi momenti autobiografici, un testo profondamente personale. Cuter scrive di sé delle cose che molte e molti di noi non vorrebbero far sapere e non lo fa solo quando racconta episodi della propria esistenza, ma anche nel commentare un film o un avvenimento recente. Ci fa intravedere il fluire in lei del desiderio.

Da Catharine MacKinnon – che alla fine non sposò mai Jeffrey Masson – ho appreso il primato della prassi sulla teoria, e che il pensiero femminista al suo meglio non è che ‹la teoria della pratica delle donne›. A un primo sguardo, una definizione del genere lascerebbe il saggio di Cuter fuori dai confini di tale teoria, poiché non c’è un’esperienza militante, o anche uno studio ravvicinato dell’attivismo, alla sua base. Eppure, se non delle pratiche collettive in senso stretto, in Ripartire dal desiderio si possono scorgere all’opera quelle che Foucault chiamerebbe delle pratiche o delle tecnologie del sé. C’è una donna che sperimenta, su se stessa e sul mondo che la circonda, e che lo fa a proprio rischio e pericolo. Se la critica foucaultiana si caratterizza come un’attività in grado di cogliere ‹nella contingenza che ci ha fatto essere quello che siamo, la possibilità di non essere più, di non fare, di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo›, quello di Cuter è un testo critico. Le tensioni e le possibili incoerenze degli argomenti e dei riferimenti allora non scompaiono, ma vanno anche intese al livello di una precisa soggettività autoriale: tutte e tutti siamo contraddittori, perciò scrivere un libro ‹partendo da sé› significa anche scriverne uno aperto alle contraddizioni. Significa avere parole che abitino il mezzo, che non aspirino a essere definitive, ma a lasciare che il desiderio produca nuovi concatenamenti. Ciò che le molte, forse troppe, peripezie che Cuter fa compiere alla sua idea di desiderio sottolineano è la necessità di ripensare a fondo questa categoria, sfruttandone il potenziale di messa a fuoco (nel senso pirotecnico del termine) della realtà.

Ripartire dal desiderio rinuncia esplicitamente a ogni intento normativo e rifiuta la logica del buon esempio – piuttosto, dandone uno astutamente ‹cattivo› ci ricorda quanto diversi potrebbero essere i nostri modi di fare e disfare il genere. All’autrice vorrei solo offrire una speranza finale: non trovo le sue riflessioni scritte da un’università tedesca troppo diverse da quelle che la nuova, potente ondata di movimenti femministi ha fatto proprie negli ultimi anni in molti paesi del mondo. In Italia, due animatrici di Non Una di Meno come Carlotta Cossutta e Elisa Virgili usavano pochi mesi fa delle parole che suonano come un invito a unirsi a loro, e con le quali credo valga la pena di concludere:

Il femminismo non è rassicurante, ma è una critica al presente che ci tiene sempre in guardia. Non ci si affida al femminismo come a un’ideologia politica carica di promesse per il futuro, ma è una postura del corpo, del pensiero e del desiderio che scardina il reale con la promessa di sostituirlo non con un domani migliore, ma con un oggi imprevisto.

[1] Masson, in particolare, avendo accesso privilegiato a documenti allora inediti del medico viennese, sostenne che alcuni di essi provassero la malafede di Freud nell’abbandonare la teoria della seduzione (secondo cui l’origine della nevrosi nelle persone adulte andava ricercata in una reale seduzione sessuale del bambino – più spesso: della bambina – da parte di un genitore). Freud sarebbe stato convinto della veridicità dei racconti di abusi sessuali dei (e delle) pazienti, ma avrebbe preferito ridurli a ‹fantasie› per convenienza. Per farsi un’idea delle (e sulle) tesi di Masson si vedano, fra gli altri: J. M. Masson, The Assault on Truth. Freud’s Suppression of the Seduction Theory, Farrar, Strauss and Giroux, New York 1984; P. Migone, Storia dello scandalo Masson, in ‹Il Ruolo Terapeutico› 89, 2002, pp. 58-69; 90, pp. 47-58; 91, pp. 67-77; A. Esterson, Jeffrey Masson and Freud’s seduction theory: a new fable based on old myths, in ‹History of the Human Sciences› 11(1), 1998, pp. 1-21; J.L. Herman, Trauma and Recovery, Basic Books, New York 2015, cap. 1.