Footballization
Lo sport e il calcio sono un modo di fare resistenza politica, anche nei contesti politici e sociali più difficili come i campi profughi siriani e libanesi. Il calcio diventa allora un modo per i rifugiati di affrontare la vita, nell'attesa di approdare in un posto migliore.
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‹In primis, dovreste impegnarvi al massimo nel calcio perché vi tiene lontano dalle brutte abitudini così diffuse qui nel campo. Inoltre, fare sport mostra la vostra forza: ci sono persone che combattono con le armi, voi lo fate attraverso il calcio. Stiamo tutti combattendo per la Palestina in tanti diversi modi›.
Sheikh Mohammed, il responsabile della locale Moschea Al-Furkan nel campo profughi palestinese di Borj el-Barajneh, nella periferia a sud di Beirut, accoglie in questo modo la nostra squadra pochi secondi prima che i minareti attorno annuncino la rottura del digiuno alla fine di un caldo giorno di Ramadan. Tra il 2016 e il 2018, durante la mia ricerca per il dottorato, ho giocato a calcio all’interno dell’Al-Aqsa, la squadra palestinese più conosciuta del campo profughi alla periferia sud di Beirut.
Gli sport in generale, e il calcio in particolare, hanno storicamente servito da piattaforma di resistenza e opposizione contro i colonizzatori e i loro locali alleati, e come strumento per proiettare una nazione in lotta per l’indipendenza sul palcoscenico internazionale. Dall’altra parte, lo sport è stato incorporato, anche ad oggi, negli affari politici dei paesi nella regione araba per rafforzare la legittimità dei partiti al governo e delle famiglie reali. Le parole dello sheikh Mohammed e le multiple interconnessioni emerse all’interno della squadra contribuiscono a favorire la dialettica tra lo spirito di squadra e il sentimento nazionale, come per esempio emerge nel lavoro di Appadurai del 1995 sulla decolonizzazione del cricket indiano.
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Tra i diversi autori che si sono occupati del contributo dello sport nell’ambito del nazionalismo, lo storico Hosbawn, in Nations and Nationalism since 1780, ha sintetizzato come ‹la comunità immaginata di milioni sembra più reale con un team di undici giocatori›. Non è quindi sorprendente come la federazione calcistica della Palestina sia stata riconosciuta come membro effettivo della FIFA nel 1998, 14 anni prima che l’Assemblea Generale ONU riconoscesse allo Stato palestinese la concessione dello status di osservatore permanente, come Stato non membro.
All’interno del campo da calcio di Borj el-Barajneh l’identificazione con l’esposizione di bandiere palestinesi e la performance dell’inno nazionale materializzano un’esperienza quasi-nazionale per rifugiati nati in esilio,
privati di un’identificazione geografica con la Palestina e discriminati a più livelli all’interno dello Stato libanese, con cui la comunità palestinese nutre un rapporto controverso e conflittuale culminato durante i quindici anni di guerra civile (1975-1990) mai sanato fino ad oggi. Sul piano prettamente calcistico, in modo simile a decine di altre professioni sicuramente più diffuse nel Paese, i calciatori palestinesi nati e cresciuti da generazioni in Libano sono storicamente e giuridicamente considerati stranieri e quindi esclusi dai campionati ufficiali.
Le traiettorie del calcio palestinese in Libano e delle biografie di tanti calciatori raccolte durante gli anni materializza l’intreccio tra le manifestazioni di nazionalismo e la strategica reinvenzione degli spazi pubblici, evocando un quotidiano senso di ‹banale nazionalismo› (Billig). Qui il calcio non è concepito come lo sport moderno mediatizzato e legato a un sistema di istituzioni globali, ma come un gioco quotidiano legato al bisogno di attività creative e di immaginari ludici. In questo senso, le pratiche sportive si trasformano in forme di appropriazione spaziale e riproduzione che vanno oltre i confini socio-spaziali dei campi imposti sulla comunità palestinese dalla classe dominante libanese.
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In opposizione a decenni di discriminazioni socio-politiche e gerarchizzazione degli spazi, la comunità palestinese in Libano ha costituito le proprie leghe calcistiche, con decine di squadre che si fronteggiano dentro e fuori i 12 campi profughi palestinesi del Libano. ‹La federazione palestinese è la casa di tute le squadre dei campi – ci dice Majdi, uno dei dirigenti nazionali. Da un anno e mezzo abbiamo ripreso il lavoro con la nazionale palestinese in esilio, stiamo lavorando per far si che lo sport palestinese ritorni ai livelli degli anni ’70 e ’80, quando competeva ai massimi livelli in tutta la regione›. Durante la mia militanza pluriennale in una di queste squadre ho avuto modo di osservare come le molteplici logiche di esclusione vengano quotidianamente contestate dalle pratiche messe in campo dai suoi protagonisti.
All’interno di questi spazi, limitati dal punto di vista dell’espansione geografica e strategicamente controllati da checkpoint dell’esercito libanese, la quotidianità è stata ulteriormente complicata a seguito dell’arrivo di migliaia di rifugiati provenienti dalla Siria, che per l’80% dei casi sono a oggi considerati ‹illegali› sul territorio libanese e passibili di arresti e/o denunce in caso di controlli da parte dell’esercito libanese. Yazan, proveniente dalla Siria, ci racconta come
‹Dopo 2 anni di impossibilità a fare il calciatore e problemi di sicurezza ai checkpoint del campo, un compagno di squadra mi ha informato della possibilità di comprare una nuova identità da un Palestinese del Libano che era andato in Europa pochi mesi prima. In questo modo, ora posso giocare a calcio e muovermi anche più tranquillamente nel Paese›.
Mentre diverse organizzazioni umanitarie hanno provato a utilizzare il calcio e lo sport per promuovere la ‹pace› in ambienti considerati come politicamente tesi e complicati, inclusi i campi palestinesi in Libano soprattutto dopo l’arrivo dei rifugiati dalla Siria, il microcosmo del calcio palestinese auto-costituito in decenni di esclusioni rifiutano la finalità ultima di pacificazione tra nemici che sembra permeare l’orientamento delle organizzzazioni umaniarie che lavorano nei contesti di conflitto. Per esempio, il campo da calcio costruito nel 2014 all’interno del campo di Borj el-Barajneh come sede dell’Al-Aqsa si è rapidamente trasformato in un punto di riferimento per calciatori di diverse nazionalità e provenienze geografiche. All’interno di questi spazi e traiettorie emergono in primis le biografie di tanti calciatori siriani, che esclusi dalle leghe ufficiali libanesi trovano il proprio spazio all’interno dei campionati palestinesi. ‹Qui non importa il tuo passaporto – mi dice uno dei dirigenti nazionali all’atto del mio tesseramento – qui conta solo quanto sei capace a giocare a calcio›. Tra di questi Louay, numero 10 dell’Al-Aqsa con cui ho condiviso il campo e la maglia per 2 anni, e che è diventato protagonista di Footballization, il nostro docu-film uscito nelle sale cinematografiche nel 2019. Queste le sue parole:
‹Sono cresciuto nel campo di Yarmouk, vicino a Damasco. L’unica cosa che ogni bambino nel campo ha in mente è il calcio…avevo 12-13 anni e andavo nei campi da calcio e giocavo con quelli più grandi. Io sono un malato di calcio…tutta la mia vita è il calcio. O giocavo, o lo guardavo o tifavo: in Siria tutta la mia vita è stata più o meno il calcio. Quando sono cresciuto ho iniziato a giocare con la squadra Al Majeed, in Siria: ci ho giocato poco più di un anno e poi sono andato nell’ esercito. Tutti i ragazzi di diciotto anni in Siria devono andare a fare i soldati: per circa due anni io ho fatto 1 anno e 8 mesi. Quando ho finito il militare sono iniziati i problemi in Siria, non tirava una buona aria in Siria, e ho deciso di andarmene per venire qui in Libano. All’Al-Aqsa sono da due anni e mezzo, ho iniziato a giocare titolare e migliorare fino a quando sono diventato il numero 10. A 27 anni mi chiedo quanti anni potrei ancora giocare, ma il problema vero è quello dei miei documenti.›
Nell’estate del 2016, mentre io comodamente raggiungevo l’Italia in aereo per tornare a casa, Louay ha provato a raggiungere l’Europa attraverso le precarie traiettorie migratorie percorse da milioni di rifugiati per raggiungere il sogno di diventare un calciatore. Ancora prima di giungere in Libia e tentare la traversata del Mediterraneo, viene arrestato in Turchia, deportato in Siria da cui miracolosamente è riuscito a fuggire per trovare ancora una volta riparo in Libano. ‹Louay è fatto così, se potrà rifarlo lo farà sicuramente› ci racconta l’amico e compagno di squadra Yazan. Ed infatti qualche anno dopo ci ha riprovato, perdendo la vita in Grecia durante il viaggio verso l’Europa del Nord nel novembre 2021.
Una maglia numero 10 continua a sventolare nei campi di Beirut, a chiedere giustizia per Louay e i milioni di Louay in giro per il mondo.