NET06 ECOLOGIE, #6 / E03

Green gastronomico

Purché ‹verdeggi› ogni concept è buono. Con un po’ di retorica ecologica ogni operazione commerciale acquista sapore e la natura è l’ultimo rifugio della speculazione. Ma non basta infilare un albero in un blocco cucina o sui balconi di un grattacielo di lusso. Tanto meno usare le fioriere per delimitare zone rosse o spazi riservati al “decoro” urbano e al consumo

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La cucina è la casa per metonimia. Niente di meglio per simboleggiare l’intimità domestica nel suo confronto con il mondo circostante e la natura. Nel celebrato libro dedicato da Emanuele Coccia alla Filosofia della casa la cucina è addirittura la palestra della mescolanza, in cui le frontiere fra le cose e le persone sono sospese e l’opposizione fra umano e non umani viene capovolta in una fusione festosa, il luogo dove coltello e frullatore elaborano la materia come cibo e la predispongono all’assimilazione. Immagine suggestiva, anche se lo è dal punto di vista degli umani, del coltello e del frullatore, un po’ meno dal punto di vista delle carote, dei vitelli e dei maiali. Ma suvvia, non facciamo i vegani.

A volte, però, con la funzione ecologica dell’oîkos si rischia di esagerare – si tratti di boschi verticali che addolciscono l’espansione urbana (ma non il livello degli affitti) a Isola o di blocchi cucina sul tipo proposto da Aran cucine (sempre progettati da Stefano Boeri e presentati al Supersalone 2021 di Milano, curato dal medesimo e definito dal Foglio emirato di Boeri). Questo  concept non solo abitativo, ma anche sociale e culturale prevede legni di recupero da originali briccole veneziane, finiture in rovere ossidato, verniciatura senza emissione di SOV, tutto orientato verso un rapporto sano e soprattutto reciproco tra uomo e ambiente, che garantisce non solo la sopravvivenza del pianeta, ma anche benefici psicologici che influiscono positivamente sull’esistenza delle persone. Il progetto prevede al centro dell’isola-cucina uno scomodissimo alberello di limone, fornito beninteso di irrigazione automatica: seguendo il principio della circolarità, si ruota intorno alla cellula free-standing e man mano si realizzano tutte le fasi di trattamento del cibo, dalla conservazione alla preparazione, fino al consumo e al riciclo. L’albero, oltre a farsi allegoria della natura, è il luogo intorno al quale radunarsi, confrontarsi, crescere, che crescerà e cambierà esso stesso, come una famiglia, fino a trasformare la cucina seguendo il dinamismo delle relazioni intrecciate al di sotto dei suoi rami. (Per testi e indispensabili foto vedi qui.)

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My God, bisogna avere un cuore di pietra per non mettersi a strillare che l’ecologia senza lotta di classe è giardinaggio. O arredamento green.

L’uso domestico delle piante (sull’intero grattacielo o nella singola cucina) allude a una domesticazione miniaturizzata dalla natura nella singola casa, mentre un tempo si compiva a livello di parco urbano (il Central Park di Olmsted o le Buttes-Chaumont di Alphand), che conservava un tratto selvaggio e inassimilabile, interagendo con le città e le loro mitologie. In questo senso si iscrive perfettamente nella tendenza – illustrata nel citato libro di Coccia – a trasferire la relazione con il mondo dal pubblico-urbano all’intimità domestica. La miniaturizzazione spinta e la confluenza nel familiare ricostituiscono l’intérieur borghese ottocentesco, l’astuccio dell’anima. L’ideologia delle torri – quelle di lusso come il bosco verticale e le loro sciagurate imitazioni wannabe e altamente combustibili (a Londra come a Milano) – implica, come espone lucidamente Christian Novak in un’intervista recente a Vita.it, l’inserimento fuori scala del grattacielo su un contesto spaziale pubblico molto debole e slegato nell’attacco a terra, senza relazione con il quartiere e con la città, spesso sostituendo una monofunzionalità abitativa futura a quella produttiva ormai dismessa del passato.

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La vita (e ora il lavoro, con lo smart working) si concentra nella torre, a scapito del vivere la città, e dunque la si vende esaltando l’arredamento interno, le piante, i panorami più o meno truccati contemplabili dall’attico (e soltanto da esso). Il rendering promozionale insiste sull’immaginario di un abitare elitario nel benessere, tranquillità, luminosità e rilassatezza (ovviamente del tutto illusorio e illusionistico, dato che molte di queste torri sono ubicate in zone tutt’altro che pregiate e accoglienti), caratterizzato da un arredamento esclusivo, grandi divani, immense vetrate – e naturalmente cucine come quella da cui siamo partiti. Si spaccia la torre per avamposto di una periferia da gentrificare, ma l’operazione ha esiti spesso dubbi, perché non tutti i territori ambiti dalla speculazione immobiliare hanno le qualità adatte per attrarre flussi di prosumer e stuoli di hipster solvibili. La vezzosa torre di Isola è pronta a degenerare nel condominio di Ballard, basta uno spocchioso rivestimento non ignifugo…

In questo quadro specifico la natura bonsaizzata è pure parodiata.

L’utopia riformista morrisiana della città-giardino era un gigante sulle cui spalle si inerpicano faticosamente gli gnomi della transizione ecologica mistificata, dell’opportunità-privilegio di vivere nel verde, come recitano cantori ispirati, palazzinari antichi e sviluppatori post-moderni. Se assumiamo che esistano solo lə individuə con i loro bisogni e consumi e non la società, la stessa natura diventa esperienza privilegiata di chi se la può permettere e ne risulta una natura contraffatta, invetrinata o ingabbiata come le fiere allo zoo. Fuori dello scrigno rimangono solo le potenze naturali elementari e distruttive – roghi, uragani, inondazioni e siccità, tutti i prodotti dello sconvolgimento climatico. Lo spillover si vendica nel medio periodo dell’ossessione cosmetica.

Non sempre abbiamo un’ecologia dichiaratamente ostile, che colloca fioriere per blindare, con limoni di plastica, una zona rossa (Genova 2001) oppure, oggi, per delimitare aree privatizzate per il consumo (i malefici dehors post-covid) o per impedire allə migrantə di accamparsi fuori della stazione Tiburtina.

Abbiamo anche un’ecologia friendly, che pretende di rendere compatibile, senza estremismi, la vita di ogni giorno con la natura e l’ambiente. Intenzione non maligna in sé, ma del tutto illusoria,

perché individualizza e mercifica un progetto comunitario: un po’ come combattere il riscaldamento globale potenziando il proprio impianto di condizionamento e scaricando aria calda sullə vicinə meno abbienti. La banalizzazione del discorso ecologico fino alla caricatura è il risvolto superficiale del difetto di fondo: il concepire il rapporto con la natura in termini irenici, senza che vengano alla luce le relazioni conflittuali interne alla specie umana e che si scaricano rovinosamente sull’ambiente. Il giardinaggio e il culto invasivo del design si traducono allora in abbellimento delle catene con ghirlande di fiori affinché le persone amino la loro servitù, secondo un’immagine che risale al primo e diffamato Discorso di J.-J. Rousseau. L’insistenza sulla dimensione estetica non è soltanto organica alla funzione pubblicitaria dell’offerta abitativa ma sostituisce il ben più gravoso impegno a ridurre il consumo di suolo, di acqua, di energie fossili, a riorganizzare la produzione e la logistica per arrestare o rallentare la catastrofe. L’edonismo verde di massa trionfa in misura inversa allo sviluppo di energie alternative, lo slow food acquieta stomaco e coscienza di chi chiude gli occhi di fronte agli orrori dell’allevamento intensivo e delle monoculture agricole.

L’estetizzazione dell’ecologia, come un tempo quella della politica, sa di fascismo. Non meraviglia, se si tiene conto del nesso fra l’offerta di sensazioni di vita autentica a prezzi fuori mercato e le dinamiche della rendita fondiaria, che inquinano ogni dimensione poetica dell’abitare – pur evocata a profusione. Ogni innocente esplorazione nella variopinta offerta di prodotti e architetture ecologiche ce lo ricorda con urticante evidenza. Nel mondo dell’estrattivismo dipinto di verde, abiteremo solo la catastrofe.