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Hong kong e l’albero di meloni di huangtai
A Hong Kong la polizia ha sparato al petto di un manifestante: nel linguaggio criptico con cui da millenni in cina ci si rivolge a chi comanda, si potrebbe dire che è stato colto un altro melone dall’albero di Huangtai.
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Quanti e quali sono i meloni di Huangtai rimasti e perché è meglio smettere di coglierli?
Ieri, 1 ottobre 2019, a Hong Kong un poliziotto ha sparato al petto di un manifestante 18enne. Nel linguaggio criptico con cui da millenni in cina ci si rivolge a chi comanda, si potrebbe dire che è stato colto un altro melone dall’albero di Huangtai, esasperando una situazione di forte conflitto sociale. Eppure, vedere Carrie Lam, il capo esecutivo di hong kong, confermare in diretta tv qualche settimana fa il ritiro definitivo del provvedimento di estradizione che costituisce uno dei punti fondamentali richiesti dai dimostranti hongkonghesi fa riflettere sulla complessità delle tensioni e la portata della posta in gioco di quello che sta succedendo in questi mesi tra hong kong e pechino. Fa riflettere anche il linguaggio strettamente istituzionale utilizzato dalla chief officer nel tentativo di rassicurare la popolazione riguardo alla “rule of law”, garanzia fondamentale del paradigma “un paese due sistemi” che ha retto finora le relazioni tra le due complesse realtà asiatiche.
Questa decisione, sicuramente influenzata dalla pressione delle settimane di manifestazioni, si può leggere come conseguenza esplicita del pragmatismo di fondo che spinge gli interessi di pechino e hong kong a convergere diplomaticamente sugli equilibri economici e finanziari in gioco che, se non rispettati, potrebbero innescare situazioni altamente imprevedibili e pericolose per la stabilità interna non solo dell’ex colonia britannica, ma anche della cina stessa.
Li Ka Shin, miliardario e uomo simbolo di quella generazione che rappresenta la prima identità hongkonghese forgiata sul retaggio coloniale britannico, ha pagato due pagine di giornale per prendere posizione sulla situazione. Con una citazione poetica di un racconto della dinastia Tang ha usato quello stile tipico, ellittico e ambiguo, con cui in conversazione, in letteratura, in poesia e in diplomazia da millenni in cina ci si rivolge al potere nei momenti di crisi:
“l’albero di meloni di Huangtai non è in grado di sopportare ulteriori raccolte.”
Significa che la sofferenza e la tensione di qualcosa si sono talmente esacerbate che un’ulteriore insistenza la rovinerebbe per sempre. Bisognerebbe quindi cedere, come infatti è stata costretta a fare pechino, perlomeno fino a ieri.
È difficile dire quanto la scelta di esprimersi pubblicamente fatta da Li ka Shin abbia influito sul compromesso parziale a cui si è giunti, il ritiro dell’extradiction bill. In fondo, appena dopo l’elezione di Xi, a seguito di un incontro a porte chiuse con lui e assieme a una delegazione di altri miliardari, Li Ka Shin aveva spostato il cuore dei propri assets da hong kong in europa e a singapore. Ma è certo che abbia avuto un ruolo nel definire precisamente la situazione e le sue tempistiche, chiarendo agli alti livelli del potere politico e finanziario di entrambe le parti che il punto di non ritorno era vicinissimo e che senza un compromesso le conseguenze sarebbero potute essere irreparabili.
Dall’avvenuto passaggio di consegne di HK alla cina, nel 1997, dietro la promessa di mantenere il principio di “uno stato due sistemi”, si delinea la prima fondamentale contraddizione tra le due entità: per HK l’enfasi è sul “due sistemi”, cioè su quanto dell’amministrazione hongkonghese possa rimanere dopo la transizione e su quali regole possano garantire che il passaggio sia il più morbido e graduale possibile, mentre per la cina ovviamente l’accento è su “uno stato” e sulla neanche troppo nascosta strategia di pechino di erodere un 2% di libertà all’anno nel cammino verso l’inclusione completa. È interessante come questa quantità sia stata quantificata più o meno informalmente in percentuale: intrusione capillare e continua di teste di ponte legate a pechino nei vari settori dell’economia, della cultura, della comunicazione…
Questa differenza ha sempre impedito e impedisce tuttora che si possano definire parametri comuni e soddisfacenti secondo una “rule of law” o tantomeno un’ideologia condivisa. Infatti la mainland di Xi Jingping non cerca di sicuro la democrazia, come non la cercava la pur diversa e precedente di Hu Jingtao, né quella prima ancora di Deng, mentre hong kong ha vissuto in un regime democratico rappresentativo, (che non è disposta a perdere), in cui le nuove generazioni di giovani attivisti e parte della popolazione attiva chiedono insistentemente un’ulteriore transizione verso il suffragio universale.
La sfiducia reciproca delle due parti non poteva e non può che continuare a crescere, fino al proiettile sparato ieri, e oltre.
Per questo l’equilibrio e l’interesse comune che hanno portato al ritiro della proposta di legge sono stati negoziati su un altro livello, che è appunto quello economico, in cui il gesto del miliardario simbolo di hong kong ha avuto un peso nel ricordare a pechino che per ora il “due sistemi” è ancora più importante di “uno stato”, perché la sua utilità per la cina è ancora cruciale e insostituibile.
Hong kong in quanto hub finanziario costituisce il ponte e il garante economico tra la cina e il resto dell’asia e del mondo, e permette all’economia cinese, facilitandone la flessibilità e traducendone i meccanismi, di regolare in maniera fondamentale l’equilibrio dei flussi interni e esterni di capitali, degli investimenti e dei processi imprenditoriali caratterizzati dalla tipica ambiguità made in china tra pubblico e privato, dalla infinita complicatezza burocratica e dall’opacità dei processi.
Se HK dovesse perdere in seguito a un avvenimento violento o comunque di rottura questo delicatissimo ruolo economico, indipendentemente che ciò avvenga in seguito all’agire dei giovani studenti e degli attivisti radicali che auspicano una profonda trasformazione socio-politica, o a causa di un intervento militare di pechino per sopprimere le dimostrazioni con la forza, il danno reale e simbolico avrebbe importanti ripercussioni destabilizzanti a livello locale e globale.
Per la propria auto-conservazione, pechino deve mantenere il “due sistemi” di HK visto che senza questa efficacissima valvola finanziaria diventerebbe impossibile cercare di sostenere l’incredibile accelerazione/compensazione economica interna necessaria per l’implementazione del progetto di governo a lungo termine.
La cina di Xi Jingping
Nella madre patria di Xi Jingping, esperimento tecno-distopico sempre più estremo di capitalismo autoritario e ideologia post-ideologica, già da tempo nelle città di primo e secondo livello la “engineered new middle class” ha raggiunto un livello di vita materiale sufficiente a innescare nuove versioni di eccessi edo-narcisisti di un consumismo concepito come compensazione/rimozione di profondi traumi collettivi.
Siamo di fronte al “to be rich is glorious” di Deng, ma negoziato dopo i fatti di Tien An Men.
Una coazione all’acquisto e al possesso che normalizza atteggiamenti di difesa, alienazione, competizione e frammentazione tra persone, generazioni e classi sociali, smaterializzando sul nascere ogni potenziale impulso organizzativo socio-politico critico, o cercando di sostituirlo con un neo-nazionalismo postcoloniale che promette rivincite sull’occidente e su tutti gli oppressori del passato.
Lontano dal trittico ricchezza-sviluppo-controllo esibiti in versione steroidea, tra i gruppi sociali in difficoltà, come i lavoratori migranti e i piccoli imprenditori urbani e suburbani, e nelle zone rurali, così come nelle città di terzo livello, crescono sempre più la tensione e il malcontento di fronte alle disuguaglianze costantemente generate da questi processi. Eppure queste fasce sociali sono state così vitali e fondamentali per costruire le pechino, le shanghai, le hangzhou, le chongqing, mentre ora sono scacciate da centro e periferie in quanto “low-end population” che disturba esteticamente e simbolicamente l’immagine del chinese dream.
Allo stesso tempo negli ambienti intellettuali e progressisti delle élites, nelle università, o tra gli ex funzionari in pensione, si levano, anche se in numero limitato, le voci che non rinunciano a far presente al nuovo timoniere gli eccessi della deriva autoritaria e l’ineguaglianza vertiginosa create dall’aristocrazia dei principi rossi (la classe dirigente composta dai discendenti di chi era accanto a Mao durante la lunga marcia). Queste voci vincono la paura delle conseguenze personali perché si sta creando nella percezione collettiva un sentimento di dissociazione che produce molta insicurezza. Infatti presi dalla disillusione nei confronti dei princìpi socialisti su cui il governo di Xi continua a insistere in politica interna e dalla paura delle campagne anticorruzione lanciate nei confronti di tutti gli strati sociali, molti hanno iniziato a sentire l’eco psicotica di un nuovo clima da pre-rivoluzione culturale.
In qualche caso, come nell’episodio dei giovani studenti marxisti di tsinghua arrestati e tartassati per aver messo in pratica gli insegnamenti ricevuti, cioè andando a occuparsi dei diritti dei lavoratori delle fabbriche nel guandong e nel zhezhang, il livello di contraddizione reale e simbolica raggiunto diventa così vertiginoso (anche per l’osservatore) da generare il sentimento che i livelli di dissociazione necessari anche solo per esistere in una realtà così siano al limite della soglia di resilienza della psiche umana.
Ora, è difficile capire bene quale sia la visione a lungo termine di Xi Jingping: i sostenitori lo ritengono capace di essere il leader ideologo e pragmatico che sta forgiando un modello per l’umanità alternativo a quello occidentale, mentre i denigratori lo considerano solo un nuovo dittatore senza scrupoli con mire espansionistiche.
In entrambi i casi il “ridurre” la cina, il PCC e Xi Jingping a formule così semplicistiche e binarie dimostra scarsa comprensione e mancanza di accuratezza.
E anche se non si può pretendere che tutti siano sinologi, basta osservare l’impatto mondiale che la cina ha avuto tramite due elementi fondamentali che da soli impediscono previsioni dualistiche e irreversibili: la dimensione e la velocità di reazione di tutti i processi in atto che si manifestano con una massa e un’intensità di scala esponenziali e che possono cambiare o invertire direzione con una rapidità sorprendente. Ne è un esempio ciò che è accaduto a partire dal 2007/2008, quando la crescita della cina contribuì a tamponare parzialmente gli effetti della crisi finanziaria mondiale, in qualche modo “salvando” il capitalismo attraverso un enorme investimento delle infrastrutture e utilizzando in meno di 5 anni più cemento degli stati uniti in vari decenni. Un altro esempio riguarda i miglioramenti sorprendenti sulla riduzione dell’inquinamento atmosferico e le contraddizioni: la cina è allo stesso tempo un dei paesi con i livelli più elevati di inquinamento, ma allo stesso tempi ha anche il primato mondiale degli investimenti nelle energie alternative. Ultimo esempio di queste improvvise accelerazioni è dato dall’eccellenza mondiale nei nuovi settori legati a internet: oggetti comunicanti, e-commerce, nanotecnologia, big data e AI ottenute con compagnie che spesso hanno meno di dieci anni di vita.
La situazione attuale del governo di Xi Jingping può riassumersi così: vuole dimostrare la capacità e la determinazione di gestire una crescita economica che deve rallentare, ma non può rallentare troppo e nemmeno accelerare come prima, tenendo a bada i nuovi ricchi senza disconnettersi dalle masse, costruendo letteralmente una nuova classe medio-alta che spinga i consumi interni e trasformi rapidamente la fabbrica del mondo in un centro di innovazione, infrastrutture e servizi, mentre si perseguono ambiziose strategie (come la nuova via della seta) sullo scacchiere internazionale. Tutto questo azzerando in maniera draconiana ogni rischio di potenziale sovversione e ogni fonte di instabilità sociale.
Questo piano dipende in maniera fondamentale dall’efficacia, dalla precisione e dall’equilibrio dei sistemi di regolazione tra interno e esterno, in cui i complessi servizi finanziari-ponte di HK sono insostituibili per ora. In fondo la dichiarazione pubblica di Carrie Lam ci dice che per pechino il ruolo di HK sullo scacchiere economico è così determinante che è possibile fare concessioni politiche purché quell’aspetto non sia a rischio.
I movimenti a hong kong
In tutto questo finora non ho ancora speso una parola nei confronti degli studenti e di tutti i vari gruppi radicali che hanno partecipato al fronte delle dimostrazioni ininterrotte, perché volendo sottolinearne e rispettarne il grande coraggio, gli intenti, la grande energia, la capacità di organizzazione e l’ostinata abnegazione, mi auguro che per quanto fragile sia la loro condizione al momento attuale, siano in grado di cogliere in ciò che è avvenuto l’opportunità per trasformare il loro “essere acqua” da una strategia raffinata di ingaggio e difesa nei confronti delle autorità interne e esterne, a un progetto di irrigazione dei vari strati sociali della città da cui hanno ricevuto sostegno e partecipazione spontanea.
Si è letto molto sugli attivisti giovani, resilienti, con un alto livello di istruzione e un coraggio da martiri, ma anche in questo contesto lo scenario è tutt’altro che omologato e si declina in visioni, intenti, motivazioni e spinte molto diverse tra loro.
Si va dai leader più mediatici dei partiti democratici di ispirazione occidentale (supportati dal NED e dalle altre varie istituzioni e organizzazioni socio-culturali-schermo dei servizi americani e occidentali che validano almeno in parte, la solita rivendicazione della “colour revolution” da parte della cina), ai gruppi indipendenti e anarchici di persone provenienti dalle arti e dalle scienze sociali, umane e del diritto, la cui coscienza è critica sia nei confronti dell’influenza di pechino, sia di quella filo-occidentale e anche di quella “identità” hongkonghese dei Li Ka Shin (che, se aveva rappresentato un’oasi per le generazioni precedenti, ha però finito col consegnare la città all’1% dei campioni del neoliberismo), per poi passare ai sindacati dei lavoratori, ai funzionari civili, agli accademici e ai liberi professionisti delle classi popolari, traditi dalla promessa dell’ascensore sociale ormai inceppato, senza dimenticare anche una fazione di nazionalisti, xenofobi e conservatori.
Se la mia interpretazione degli avvenimenti ha senso,
le azioni spontanee di questi gruppi diversi sono state strumentali nel rivelare che la dipendenza economica di pechino da HK è ancora prioritaria
e che per il momento lo è al livello di spingere pechino a concessioni politiche che però non sono state negoziate o veramente legittimate a livello popolare.
Nel compromesso si legge un ritrovato equilibrio di interessi nel rallentamento e nella moderazione del processo di integrazione di hong kong che potrebbe semplicemente significare un accordo a alto livello secondo cui verrebbero garantiti ai ceti più abbienti i tempi e le modalità del subentro per gestire e organizzare la transizione dei loro assets e dei loro interessi, in cambio della continuità dell’hub finanziario nel sostenere quel ruolo che la cina non può rimpiazzare.
In questo contesto, il capro espiatorio per l’accordo potrebbero diventare proprio i movimenti giovanili e della gente comune
che col loro desiderio di non accettare né pechino, né l’hub finanziario neoliberal, e con l’intenzione di inventare un futuro e un’identità diversi per hong kong, rappresentano un problema sia per pechino che per le élites finanziarie della ex colonia e internazionali. Ciò che è accaduto ieri, con il fuoco della polizia sui manifestanti, sembra confermare questa analisi.
Facendo leva sul radicalismo di propositi e a volte di azioni, e con varie tattiche di infiltrazione e provocazione, quei gruppi potrebbero essere isolati col tempo e poi purgati in maniera chirurgica allontanandoli da quel supporto popolare moderato che sono invece riusciti a movimentare fin qui.
Ecco allora che il tempo guadagnato con il ritiro della proposta di legge negoziata dai poteri forti, diventa il tempo tattico di diventare acqua per scorrere e irrorare gli strati più diversi della popolazione
con cui trovare un’eco più profonda e una volontà condivisa che sedimentino questo legame nato da una forte spontaneità e sappiano trasformarla, in modo fluido, in un senso comune di appartenenza e di intenti.
Il cuore filosofico-strategico del binomio pensiero-azione cinese si basa sul non interrompere il fluire delle cose
e l’assecondare la tendenza della situazione e delle forze in gioco, cercando di cogliere le variazioni di equilibri asimmetrici che appaiono dalle contraddizioni in atto e che diventano “portanti”. La contraddizione in sé non è una situazione da “risolvere”, ma una delle manifestazioni dello stato degli eventi. Per quanto scontato possa apparire, dagli Yi Jing, a “L’arte della guerra di Sun Tzu” al trattato di Mao “Della pratica e della contraddizione” (da cui nacquero le incompatibilità definitive con Stalin che rifiutava completamente questa nozione come parte del suo socialismo reale), sono l’attenzione alla tendenza della situazione e la capacità di fluire all’interno della contraddizioni a permettere di moltiplicare gli scenari possibili di una tensione e di un conflitto.
Dopo gli ultimi sviluppi, a hong kong si è creato un territorio nuovo, incerto e fragile, in cui i valori, i desideri e le paure di generazioni differenti possono continuare a rimanere separate pur difendendo la stessa causa, ma potrebbero convergere in una risonanza contagiosa capace di spostare la negoziazione con forze, in apparenza insormontabili, a un ulteriore livello di influenza in cui si generi un’altra apertura. Forse, continuare la raccolta dei meloni dall’albero di Huangtai, per quanto pericoloso possa essere, porterà a scenari per ora inimmaginabili.
Staremo a vedere.