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Il re è nudo, di nuovo.

La pandemia ci sta insegnando che abbiamo bisogno di un nuovo modo di vivere in comunità. È tempo di prendere in mano il nostro destino, nulla sarà più come prima.

Il re è nudo, di nuovo.

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La presunzione di una struttura economica antropocentrica, convinta di poter pilotare la natura e dare una direzione alla storia, con le sue previsioni di crescita, tutta gonfia e rivolta all’azione, al proattivismo, si palesa incompatibile con la fragilità dell’esistenza dell’essere umano. Nella crisi epidemica, si torna all’essenziale. Di fronte alla paura si sgretola l’artificio della quotidianità frenetica e globalizzata. E allora anche i più radicali evangelisti delle retoriche di matrice anglosassone, del liberissimo mercato, dell’efficienza ingegneristica applicata a ogni aspetto della vita, del tecno-utopismo e della previsione statistica, invocano una sorta di stato-provvidenza che si faccia carico di tutti i bisogni dei cittadini. La società occidentale individualista e privatizzata frena, si arresta e s’ingolfa di fronte al Cigno Nero.

In tal senso, Il Covid-19 è una livella: torna la consapevolezza di un’esistenza effimera ‹da la quale nullu homo vivente pò scappare›, neanche i celebrati ‹meritevoli› e ‹performanti› sulla quale retorica abbiamo costruito delle società ingiuste e discriminatorie. 

Il Re è di nuovo nudo e i paradossi delle disuguaglianze, dei privilegi di classe, diventano dei macigni insostenibili. In un giro d’orologio quegli imperativi dell’economia che abbiamo voluto credere inderogabili lasciano il timone e la politica (in senso lato, ‹il governo pubblico›), torna a tracciare la rotta nella tempesta. Persino sulle pagine del Financial Times, si è lasciato spazio – nello stupore generale – a economisti eterodossi che chiedono salute e protezione universale, di fronte alla malattia e di fronte al catastrofico scenario economico che si prospetta. 

L’apologia del merito – perno attorno al quale abbiamo deciso di organizzare la distribuzione delle ricchezze, sostenendo, anche davanti alle evidenze scientifiche che la negavano, l’esistenza di una linea di partenza, più o meno aggiustabile, ma più o meno uguale per tutti –,

questa apologia del merito si conferma merce dozzinale di fronte all’immagine di un anziano senzatetto dimenticato sulle strade vuote

così come di fronte ai racconti di confinamento in metrature disumane, alle testimonianze di lavoratori con alto rischio di contagio privi delle adeguate tutele. E se quanto detto sembra scontato per i più sensibili e attenti alle cause di giustizia sociale ai quali basta sfogliare quotidianamente le pagine di cronaca per simpatizzare con gli ultimi e gli oppressi, l’epidemia deve essere l’occasione per affrontare di nuovo sul serio la questione delle disuguaglianze, prendere coscienza della propria situazione e collocarsi all’interno di queste, al fine di generare occasioni di dibattito di dominio della sfera pubblica. È lecito pensare che lo zeitgeist sia favorevole per tornare a interpretare la storia con gli occhi del conflitto di classe, anche quando lo stato di apprensione e il rallentamento svaniranno e torneremo a alienarci nelle nostre routine e nel consumismo.

È difficile immaginare quello che verrà dopo. Ci aspetta un cambiamento epocale. Che investe lo stesso senso comune. È necessario attrezzarsi per interpretarlo. In questo senso l’ottimismo di alcuni intellettuali, per antonomasia tra i meno speranzosi, è contagioso: Bifo Berardi crede in una ricostruzione basata sulla solidarietà e l’uguaglianza; secondo David Harvey saremmo di fronte alla fine del neoliberismo; per Žižek, invece, il Covid-19 è la morte del capitalismo.

Si dovrebbe ricominciare dalle basi. Secondo un aneddoto, l’antropologa Margaret Mead avrebbe risposto a un suo studente che il reperto che simboleggia lo sviluppo di una prima forma di civiltà è un femore spezzato, poi guarito. La comunità si è fermata e ha protetto il suo membro in difficoltà finché non fosse di nuovo in grado di riprendere la marcia;

l’umanità diventa civile quando inizia a prendersi cura degli altri. L’assistenza sanitaria universalistica è l’esaltazione di questo postulato.

Non è allora emblematico aver deciso di colpire duramente con 30 anni di politiche neoliberiste la sanità nazionale, ovvero quanto di più civile eravamo riusciti a costruire? In nome di cosa? Di un paradigma economico, sociale e culturale che non ci appartiene? La pandemia è rivelatoria: quel capitalismo anglosassone soffocato dalle stesse misure sadiche di performance e di efficienza che contribuisce a creare, non è compatibile con la nostra morale. Lo abbiamo perseguito perché abbindolati dal comfort, dall’astrazione, dalla retorica dei ‹nuovi bisogni› della modernità e dal mito della disruption: ma per farlo ci siamo dimenticati dei pilastri fondamentali della civiltà.

È il momento di ricalibrare i modelli economici su criteri di sostenibilità sociale e ecologica, e di spostare in secondo piano quelli del capitale e della finanza. A questo proposito, altra colonna portante della civiltà da ristrutturare: il lavoro

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In linea con gli obiettivi di flessibilità strategica delle corporations e le loro pressioni sul decisore pubblico, abbiamo assistito alla precarizzazione di quei milioni di lavoratori sulle quali spalle (si badi bene, non su quelle dei loro CEO, pagati in proporzione fino a 400 volte in più) oggi grava il sostentamento delle migliaia di famiglie confinate. Siamo ancora sicuri che quello delle capacità individuali sia il metro più giusto per definire la natura dei contratti di lavoro e l’ammontare delle retribuzioni?

Di quante altre crisi e pandemie avremo bisogno per realizzare che ogni lavoro è degno allo stesso modo?

Di quante pandemie avremo bisogno per capire che che non esistono artifici tali da giustificare retribuzioni infinitamente superiori? Che la pandemia ci aiuti a realizzare che anche la possibilità di cambiare carriera, di surfare l’instabilità del mercato del lavoro in una sfida con il proprio ego, è privilegio di classe? Non per tutti può essere ‹noioso› avere e conservare un posto fisso.

Sarebbe bello se alla fine di tutto questo, ardesse la voglia da tempo assopita di costruire una società di cui poter vantare la capacità di protezione delle sue classi meno fortunate, di poter predisporre le istituzioni e i meccanismi necessari per esaltare i suoi talenti in maniera tale che questi contribuiscano al benessere del resto della comunità, di offrire un’esistenza degna e sicura a tutti i suoi membri, in ogni crisi e situazione, senza distinzioni alcune.

Simili paragrafi, pregni di desiderio, appesantiscono impolverati gli scaffali di archivi e biblioteche, perché dopo guerre e pestilenze, altre generazioni hanno condiviso la speranza che il momento storico che si trovavano a vivere fosse quello giusto per una svolta verso un mondo migliore, fatto di solidarietà sociale e equità. Sarà nostro dovere anche questa volta tentare di dargli un senso e progettare soluzioni adeguate.  

Siamo tutti meritevoli di un tetto, di una razione di cibo, di protezione e accesso alle cure sanitarie. Perché siamo umani, perché siamo nati. Che l’epidemia ci aiuti a capirlo.