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Succede, di fronte a traumi collettivi come le stragi mafiose del ’92, che categorie di interpretazione della realtà saltino per aria, insieme alle certezze abituali, come l’asfalto il 23 maggio sull’autostrada in prossimità di Capaci, e 57 giorni dopo in via D’Amelio. Il mondo è crollato.
Rimane un’enorme crepa davanti alla quale sostare per poi proseguire nel percorso già tracciato, o cascarci dentro presi dal panico. Ma si può anche operare una svolta e inventarsi nuove modalità per ‹vivere nelle rovine del capitalismo›[1].
Break Trough ‹La caduta di un mondo› – letteralmente lo ‹squarcio› ma anche la ‹svolta› – è il titolo dell’opera di Thomas Hirschhorn, rappresentata dal rovinoso crollo di un soffitto, esposta alla mostra CRAZY La follia nell’arte contemporanea[2]. Dalla crepa rappresentata sul tetto piuttosto che sul pavimento, fuoriescono i fragili fili, ma fuoriesce anche l’impensabile, ciò che ancora non esiste nella dimensione del reale, e che perturba. Il curatore, Danilo Eccher, ha definito CRAZY una ‹scrittura al neon›, contaminante, in grado di creare un cortocircuito. Non è altro che un invito al pubblico a mettersi in gioco, a tentare una diversa lettura della realtà aperta all’imprevisto.
‹Crepa›, ‹Perturbante›, ‹Mettersi in gioco›, ‹Contaminazione› tra mondi apparentemente inconciliabili, sono alcune delle parole chiave che compaiono nei pannelli espositivi come coordinate per seguire il percorso della mostra. Sono le stesse seguite da me e Alessandra Dino nel tentativo di decostruire il pensiero binario dell’antimafia – O con la mafia o con lo Stato – nella cura del testo Che c’entriamo noi con la mafia. Racconti di Donne, Mafie, Contaminazioni [3]. In altri termini si tratta della ricerca di uno spazio condiviso di indipendenza simbolica dalle narrazioni egemoniche sulle mafie e di creazione di pratiche di resistenza inedite.
‹Contagio, Infezione, Distanza/Vicinanza, Vulnerabilità, Ambivalenza› sono le altre coordinate emerse dalle diciotto storie che compongono il testo, scritte da autrici di diversa provenienza geografica e professionale: giornaliste, scrittrici, critiche letterarie, docenti, attiviste femministe. Parole non più astratte ma sperimentate nell’intimo durante l’isolamento della pandemia che ha fatto da cornice alla scrittura del testo, confermando come ogni idea di purezza, di protezione, di immunità dal virus salti per aria esponendoci gli uni agli altri, ‹l’uno la posta in gioco dell’altro›. Invischiati nel mondo (infetto) che cerchiamo di cambiare al punto che finiamo per riprodurre gli stessi comportamenti che combattiamo.
‹Una progettualità diversa contro le mafie deve porsi il problema della vicinanza con questi mondi, non della diversità ontologica. Una riflessione difficile, e ancora in itinere. Seppur consapevole che il parallelismo tra i due mondi possa non fare piacere, mi stupisco di chi non riesce a vedere la contaminazione e l’infezione che hanno permesso a fenomeni arcaici di transitare nella sempre più complessa modernità›. Lo scrive la magistrata Franca Imbergamo in un articolo sulla rivista Mezzocielo[4], dopo la prima sentenza sulla trattativa Stato-Mafia, denunciando il continuum tra il sistema-mafia e l’attuale sistema che governa il mondo.
‹Infezione›, ‹Contaminazione›, ‹Ibridazione›, ‹Perturbazione› sono ‹nuovi sentieri inventivi› di un pensiero che nasce in campo scientifico e che Donna Haraway definisce ‹tentacolare›[5], come il procedere laterale del ragno. Figurazione mitica e mimetizzante, misogina, gorgonica, predatoria, multiforme, fornita di tentacoli, a cui una collaboratrice di giustizia paragona la mafia: tentacoli dentro i quali, ‹una volta catturata, più ti agiti e più t’impigli›. In merito le autrici Natoli e Triolo scrivono: ‹La prepotenza mafiosa si rigenera di continuo come i tentacoli della medusa›.
Dov’è il nesso tra Haraway e la collaboratrice di giustizia?
Il pensiero tentacolare, descritto dalla filosofa, è vicino al ‹tastare› e al ‹pensare-sentire›: è un procede per tentativi utilizzando tutti i cinque sensi e coinvolgendo l’inconscio e l’onirico, definito dalla stessa Haraway ‹fibroso›, ‹mostruoso›, ‹vischioso e rischioso›, che erompe dalle profondità buie della terra, e si nutre della forza immaginativa delle storie (non solo umane). Questa nuova narrazione, ben si presta dal mio punto di vista ad esplorare il sistema-mafia descritto da Maria Rosa Cutrufelli come ‹frutto di un’allucinazione collettiva […] un gioco di specchi con le immagini rovesciate che non sono mai dove ti aspetti che siano›[6], e che Dino definisce ‹camaleontico›, ‹in continua trasfigurazione›, aggrovigliato, elusivo, multiforme, cangiante, di certo non esauribile nella questione della giustizia sociale né leggibile solo attraverso categorie economico-giuridiche, com’è tradizione dell’antimafia. Diviene necessario fare i conti con complicità e ambivalenze personali, col rimosso, ‹fantasmi e mostri›, senza fughe in avanti, stando nel groviglio. Inaugurando nuove forme di ‹responso-abilità› che secondo Haraway implicano la capacità di generare risposte ai problemi che incombono nel presente per riparare ai danni dell’Antropocene. Come la collaboratrice di giustizia che da moglie complice di un mafioso reagisce responsabilmente attraverso la presa di parola pubblica – la denuncia – in un universo che vuole le donne mute, immobili e sottomesse. Una mossa, che è anche modalità di sopravvivenza, che provoca un terremoto e apre nel sistema infetto una crepa profonda quanto quella sull’asfalto dell’autostrada in prossimità di Capaci.
Assunzione di responsabilità, Apertura al dubbio, Ascolto, Narrazione, Cura, Empatia, Costruzione di comunità, Memoria attiva, Riconoscimento del dolore dell’altra, Lutto, Sorellanza. Queste sono altre parole chiave emerse dalle storie delle autrici, coordinate utili per orientarci nella creazione di pratiche di lotta all’altezza dei tempi che attraversiamo.
Perché raccontare la mafie attraverso le storie?
Le storie creano mondi, creano immagini, sono multiple, contraddittorie, come i corpi che le abitano; sono amorali, non sono letterali, non dimostrano ma mostrano le mille sfaccettature del sistema-mafia. Un caleidoscopio di esperienze che scompaginano la fissità le certezze di un mondo che va in rovina. Leva politica di un pensiero decolonializzante come esercizio per ‹cambiare le lenti sulla realtà e coglierne complessità e opacità›[7]. Dino li chiama ‹esercizi di avvicinamento e di distanziamento› che richiedono il confronto con l’altro da sé, ‹andare al cuore delle ferite›, senza la pretesa di quadrare il cerchio ma soggiornando dentro le contraddizioni. ‹Mettersi a nudo non è facile. È faticoso ridiscutere i confini e accorgersi degli spazi contaminati nei quali ci muoviamo› scrive Dino in proposito. ‹Non è facile calarsi nel pozzo, fare i conti con l’indicibile e trovare le parole per dirlo›, rilancia Monroy, in quanto ‹Raccontare significa avvicinarsi, e dalla mafia si preferisce stare distanti›, aggiunge Alga.
Scrivere ha comportato da parte delle autrici un continuo riposizionamento alla ricerca della giusta distanza dal pensiero corrente sul sistema-mafia, liberandolo da gabbie binarie, identitarie che rifiutano il rischio della polisemia, dell’incertezza, del fallimento. Un procedere senza bussole di riferimento, convergendo in frammenti di significato. Un con-divenire, ciascuna col suo filo di gomitolo diverso per lunghezza, colore, spessore, ma tutte caparbiamente consapevoli di stare dentro un’unica trama, l’una la posta in gioco dell’altra. Tutte desiderose di mettere dentro ‹la sporta del narratore›[8] qualcosa di personale utile alla composizione di una narrazione inedita, senza eroi o eroine, vinti e vincitori, senza appigli e senza un (lieto) finale, col rischio di precipitare ad ogni pagina nello stereotipo, nel già detto.
Una narrazione che al di là del contenuto nel suo procedere si è rivelata anche un ascoltarsi reciproco, cura di ferite e sito di resistenza, sperimentando su se stesse quanto scrive bell hooks: ‹il punto non è sapere o non sapere raccontare, bensì […] guardare in funzione di un ascolto […]. Non si formano parole né storie, se non dove ci si lascia penetrare dalle parole altrui e le nostre si fanno atto amoroso di restituzione, in un’alternanza ininterrotta e mutevole di posizioni›[9].
È quanto auspico possa provocare la lettura di questo articolo.
[1] A. L. Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, 2021
[2] CRAZY La follia nell’arte contemporanea, Chiostro del Bramante, Roma Febb. 2022/genn. 2023.
[3] Alessandra Dino, Gisella Modica, Che c’entriamo noi con la mafia. Racconti di Donne, Mafie, Contaminazioni, Mimesis/Eterotopie 2022
[4] Che c’entriamo noi, cit. pag. 11
[5] Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019
[6] Maria Rosa Cutrufelli, I bambini della ginestra Frassinelli, 2012, pag. 79 e 91
[7] Rachele Borghi, Decolonialità e Privilegio, Meltemi, 2020
[8] Della ‹Sporta del narratore› di Ursula Le Guin parla Donna Haraway come critica al racconto ‹aggressivo e fallico› dell’eroe, contrapponendo la ‹fabula speculativa (FS)›. ‹L’acronimo FS sta anche per fantascienza, femminismo speculativo […] e fatto scientifico›. In Haraway (2020, pp. 24 e 63-65).
[9] bell hooks, Elogio del margine, Scrivere al buio, edizioni Tamu, 2020 pag. 141