Solidarity Forever

Una lettera a mio fratello sullo sciopero delle università inglesi, a poche ore dal voto in UK.

Solidarity Forever

parole di:

Ciao fratè, 

Sono stanchissimo dopo i dieci giorni di sciopero, e però invece delle telefonate me va de scrivete ‘na lettera pe’ raccontarti che cosa avemo fatto. Però la storia inizia da prima, fai diciotto mesi fa. Era febbraio e c’era la neve e un freddo di quelli che daresti un rene pe’ resta’ a letto. Dopo qualche assemblea sindacale, mi avevano convinto che era solo che giusto scende in piazza pe’ difende lo schema pensionistico dello staff col contratto permanente. La solidarietà è una cosa giusta, e un sistema pensionistico di quel tipo danneggia tutt’il sistema: chi ce verrebbe a lavora’ in un posto co’ ‘sto schema? Ce perderemmo le pensioni nostre de domani, sì, ma pure altri e altre che potrebbero venire qui, magari andranno in Germania o in US. In fondo, il tentativo de elimina’ le defined benefit pensions, ossia uno schema che l’importo pensionistico è conosciuto da subito e dipende da questioni da stipendio, durata del servizio, età, pe’ poi trasformarlo in uno schema di tipo retirement saving plan (cioè che non è definito l’importo pensionistico, ma solo le percentuali che versano il lavoratore e il datore di lavoro). 

Quando sciopera gente che lavora nella conoscenza, i datori di lavoro si trovano a affronta’ una partita a scacchi con una forza-lavoro estremamente istruita

dalle alte capacità creative (ma relative potenzialità conflittuali). L’altra volta siamo riusciti a ottene’ un tavolo tecnico fatto da alcuni de noi e altri scelti da UUK, che ha testimoniato come il cambio nel sistema pensionistico non fosse necessario, e come l’aumento della percentuale contributiva fosse basato solo sul worst case scenario. In altre parole, l’ultima volta avevamo accettato un piano di contrattazione troppo moscio, che ha pure creato un momento di conflitto tra militanti e vertici sindacali, e tra varie branches della UCU. Il risultato è stato insoddisfacente tanto quanto, co’ UUK che ha ignorato il parere del tavolo tecnico e imposto n’altro aumento della percentuale di contribuzione, da 8% a 9,6%). UUK dice di essere un’organizzazione de patrocinio delle università, una roba da neolingua. E però nel pratico alla fine è la stessa roba della conferenza dei rettori, composto dai vice-chancellors delle università inglesi.  

Quello che UUK non ha considerato, diciotto mesi fa, è che uno sciopero, come ogni momento di azione collettiva, è molto più che un’azione di lobbismo pe’ degli interessi particolari. Insomma, ubriachi di quest’ideologia liberale che ha proclamato ‘a fine del conflitto tra capitale e lavoro da quasi quarant’anni (almeno qui nel regno), se so’ dimenticati che there is power in a union. Anche se poi non avemo ancora capito bene come risveja’ le masse, né come ritrovare l’orgojo nostro operaio de lavoratori e lavoratrici della conoscenza (o forse cognitariato? Non è questo il momento della teoria, però, frate’, lascia sta’, ne parliamo un’altra volta), alla fine quando siamo insieme si libera una forza creativa enorme. Te senti meno solo, te senti la solidarietà addosso. E impari ‘na valanga di cose, in piedi in picchetto ar freddo, mentre qualche studente o studentessa solidale porta il tè o ‘n caffè solubile che è veramente ‘na zozzeria, o qualche collega porta li biscotti che ha fatto ‘a sera prima mentre guardava ‘a tivvù. E ‘a solidarietà libera l’ossa dar freddo, e l’ansia dallo spazio della solitudine. Quello che non avevano considerato è che pe’ la prima volta da parecchio tempo stavamo insieme sulle picket lines, dipartimenti diversi, certo, ma soprattutto stadi diversi di carriera. Una roba che confonde le gerarchie, pe’ ‘na volta. 

Insomma, non avevano previsto che dai picchetti di diciotto mesi fa sarebbe nata una campagna forte, solidale e unita

che va dalle pensioni di chi ha un posto fisso, alla nostra infinita e frustrante precarietà. I casualised contracts, che poi sono io, e l’altri e le altre nella mia posizione, ma pure più avanti di me. Gente che non se può permettere di programmare niente della vita loro, perché alla fine dipende sempre da dove troveranno il prossimo contratto; che quasi sempre vivono lontano da partner e affetti. Quella condizione che ce fa senti’ a telefono e mannacce li messaggi, pe’ tene’ in vita la nostra amicizia che ormai c’ha più de vent’anni. Che poi vor di’ che non so dove starò tra nove mesi. Non avevano previsto che avremmo radicalizzato le posizioni femministe (e che in pochi anni il sindacato avrebbe subito ‘na rivoluzione interna in struttura e leadership) pe’ chiede l’eliminazione del gender pay gap, o che avremmo finalmente chiesto qualcosa di più delle loro pagliacciate pe’ garanti’ l’equality tra i membri dello staff. Che ancora ora chi fa ricerca e proviene da gruppi etnici e minoranze ha circa il 10% di probabilità in più di essere assunto con contratti precari di un bianco britannico, irlandese o di altro background, come scrivono nei questionari. Ma hanno fatto l’errore di farci trovare nello stesso posto a parlare di politica, e di come

questo modello neoliberale di accademia sta a massacra’ le vite nostre

e l’istruzione che diamo agli studenti, e in generale il meccanismo de produzione della conoscenza del paese.

C’ha fatto scopri’ storie che non conoscevamo, e che non si conoscevano del tutto nemmanco dentro al sindacato. La mia università ha il 41% dello staff assunto con contratti precari, nelle forme più diverse. C’è chi c’ha poche ore di insegnamento a settimana sparse in diversi atenei; c’è chi salta da un contratto semestrale all’altro; chi ha solo alcune attività pagate. Chi, pe’ nun lavora’ a ‘na paga inferiore al salario minimo, se mette una sveglia dopo dieci minuti passati a correggere un essay e dà il feedback che riesce a dare, oppure chi regala ore del suo tempo, a danno della ricerca o della propria vita privata. Parecchie e parecchie hourly paid workers non hanno ore d’ufficio pe’ parla’ con studenti e studentesse e lo fa pe’ suo buon cuore. È successo pure a me, perché come fai a dire a uno studente o a un studentessa de no quanno mostra un po’ d’interesse? Tutto ciò pe’ un mestiere visto come ‘na vocazione. Così, mentre il sistema spolpa i membri dello staff al limite delle capacità fisiche, se ritrova con ritagli di ore da riempire, a seconda dell’anno e delle iscrizioni. Ore che vengono riempite, manco a dirlo, da gente con contratto precario. Storie di merda, poi, che non c’è uno o una che sia mai soddisfatto. Finisci la tesi e te ritrovi co’ poche ore d’insegnamento, e zero reddito. Che vuol dire che fare ricerca sta tornando a esse un lusso pe’ chi se lo può permette e che tanti e tante nella mia posizione sceglieranno di andare a lavorare nel privato, o in qualcosa di completamente estraneo a ciò che hanno studiato. 

Lo sciopero è finito mercoledì 5 dicembre e mo nun è facile mantene’ la linea corale sulle vertenze in campo.

È probabile che tenteranno de dividece nelle negoziazioni, offrendo qualche sponda sulle pensioni e vagheggiando soluzioni incerte sulle altre vertenze. Il quadro è complicato dal fatto che molti problemi potrebbero essere delegati a livello locale (le negoziazioni vanno avanti contemporaneamente sui due piani). ‘Nsomma, fratè, potremmo doverlo fa’ ancora, ‘sto sciopero, magari a fine inverno, magari a primavera. Ma c’è, sui picchetti, l’idea de una battaglia epocale, pe’ il senso stesso del lavoro nostro, pe’ ferma’ ‘na privatizzazione nascosta e subdola.

Questo, nemmanco a dirlo, fa il paio con un’elezione politica che sa di once in a lifetime. Magari, ‘o sciopero c’avrà pure l’effetto de porre il tema dell’università in un dibattito mefitico, che i tories vogliono limitare alla sola brexit. E ‘n tutto questo, il labour è l’unico che c’ha ‘na posizione chiara: via le famigerate tuition fees che arrivano a 9000 bombe all’anno pe’ le università del russell group in un paese che non ha alcuna forma di diritto allo studio pubblico. Che anzi s’è affidato a prestiti d’onore che contribuiscono a danneggiare ‘a salute mentale di studenti e studentesse e a peggiora’ la condizione delle università, cioè che il rapporto cliente/servizio qua sta a sostitui’ quello didattico tra discente e docente. 

Non lo so se ce la famo, frate’, a vincerla, ‘sta battaja. Però ce dovemo prova’, pe’ tutte quell’idee perse, quelle ricerche lasciate indietro dall’università neoliberale. Ma anche solo pe’ la salute nostra, pe’ la dignità nostra, e pe’ ferma’ l’ultimi bozzi de sto lungo processo de privatizzazione del sistema.

Te vojo bene, vo a dormi’ che domani m’arzo presto.

Tu fratello,

E

 

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