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Di statue, performance moltitudinaria e memoria collettiva

Come fare i conti con la memoria collettiva del passato? Dopo i casi delle statue di Colston e Churchill, colpite dal movimento Black Lives Matter, l'Italia torna a interrogarsi sulla propria storia coloniale. E sulla figura di Indro Montanelli.

Di statue, performance moltitudinaria e memoria collettiva

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Come sempre con qualche giorno di ritardo sul dibattito anglosassone, anche in Italia si discute di statue. Distruggerle è una rimozione della memoria? Cancella la storia? Valuta l’etica del passato con gli occhi del presente? Si può chiedere la rimozione di una statua per qualcosa di tossico che il soggetto scolpito ha fatto nella sua vita? Ma non è forse questo un modo di ridurre chiunque ai propri errori, e non è forse vero che nessuno è innocente, e che il più pulito c’ha la rogna? Tento qui di parlare del perché credo che l’etica del passato non sia il punto messo in discussione, quanto la memoria che nel presente si ha di quel passato, e le sue conseguenze sociali.

La versione nostrana del dibattito si concentra sulla statua di Indro Montanelli a Milano. Oggi sono usciti alcuni pezzi incendiari degli alfieri della tradizione, della difesa della Cultura e delle Radici. Due esempi terrificanti: il pezzo di Severgnini sul Corriere, che fa una difesa di Montanelli, notando che sì, in effetti “Montanelli aveva accettato come compagna un’adolescente abissina”, ma tacciando di “fanatismo” le richieste di rimuoverne la statua. 

Bisogna dirlo subito: la formulazione è terribile e fa pensare ad una richiesta della famiglia di Destà che Montanelli accetta quasi suo malgrado. Naturalmente, al di là della narrazione, le dinamiche di potere in gioco erano molto diverse: Montanelli da dominatore bianco forza attraverso il suo potere, anche economico, la famiglia ad accettare un matrimonio fuori dal gruppo sociale, qualcosa di difficilmente accettabile per la cultura Bilen. In altre parole, Montanelli comprò una bambina di dodici anni per essere la sua concubina. Non esiste alcun contesto morale che giustifichi la vicenda, nonostante quello che scrive Severgnini.

Secondo esempio, il pezzo del fondamentalista occidentale Giulio Meotti, autore per Il Foglio e già resosi famoso in rete per questo tweet di qualche giorno fa:

Il dibattito social si è poi articolato sempre lungo le solite linee: finiremo per distruggere il Colosseo, stanno riscrivendo la storia, sono dei fanatici del politicamente corretto, che ormai è fuori controllo. Ci arriviamo a tutte queste questioni, compreso Montanelli. Ma è il caso di fare un passo indietro e partire da lontano, per la precisione dal I secolo a.C.

Abbattere statue nell’antica Roma e damnatio memoriae 

La distruzione delle statue è pratica politica moltitudinaria diffusa in molti contesti: parlo del mio preferito, quello romano. Nel 55 a.C. di fronte a una legge proposta da Trebonio sulla distribuzione degli incarichi proconsolari ai ‹triumviri›, la moltitudine attacca le statue di Pompeo, che tornava fresco fresco dall’aver ‹risolto› una crisi annonaria, ma pare che a Roma ci fosse ancora problema di liquidità, e va per distruggerle, in protesta per il passaggio violento della legge in senato (Plut. Cat. Min. 43.4). Viene fermata da Catone, che, nonostante fosse un oppositore della legge, aveva obiettivi politici più raffinati della massa, e precisamente la frattura del gruppo triumvirale. Le statue di Pompeo verranno poi eliminate da Cesare, assieme a quelle di Silla, dopo Farsàlo (Sue. Caes. 55, 7)

Un esempio di età imperiale sarà ancora più chiaro: le statue di Lucio Elio Seiano divelte dal demos nel 31 d.C. Seiano fu prefetto del pretorio dal 16 al 31, durante il regno di Tiberio.  Fu forse l’uomo più potente di Roma, specie dopo la dipartita di Germanico e Druso e l’esilio volontario di Tiberio sul suo sasso solitario, a Capri. Semplifico la vicenda per sottolineare il punto rilevante al mio discorso: nel 31 la situazione precipita, Tiberio nomina prefetto in segreto Macrone e fa rimuovere Seiano. Cassio Dione racconta come all’uscita del primo giorno di processo, Seiano venga attaccato verbalmente dal demos sulla strada verso il carcer. Oltre a questo, Cassio ci testimonia di una sorte riservata alle statue di Seiano ‹come se fosse stato l’uomo stesso›, e non un’immagine. Questa distruzione naturalmente non coincide con la cancellazione della memoria di Seiano, piuttosto il contrario: la performance moltitudinaria fissa dei limiti politici con chiarezza e lo fa attraverso la distruzione del rapporto di dominazione topograficamente espresso.

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Credo inoltre che ci sia una grossa confusione anche su un altro punto fondamentale che informa questo dibattito, ossia cosa fosse la damnatio memoriae. Ci immaginiamo questo fenomeno come la cancellazione, l’eliminazione di ogni traccia, l’esclusione del soggetto che ne è vittima da ogni registrazione storica. Posta la natura controfattuale in modo evidente di questa definizione, giacché conosciamo Seiano, Caligola e Nerone anche a fronte della damnatio memoriae subita, quello che salta agli occhi è una violentissima assenza. L’assenza era il punto della damnatio, il più potente strumento di memoria mai concepito: piedistalli vuoti, rasure nei documenti, nomi scalpellati via erano per i contemporanei che assistevano alla scena la più evocativa delle memorie. La memoria dell’assenza, la memoria performativa della cancellazione dalla scena pubblica sono molto più efficaci che lasciare tutto invariato, o aggiungere una targa ad un monumento.

La topografia del potere e memoria collettiva

A Roma, come in qualsiasi altro posto, infatti, il monumento non è una semplice decorazione dello spazio pubblico, ma una forma simbolica della dominazione, rappresentativa della costruzione della memoria collettiva richiesta dal potere. Questa dominazione non è eterna, per questo il Colosseo, o la Colonna Traiana non sono a rischio: sì, al Colosseo schiavi si ammazzano in violenti giochi gladiatori per compiacere il gruppo politico dominante (a Roma la questione etnica è più complicata di come può sembrare), e sì, la campagna Dacica è stata incredibilmente brutale. Tuttavia, le loro conseguenze sul presente sono limitate: il loro ruolo come lieux de mémoire è cambiato. Utilizzo qui l’idea di Pierre Nora nella più materiale e volgare delle accezioni, in cui i luoghi sono effettivamente luoghi (mentre nel lavoro di Nora anche oggetti materiali, come una bandiera, possono ottenere lo status di luogo di memoria), per sottolineare qualcosa che agli studiosi e alle studiose di storia sembra più che ovvio: la costruzione dello spazio pubblico, la topografia e la toponomastica del potere sono elementi fondamentali della creazione della memoria collettiva. Non solo, la memoria nazionale unificata, che nasce in Europa nel periodo su cui si dispiega la questione posta oggi dal movimento BLM, è un processo di invenzione delle tradizioni e di immaginazione della comunità. Questo processo sintetizza numerose memorie plurali, locali e di gruppi diversi, in una narrazione coerente atta a costituire il gruppo nazionale.

È questa costruzione che ora viene messa in discussione e contestata apertamente:

la memoria imperiale britannica – ancora operante durante la campagna su Brexit – o quella americana – Make America Great Again – sono strumenti potentissimi nelle narrazioni dei conservatori o della destra radicale di questi due paesi.

Un’obiezione chiave viene portata in questi giorni: bisogna contestualizzare, guardare alla mentalità dell’epoca. Io credo che questa obiezioni sia due volte sbagliata: primo, schiaccia la mentalità dell’epoca sotto la mentalità del dominatore dell’epoca. Secondo,

non è l’etica di ieri a essere attaccata, ma la memoria collettiva di oggi.

Nel Regno Unito, le campagne sull’insegnamento della storia imperiale e coloniale hanno sortito un nulla di fatto, in un paese che ha ancora domini coloniali. Niente che non conosciamo anche in Italia: penso alla narrazione condivisa dell’unificazione nazionale come conclusione teleologica di un progresso iniziato con il crollo dell’Impero Romano d’Occidente (noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi), che nasconde l’interesse molto piemontese, molto Savoia all’unificazione nazionale, che declassa ogni forma di resistenza a brigantaggio. Sventuratamente, questa lettura è stata lasciata solo ai cosiddetti neo-borbonici, ma è stata dimenticata da posizioni di sinistra.

Ancora, oltre, e come il grande lavoro fatto da Wu Ming nell’ambito delle Resistenze in Cirenaica, ma non solo, la topografia coloniale è ancora parte dei nostri spazi cittadini. Questo è il contraltare spaziale della narrazione del colonialismo buono italiano, quello degli Italiani brava gente. Questa ingombrante rimozione si sdraia alla base dell’impossibilità di affrontare il discorso sul razzismo sistemico in modo organico, anche e soprattutto in Italia. Come si può confrontarsi con la propria storia coloniale, con le violenze, con le aberrazioni fatte in Africa e non solo dal fascismo, se continuiamo a immaginare l’Italia come la grande proletaria che s’è mossa? Nel subconscio culturale del paese, la lettura di fascismo come parentesi nazionale, un’interruzione nello sviluppo sano e forte della nazione italiana, è stata a lungo dominante. Ora, è necessario ricordare che la violenza coloniale non fu solo fascista, e che non abbiamo ragione per sentirci assolti.

Tornando alle statue, come ha scritto David Olusoga, professore di Public history all’Università di Manchester sul Guardian, la distruzione delle statue fa la storia. Espandendo, potremmo dire che viene messa in discussione la legittimità di quella memoria collettiva e dell’insegnamento della storia. Andiamo ora ai due esempi più efficaci, Colston e Churchill.  A Bristol si discute della rimozione della statua di Edward Colston da parecchio tempo, tentando una mediazione istituzionale tra la memoria dello schiavista della popolazione nera e la memoria del filantropo (coi soldi dello schiavismo, ma tralasciamo). La rimozione veniva osteggiata e ci si è quindi accordati su una targa. Si sono avute difficoltà a decidere la formulazione della targa, e dopo averla apposta, nel 2018, la targa è stata rimossa e distrutta nottetempo da gruppi di razzisti. La statua di Colston infatti è punto ancora vivace della città e riceve tributi floreali da ammiratori – la sua memoria è ancora attiva ora.

Non vale nemmeno la pena parlare di Churchill, visto che sono ormai arcinote le posizioni violentemente razziste – e a tratti filofasciste – dell’eroico leader della seconda guerra mondiale. Sono così ben note che persino la BBC, l’Independent ed il Times hanno dovuto fare articoli lo scorso anno sostenendo che sì, era un razzista e un assassino, ma questo non lo rende meno eroico. Nel processo di memorializzazione, Churchill ha subito una completa depoliticizzazione allo scopo di assurgere a figura unificante nella politica del dopoguerra inglese.

Churchill non è l’eroe Tory per definizione nonostante fosse un un razzista, ma proprio per questo. È l’eroe oppressore, in cui gli uomini bianchi cishet e ricchi che rappresentano l’ideale votante Tory si possano identificare.

Churchill è amato anche perché fece sparare sugli scioperi dei minatori e per le sue oscenità coloniali, epitome dell’immaginario di onnipotenza imperiale britannico.  Il problema è precisamente la scomparsa di tutto questo dalla memoria collettiva riguardante Churchill. Porre questi punti politici, riguardo alla complessa costruzione della nostra identità è un compito che un movimento che si propone di decolonizzare l’Occidente e la mentalità occidentale deve porsi necessariamente. E visto che le vie pacifiche e istituzionali non sembrano funzionare, l’azione diretta richiede performance radicali che sappiano ridefinire assieme agli spazi la nostra memoria collettiva.

Problematizzare la memoria: la statua di Montanelli a Milano

Possiamo ora tornare alla discussione sulla statua di Montanelli a Milano. La statua è stata ordinata dal sindaco Albertini nel 2006: lo sforzo di memorializzazione è perfettamente calato nel presente, e nell’agone politico della seconda metà del periodo berlusconiano, quello del declino. L’attacco alla statua di Montanelli portato dal corteo femminista dello scorso anno è diretto alla memoria condivisa della sua figura, mai problematizzata, e considerata come Padre del giornalismo italiano da una certa tradizione ‹liberale›, di cui il Meotti sopracitato è degno erede.

Montanelli rappresenta proprio quel rimosso coloniale che nominavo poco sopra, quello di Italiani Brava Gente: una narrazione che mai ha messo in luce gli orrori del colonialismo italiano, preferendo un vergognoso ideale del “bianco civilizzatore” che fa le strade in Abissinia e porta quei selvaggi fuori dalla loro arretratezza. La stessa narrazione che permette che Faccetta Nera sia ancora bonariamente canticchiata. Come scrive Luca La Rovere, Montanelli fu ‹uno dei principali artefici di una memoria consolatoria del fascismo, che andava incontro al desiderio degli italiani di cancellare il ricordo delle passate responsabilità›.

La sua narrazione consolatoria, in linea con il suo antifascismo da operetta, è stata la colonna portante del discorso politico repubblicano sul fascismo: è diventato un luogo comune, ormai, parlare delle differenze nel discorso post-bellico in Germania e in Italia. Resta innegabile, però, che l’Italia abbia rifiutato di processare la vicenda in una memoria collettiva antifascista, in cui si tenesse conto della complessità del fascismo e del suo profondo radicamento nella cultura nazionale. Per ragionare sulla profonda penetrazione del fascismo nella coscienza nazionale, infatti, Gramsci studiò così a lungo l’egemonia, per questo ne costruì il modello, in pagine straordinarie, soprattutto nel Quaderno 13. Allo stesso modo, serve forse interpellare uno dei brani più celebri di Gramsci per capire quanto sia rilevante ridiscutere i totem della cultura nazionale: il passo sugli intellettuali organici che apre il Quaderno 12 assegna a questi un ruolo fondamentale nella costruzione dell’egemonia nella società civile. Sebbene oggi la riflessione sia molto differente (soprattutto alla luce del recente frame narrativo tra popolo ed élite), di certo questo fu rilevante nel ‘900. Scriveva il nostro:

Gli intellettuali sono i ‹commessi› del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico, cioè:

del consenso ‹spontaneo› dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante, consenso che nasce ‹storicamente› dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione;

dell’apparato di coercizione statale che assicura «legalmente» la disciplina di quei gruppi che non ‹consentono› né attivamente né passivamente, ma è costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso spontaneo viene meno.

Montanelli, famoso per essere un cane sciolto, un intellettuale indipendente, fu in realtà il più organico degli intellettuali; nella fase di storicizzazione del fascismo, già da subito dopo la Guerra (“Qui non riposano”, 1945) ne diede un ritratto macchiettistico, che potesse assolvere la comunità nazionale dalle colpe e dagli orrori della Guerra. In linea, quindi, con quanto successe dopo il Settembre del 1943 e con la continuità che sul lungo periodo c’è stata tra la classe dirigente fascista e quella postfascista. Più di tutti la Guerra in Abissinia e le leggi razziali costituivano un ostacolo a questa narrazione, per questo andavano diluite, annacquate, così che l’Italia potesse dipingersi come vittima a sua volta, autrice di un fascismo episodico, meno grave e meno orrido del Nazismo in Germania. La solidità di questa narrazione sul lungo periodo è provata proprio dalle grandi difese di Montanelli che si leggono dappertutto nella stampa liberale: una memoria collettiva e condivisa, mai problematizzata, che omette la violenza coloniale (e l’abuso su una minore) dalla biografia di un uomo come se fosse un dettaglio, una quisquilia morale (da trattare con le armi di un relativismo mal applicato) che nulla ha a che fare con la sua caratura umana e politica. Che questa tesi sia indifendibile sembra, a questo punto, cosa ovvia.

Quella statua nel contesto del 2020 è ancora espressione di questa memoria rasserenata, in una fase rischiosa in cui razzismo e nazionalismo stanno tornando alla carica, travestiti sotto il nome di ‹sovranismo›.

Quella statua andava macchiata per sempre, con la vernice rossa come il sangue di africani e afrodiscendenti, vittime innocenti di allora e di oggi della Guerra coloniale.

Insomma, come gli Stati Uniti e il Regno Unito vengono spinti da movimenti radicali a riconsiderare l’impatto della loro storia sui gruppi subalterni, è ora che lo si faccia anche in Italia, siano i Savoia o Montanelli. Se ci ascolteranno e verranno apposti pannelli e targhe che riescano ad aggiungere complessità a quelle statue, o se le rimuoveranno e le sposteranno in un museo, potremmo addirittura considerare di non buttarle nel fiume. 

Qualche spunto bibliografico:

  • Courrier, C. (2016), ‘Mouvements et destructions de statues : une lecture topographique de la répudiation d’Octavie’, in C.M. D’Annovil and Y. Rivière, a cura di, Faire parler et faire taire les statues, 297-350, Roma: EFR. 
  • Flower, H. (2006), The Art of Forgetting, Chapel Hill: University of North Carolina Press. 
  • Hobsbawm, E./Ranger, T., a cura di, (1983), The Invention of Tradition, Cambridge: CUP.
  • Anderson, B. (1983), Imagined Communities, London: Verso.
  • Norra, P. , a cura di (1984-1992), Les lieux de mémoire
  • La Rovere, L. (2008), L’eredità del fascismo. Gli intellettuali, i giovani, e la transizione al post-fascismo (1943’1948) [la citazione in testo si trova a p. 314]