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Gramsci e la riscoperta dell’egemonia

Il pensiero di Gramsci ha visto un nuovo interesse. Riscoprire il vero significato del concetto di ‹egemonia› può dare sia le giuste coordinate per l'interpretazione del suo pensiero, che energia ai movimenti rivoluzionari e trasformativi.

Gramsci e la riscoperta dell’egemonia

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Negli ultimi anni, sembra che il nome di Gramsci e il concetto di egemonia siano praticamente ovunque. Li troviamo in riviste online più o meno cool, in letteratura scientifica di ogni genere, in pezzi d’arte (come le opere di Alfredo Jaar) e, è ormai arcinoto, sulla bocca di pensatori di destra ed estrema destra (De Benoist e Fusaro sono solo i nomi più ovvi). Anche tra compagne e compagni, di solito il concetto di egemonia viene visto come qualcosa di legato alla sfera culturale, del consenso: ci si immagina l’egemonia come un qualcosa di vicino alla costruzione di un’ideologia che sappia imporsi e codificare un modo di pensare per la popolazione. Insomma, si tratta di una lettura che riproduce lo schematismo della divisione tra infrastruttura e sovrastruttura, il modo in cui il marxismo ‹ortodosso› si è immaginato il rapporto tra le condizioni materiali, intese come rapporti di produzione, ossia la struttura, e le forme culturali, istituzionali e politiche che caratterizzano una qualsiasi società, vale a dire la sovrastruttura. 

In quel marxismo che si è affermato storicamente come l’ortodossia (un prodotto del marxismo scientifico della seconda internazionale e della fissazione del marxismo-leninismo come dottrina in età staliniana), il rapporto tra le due componenti è organicamente diviso: la sovrastruttura viene a configurarsi come un mero riflesso dei rapporti di forza determinati dalla struttura. Questo modello, già diverso dalla concezione marxiana ne L’ideologia tedesca (1845-6) come ‹falsa coscienza› e dalla celebre immagine della camera oscura, verrà sottoposto ad una serrata critica da György Lukács in Storia e coscienza di classe (1923) e da Gramsci stesso in direzione di una totalità sociale in cui struttura e sovrastruttura sono distinte sì metodologicamente, ma non organicamente (si veda per esempio Q10ii§41.I e X). 

La rinnovata fama di Gramsci e la nuova popolarità del concetto di ‹egemonia› in una fase come quella che stiamo vivendo suonano quantomeno anomale per un teorico marxista e leninista e per una categoria tutta marxista.

Gramsci, in fondo, fu un  militante durante il Biennio Rosso, un pensatore che ha dedicato la sua vita a capire come esportare la rivoluzione in occidente, un uomo d’azione prima che di pensiero, costretto a separare teoria e prassi solo dalle fetide sbarre delle prigioni fasciste.

Suona quindi quantomeno strano che il faccione di Nino dipinto da Jorit all’Isolotto abbia fatto capolino sulla pagina facebook del sindaco di Firenze, Dario Nardella, che collega la figura di Gramsci ad un vago quanto retorico ‹amore per la libertà›.

Per quanto possa sembrare curioso, il fenomeno è meno anomalo di quanto non sembri, visto che Gramsci è diventato un simbolo, un idolo praticamente subito dopo la sua morte, il 27 Aprile del 1937. La ricezione, infatti, se così possiamo chiamarla inizia ben prima della pubblicazione dei Quaderni, con un discorso di Palmiro Togliatti intitolato ‹Antonio Gramsci capo della classe operaia italiana›, pronunciato in esilio e pubblicato in Stato Operaio del maggio 1937, come argomenta Guido Liguori nel suo prezioso Gramsci Conteso (2012). In questo memorabile testo, Gramsci diventa un simbolo da inserire nel canone dei grandi italiani ribelli che

Togliatti presenta come ‹gli uomini più grandi (…) perseguitati dalle classi dirigenti del nostro paese›.

In questa lista del genio italiano, Gramsci segue Dante, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi ma è comunque fieramente definito ‹un marxista, un leninista, un bolscevico›. Il processo di trasformazione di Gramsci in un idolo, progressivamente sempre più ‹simbolo› e sempre meno personaggio storico, occupa nel dopoguerra un ruolo importante nella cosiddetta ‹via italiana al socialismo›.

Nella ricezione togliattiana, però, Gramsci resta rappresentato come un rivoluzionario fieramente marxista. Dobbiamo seguire altre strade di ricezione per vedere come il pensiero gramsciano sia diventato una fonte di concetti sparsi da cui attingere senza contestualizzazioni e con travisamenti. 

La condanna più famosa e più pesante del suo pensiero fu mossa da Perry Anderson  in merito alle differenti prospettive rivoluzionarie tra Russia ed Europa Occidentale, una delle tematiche centrali dei Quaderni, in un lungo articolato intitolato Le Antinomie di Gramsci e pubblicato sulla New Left Review (1976). Questo lavoro, tanto discutibile quanto celebre, ha contribuito in modo decisivo alla convinzione piuttosto comune nel mondo anglosassone, e non solo, che il lavoro di Gramsci fosse confuso e presentasse delle aporie irrisolvibili. Nel pezzo,

Anderson sembra morire dalla voglia di concludere che Gramsci non fosse abbastanza rivoluzionario, abbastanza leninista, e che quindi, il suo percorso fosse da abbandonare. 

Negli stessi anni, Gramsci e le sue intuizioni influenzarono un gruppo di studiosi, sempre legati alla New Left Review, che avrebbero avuto un impatto enorme sugli studi culturali del mondo intero: Raymond Williams, in prima battuta, e Stuart Hall, forse il primo a riflettere con lenti gramsciane su problemi che Nino stesso non aveva mai affrontato. Risalgono a quel periodo lavori immortali come Marxism and Literature di Williams. Negli anni ’80, Hall prenderà spunto in modo decisivo dalle note gramsciane per riflettere sul ruolo della razza nei sistemi di oppressione (Gramsci’s relevance for the study of race and ethnicity, 1986), aprendo la strada a lettura gramsciane in vari settori accademici, tra cui figurano Relazioni internazionali, Antropologia, Studi Postcoloniali, Storiografia.

Il celebre antichista Arnaldo Momigliano avrebbe descritto il suo marxismo come ‹domestico e domesticato›, tanto decisamente influenzato da Croce da diventare quasi idealista. 

D’altronde, Croce stesso aveva provato ad appropriarsi di Gramsci: nella recensione alla prima edizione delle Lettere, nel 1947, aveva scritto che ‹come uomo di pensiero egli fu dei nostri›, quasi a dire che Gramsci fosse in fondo un neo-idealista lontano dal Partito. Dovette rimangiarselo quasi subito, comunque, non appena iniziarono a uscire i volumi dei Quaderni, curati da Felice Platone sotto la ferrea direzione del Migliore, Togliatti. Proprio lui fu il regista della ricezione ‘ortodossa’, selezionata accuratamente dal partito, del pensiero di Gramsci che avrebbe dominato almeno fino al 1956, l’anno dell’Ungheria, della svolta storiografica,  delle rivelazioni di Krushev.

Tra le letture diffuse a partire dagli anni ’60, si delinea una lotta tra un fronte leninista e uno riformista. In questo ultimo, va menzionato Norberto Bobbio, che scrisse quello che poi è diventato il saggio di scuola Gramsci e la concezione di società civile (1967) e comparso tradotto in inglese dieci anni dopo in Gramsci and Marxist Theory curato da Chantal Mouffe. Bobbio scriveva che Gramsci fu teorico del rovesciamento, del superamento in termini di importanza della sovrastruttura sulla struttura, sostenendo, in poche parole, che Gramsci fosse fondamentalmente un idealista, quasi un liberale. 

Il suo essere sul filo, il suo ostinarsi a voler recuperare il Marxismo meccanicistico e economicista della Seconda Internazionale, senza perdere le salde radici materialiste ma anzi accentuandone di nuovo l’aspetto storico, insomma, la sua volontà di ripartire da Marx e da Lenin, gli diede da un lato la nomea di marxista annacquato, e dall’altro il ruolo di figura conciliante tra i comunisti e il resto dell’arco parlamentare nella vita politica dell’Italia postbellica.

Cos’ha portato questo leninista, logorato e estasiato dal pensiero di come fare la rivoluzione, ad essere una figura fondamentalmente pop?

Il concetto di ‹egemonia› e il suo uso adattato e ingabbiato sono testimonianza di questa complessa storia di ricezione, che è una storia del conflitto intellettuale tra materialismo e idealismo, di colpi bassi e di appropriazioni indebite.

Non sorprende che ancora oggi ‹egemonia› sia fondamentalmente utilizzata sempre in locuzione unica con ‹culturale›, e di solito implichi la necessità di ottenere il controllo sulla sovrastruttura attraverso la società civile, prima di potere attaccare lo Stato e sovvertire i rapporti di produzione (se mai si arrivasse a tanto).

Secondo la definizione di Raymond Williams, ‹egemonia› sarebbe ‹un sistema centralizzato di pratiche, significati e valori che saturino la coscienza di una società ad un livello molto più profondo delle nozioni diffuse di ideologia› (Williams, Base and Superstructure). Storicamente ha prevalso l’interpretazione gradualista del concetto, legata ad una precisa fase di letture gramsciane, quella eurocomunista degli anni ’70, tra i cui esponenti spicca Christine Buci-Glucksmann. Di lì, probabilmente, e dall’idea di un socialismo pluralista e democratico si sviluppano le idee di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (Hegemony and Socialist Strategy: Towards a Radical Democracy, 1985), che avrebbero legato in modo decisivo il loro nome a Gramsci e al concetto di egemonia, filtrato tramite quello di discorso e una prospettiva fermamente post-strutturalista e portandolo verso una direzione a loro dire ‹non-essenzialista›.

In ogni caso, il pensiero gramsciano ha avuto anche dal punto di vista accademico una nuova vita negli ultimi 40 anni, grazie agli studi filologici di Gianni Francioni e di tutta la scuola italiana di studiosi gramsciani come Guido Liguori, Giuseppe Cospito, Fabio Frosini, che sono pian piano andati a confluire in opere lessicologiche come Le parole di Gramsci (2003) e Dizionario Gramsciano (2009) e nella monumentale nuova Edizione Nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci, iniziata negli anni ‘90 e ancora in corso. Questo processo ha portato a un fenomeno indicato generalmente col nome di Gramsci Renaissance, in cui si sono venute a delineare due tendenze generali. La prima prende pezzi del pensiero di Gramsci e li traduce in altri campi di studio. La seconda, al contrario, è figlia dell’approccio solidamente filologico della scuola italiana e ha restituito una fresca prospettiva marxista sull’egemonia, rifiutando le ‹antinomie› che Anderson aveva creato in Gramsci con le sue letture metodologicamente avventate.

Sulla scorta dell’ultima scuola di pensiero menzionata, riprendiamo, dunque, qualche passo di Nino, e vediamo di porre tre punti fissi per riprenderci l’‹egemonia›.

Il primo è il fondamento dell’egemonia è nelle condizioni materiali. Notoriamente, Gramsci non ha mai offerto una definizione di ‹egemonia›, che va invece desunta indirettamente dai suoi testi. Il passo più citato a proposito è tratto dal Quaderno 12 (Q12 §1):

‹Gli intellettuali sono i ‘commessi’ del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico, cioè: del consenso ‹spontaneo› dato dalle grandi masse della popolazione all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante, consenso che nasce ‘storicamente’ dal prestigio (e quindi dalla fiducia) derivante al gruppo dominante dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione›.

Di questo passo, di solito, viene sottolineato l’aspetto di spontaneità e di consensualità al programma sociale del gruppo dominante. Tuttavia, è da sottolineare la prospettiva puramente marxista di Gramsci, che sottolinea come il prestigio derivi necessariamente dalla posizione e funzione nel mondo della produzione di una classe fondamentale. In altre parole, ci troviamo di fronte ad un punto davvero vicino a Marx, nonostante le rappresentazioni svilenti che si sono diffuse negli anni. In ultima istanza, i rapporti di forza si costruiscono nel mondo della produzione, ossia nel campo dell’economia: questo non è l’unico terreno di scontro, come il marxismo economista avrebbe preteso di far dire a Marx, ma è semplicemente l’ultimo determinante. Gramsci, quindi, si posiziona sulla linea di Marx, sulla linea di un materialismo storico, ben distante dal crocianesimo che gli si è voluto a lungo appiccicare addosso.

Spesso, per costruire il Gramsci idealista di cui sopra, la citazione del Quaderno 12 iniziata sopra si ferma lì, ma il punto 2 posto da Nino prosegue così:

‹dell’apparato di coercizione statale che assicura ‘legalmente’ la disciplina di quei gruppi che non ‘consentono’ né attivamente né passivamente, ma è costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella direzione in cui il consenso spontaneo viene meno›.

Nella lettura sovrastrutturale di ‹egemonia›, Anderson legge questo passaggio come a indicare la sola società politica (ossia quelle attività direttamente sotto controllo statale), in contrapposizione con la vera e propria ‹egemonia›,  espressa nel primo punto del passaggio gramsciano. Questa riguarderebbe esclusivamente la società civile, cosa che forse può essere vista nella prima stesura del testo (Q 4§9), ma è nettamente ammorbidita in questa seconda versione. Così facendo, Anderson assimila ‹egemonia› a ‹consenso›, la contrappone alla coercizione, all’uso della forza che è proprio della società politica, che immagina avvenire esclusivamente in quel monopolio della forza che è il fondamento dello Stato moderno.  Si vengono, dunque, a creare, seguendo questo percorso, una serie di incoerenze nel pensiero di Gramsci, che sembrano intaccarne l’intero sistema. 

Le ‹antinomie›, tuttavia, sussistono solo immaginandosi uno sviluppo lineare della scrittura dei Quaderni dal primo in poi che non potrebbe essere più lontano dalla realtà. 

In effetti, la scrittura e la datazione dei singoli quaderni e delle note in essi contenute è piuttosto complessa e arzigogolata. D’altra parte, si potrebbe anche argomentare un esito uguale e contrario del pensiero gramsciano, e forse in questa direzione andò Althusser: invece di un’egemonia in completa contraddizione con lo Stato, tutto può essere assimilato agli apparati statali, schiacciando l’egemonia all’interno della società politica, accentuando, ad esempio, la centralità della scuola borghese nell’educazione e nella costruzione egemonica: per Gramsci, la formazione comprendeva le esperienze nelle sezioni di partito, nei consigli e superava di molto la sfera d’azione della società politica.

Gramsci, probabilmente, non fece né l’uno né l’altro: per dirla con Peter Thomas, autore di The Gramscian Moment (2009), uno dei più importanti libri di studi gramsciani degli ultimi vent’anni, ‹l’egemonia è concepita come una pratica ‘che attraversa’ i confini tra di loro [la società politica e società civile ndr]. Più accuratamente, egemonia è una particolare pratica di consolidare forze sociali e condensarle all’interno del potere politico sulla base della massa, ovverosia il modo di produzione del moderno ‘politico’›. In altre parole, egemonia è il processo di costituzione del politico ovverosia ‹il processo attraverso il quale le forze sociali sono integrate nel potere politico di uno stato esistente›.

 Una lettura del genere deriva dall’assumere una prospettiva dialettica tra coercizione e consenso, che si realizza nella sintesi dello Stato Integrale. La costruzione di egemonia/società civile vs. dominazione/consenso è più dovuta ad Anderson che a Gramsci stesso.

Nel concretizzarsi storico, lo Stato esercita l’egemonia attraverso l’assimilazione consensuale, da un lato, e la repressione coercitiva di quanti non consentono.

Questi, nel loro essere repressi, diventano elemento di egemonia consensuale, in quanto esempio pubblico di nemico interno. Quindi, di nuovo con le parole di Thomas possiamo dire che ‹egemonia è la forma di potere politico che si esercita sulle classi contigue al gruppo dirigente, mentre dominazione è esercitato su quelle classi che si oppongono. Il consenso è il mezzo di forgiare un corpo composito dell’alleanza di classe, laddove la coercizione è usata contro gli esclusi.›

Un ulteriore problema è come questa dialettica si realizzi concretamente. La nozione di ‹controegemonia› coniata da James C. Scotts viene spesso invocata e si può definire come lo sforzo di creare un’egemonia alternativa sul terreno della società civile, prima di potere costruire un cambiamento politico. L’influenza della lettura gradualista è evidente. Probabilmente, si basa sui passi del Quaderno 19  (specie il § 24), in cui Gramsci analizza lo sviluppo egemonico dei Moderati nella fase risorgimentale, ma indebitamente il ragionamento viene esteso ad ogni forma di costruzione egemonica. L’egemonia di Gramsci richiede al partito di incorporare le spinte provenienti dalla massa nella sua costruzione dell’egemonia, è direzione e guida di quel consenso spontaneo ‹guadagnato› dal prestigio sul terreno della produzione, non pura dominazione, o imposizione alla maniera della ‹falsa coscienza›.

Egemonia, insomma, è l’estensione degli interessi di una delle due classi fondamentali del sistema capitalista (borghesia o classe operaia) su altre classi contigue, come quella contadina, o frammenti di classe contigue, come la piccola borghesia e il proletariato intellettuale a alto reddito. 

Questa estensione si articola tramite una dialettica di consenso e coercizione, e di volontà della massa e del gruppo dirigente. È un sistema di potere che dobbiamo usare anche per analizzare le configurazioni esistenti, ma che dobbiamo ricordarci di non svilire.

Costruire l’egemonia è una sfida tutta politica ma sempre di classe. Possiamo contribuire a questo processo anche da spazi critici come le riviste, come questa e le molte altre che con linguaggio più o meno radicale, più o meno marxista, più o meno tecnico, più o meno ortodosso, tentano di fare agitazione. Ma dopo averla lanciata, dobbiamo saperla raccogliere nelle piazze e nella pratica del conflitto, nel mutualismo territoriale e nella creazione di reti che agiscono in antagonismo all’egemonia liberale che pervade i nostri pensieri e le nostre abitudini, che si è codificata nel senso comune di moltissimi e moltissime e che ci blocca l’immaginazione. Il realismo capitalista, infatti, può essere pensato come figlio di questa sintesi di dominazione e assuefazione, di consenso e repressione del dissenso. 

L’egemonia non è (solo) una questione da intellettuali, né possiamo praticarla come fosse l’educazione formale paternalista della scuola, vista come un’ancora di salvezza da una certa sinistra che la idealizza (come peraltro abbiamo visto negli ultimi mesi, con le argomentazioni retoriche portate a sostegno del mantra delle Scuole Aperte durante la seconda ondata).

Raccoglie gli stimoli della massa, e li fa suoi, ascolta e rielabora, senza cedere alla passività.

Come le piazze autunnali avrebbero dovuto fare, non subisce le parole d’ordine dei piccoli commercianti, ma articola questi spunti variegati delle masse e li usa per costruire un fronte unico, un ‹blocco storico› che allinei e saldi società civile e società politica l’una all’altra. Anche perché, senza trasformare la guida nella società civile in una prima forma di rinnovata società politica (ossia, senza tentare di costituirsi come forza conflittuale nello spazio del politico), un’egemonia pacifica che si creasse esclusivamente come guida nella società civile si andrebbe a sciogliere nell’idea esistente di corpo civico, ossia ad essere reincorporata nell’egemonia esistente della classe dirigente (Q25 §5, e di nuovo, Thomas). 

L’egemonia è gioia e rivoluzione, è cultura e conflitto, è un intenso processo dialettico di quelle che la metafora classica chiamò struttura e sovrastruttura in una totalità sociale. È costituzione collettiva di una direzione, coordinazione, regolazione e guida delle forze sociali sparse nella società civile, che ponga una sfida quotidiana all’egemonia politica realmente esistente, anche (ma non solo) prima di tentare di rovesciare le forme della dominazione nella società. E in questo spazio, prendersi l’egemonia può voler dire costruire forme sociali di comunanza, solidarietà e compartecipazione tra oppressioni che si sviluppano su differenti assi di potere.

Qui, forse, sta la magia del concetto: ‹egemonia› può essere la chiave per ripensare in senso corale e di superamento la frammentazione della politica identitaria degli ultimi due decenni, che ha avuto il pregio di attirare l’attenzione su forme di oppressione a cui in tanti si è stati troppo sordi per troppo tempo. Attraverso l’egemonia il progetto intersezionale può trovare una dimensione politica e rivoluzionaria. Per farlo, non dobbiamo necessariamente abbandonare le prospettive di classe e superare il marxismo, come hanno fatto Laclau e Mouffe ‹without apologies› a partire dal 1985, ma dobbiamo saper accogliere altre forme di oppressione che costruiscono le identità in una prospettiva multifocale, che non debba chiedere né alla classe né alla razza, al genere, all’orientamento, all’identificazione con il sesso assegnato alla nascita di cedere il posto, ma che sappia tenere tutte queste assi insieme, che sappia farle incontrare, così da dare davvero conto, finalmente, delle infinite sfumature della ‹produzione e riproduzione della vita reale›.