Torino capitale del food
Una realtà che profuma di distopia: il viaggio ventennale di Torino verso la gourmet gentrification.
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Patate ripiene, casa del raviolo, ‹NUOVA apertura di pasticceria STORICA› (ma non è un ossimoro?), pollo portoghese, panini vegan, toasterie che si alternano alla Galleria Iginio Massari (il pasticcere diventato star dei cooking show SKY), Carrefour Express ogni cento metri e enoteche che vendono dischi. Cosa sta succedendo al panorama urbano del cuore della nostra città, Torino, trasformato in 20 anni in un luna park a tema drink&beverage?
Per comprendere meglio la genesi del processo di foodification (con il cibo ‹che si mangia la città›, citando il sottotitolo dello spettacolo teatrale che ha dato vita al nostro collettivo) dobbiamo tornare al 2003, anno in cui il nostro prode Oscar Farinetti punta il Lingotto come sede della sua prossima creazione imprenditoriale, Eataly s.r.l.
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Il capitalista nostrano si ritrova in tasca 528 milioni, frutto della vendita di Unieuro, e decide che il cibo ‹buono, pulito e giusto› (copyright® Slow Food) può diventare un brand di successo mondiale se declinato nel mondo della grande distribuzione organizzata dietro una patina etica e pulita.
A dargli una mano ci pensano le amministrazioni locali (nel nostro caso la giunta Chiamparino) tendenzialmente di sinistra, che concedono i terreni necessari e contemporaneamente contribuiscono all’esaltazione di questo nuovo trend progressista.
L’attore pubblico ha tutto l’interesse a alimentare la grancassa mediatica, che ha il compito di coprire il fragore del tonfo della one company town, del quale ancora oggi sentiamo l’eco: la fuga di mamma FIAT dalla sua città di nascita è oggi più che mai conclamata e ci basta citare un dato del Rapporto Rota 2019 per darne l’idea.
Il polo produttivo torinese impiega oggi 6300 lavoratori a Mirafiori e 1100 alla Maserati di Grugliasco (cittadina della prima cintura torinese), contro i 14000 circa di dieci anni fa, perdendo nel contempo la centralità nelle gerarchie italiane del gruppo Fiat: oggi è 5° per numero di veicoli prodotti (-80% tra 2008 e 2018), dopo un dominio incontrastato per tutto il Novecento.
Si rese così necessaria una new vision per rilanciare l’economia e distrarre i cittadini. È stata definita la ‹Torino pirotecnica› (città degli eventi e della cultura), che insieme a quella ‹politecnica› (delle università) e ‹policentrica› (città dello sviluppo urbanistico delle periferie) avrebbe dovuto farci dimenticare la città grigia industriale. La trasformazione in senso terziario-turistico di Torino aveva bisogno di segnali forti. Siamo in piena costruzione delle Olimpiadi invernali del 2006, e nulla può essere più simbolicamente potente di un food market là dove l’operaismo e la produzione avevano scritto pagine di storia: il Lingotto. In fondo era già stato convertito dalla famiglia Agnelli a partire dai primi anni ‘90 in terziario polifunzionale con un centro servizi, l’area direzionale, alberghi, la Pinacoteca e un’area dedicata allo shopping.
È proprio dal connubio tra la Torino olimpica always on the move, Eataly e la gentrificazione dei quartieri torinesi (Quadrilatero, San Salvario e Vanchiglia) che nasce la gourmet gentrification sabauda.
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SOLUZIONE? TORINO CAPITALE DEL CIBO, OH YEAH!
Il quartiere di San Salvario è un caso emblematico di questa foodificazione, analizzato dal docente torinese Giovanni Semi in Gentrification – tutte le città come Disneyland? Si passa dalla ‹voglia di spranghe› degli anni ‘90, dove primeggiano degrado e afflusso di immigrati, alla ‹voglia di vino biodinamico› degli anni 2000, sospinta da un ‹utilizzo strategico e selettivo delle licenze commerciali› da parte dell’amministrazione pubblica. Proliferano gli eventi culturali e artistici che trasformano questa zona in una nuova Berlino, aumentano gli studenti e i creativi che abitano il quartiere (contribuendo all’aumento dei valori immobiliari) e muta di conseguenza il tessuto commerciale.
E così, per fare auto-citazione del nostro testo teatrale:
scompaiono le panetterie, chiude la latteria dove compravi il formaggio fresco il sabato mattina, lo storico rigattiere ferramenta lì all’angolo va in pensione, e vengono sostituiti dalla gastronomia francese, le gelaterie bio con caffetteria equo solidale, le immancabili birre artigianali e quei cariiiiiniiiii accessori con gomma di recupero.
L’offerta commerciale è modificata per sempre e
la via intrapresa è quella dell’imprenditore di se stesso (utile anche per la social reputation su Facebook) che usa il TFR FIAT dei genitori andati in pensione per costruirsi un futuro economico in una città sempre più paralizzata dalla crisi.
Secondo i dati registrati alla Camera di Commercio di Torino nel 2018, ci sono 18498 esercizi di somministrazione alimenti e bevande, con un incremento del 5,6% annuo. Di questi però tre su quattro chiuderanno entro cinque anni e uno di quei tre addirittura entro l’anno, per un totale di 1243 attività in meno (con relativi TFR parentali andati in fumo).
Tutto questo mentre Torino è diventata sul versante industriale ‹area di crisi complessa› (secondo definizione del Ministero): nel 2018 abbiamo registrato un -12% di grandi imprese in 5 anni, -7% delle medio grandi e, per non farci mancare nulla, un -8% delle medie piccole.
Dati ancora più recenti, forniti dalla FIOM a fine 2019, ci raccontano di circa 4000 lavoratori della città metropolitana di Torino che rischiano il licenziamento.
Nonostante questo, l’amministrazione cittadina (e su questo le giunte Chiamparino/Fassino del PD e quella Appendino del M5S sono andate in piena continuità) non ha mai tolto neanche per un attimo il piede dall’acceleratore, spingendo a un numero di giri sempre più alto la retorica su turismo e cibo come vettori di crescita economica: Fassino ci salutò prima delle elezioni per lui perdenti lasciando in eredità il Salone del Gusto-Slow Food all’interno del Parco del Valentino, fino ad allora interdetto ai grandi eventi fieristici.
Replicando lo schema Eataly-Lingotto del 2003, la concessione del parco pubblico è avvenuta a costo zero per gli organizzatori, che anzi ricevono finanziamenti pubblici indiretti attraverso il Comitato Salone del Gusto, che nacque il 18 maggio 2006 grazie alla volontà di tre soci fondatori (Regione Piemonte, Città di Torino e Slow Food Italia) al fine di ideare e progettare l’evento Salone Internazionale del Gusto. Per l’edizione del 2016, una delibera comunale di marzo dello stesso anno confermò l’erogazione da parte della Città di Torino della cifra di 400.000 euro, oltre che, udite udite, ‹l’esenzione totale dal pagamento del canone per l’occupazione del suolo pubblico relativo alle aree destinate all’organizzazione dell’evento Terra Madre Salone del Gusto 2016›.
Il duo Appendino-Sacco (sindaca e assessore al commercio) non si lascia scappare la ghiotta (è proprio il caso di dirlo) occasione: gli eventi di piazza legati al cibo, allo street food e all’esaltazione dell’autenticità gastronomica si moltiplicano a vista d’occhio. Nel 2018 viene lanciato il brand Torino capitale del gusto, con vette parossistiche come l’ideazione del claim #MmmTorino!, la promozione delle ‹food experience di alto livello›, per concludere con un video involontariamente comico in cui l’Assessore Sacco, presentando l’apertura del Mercato Centrale, ripete ossessivamente l’aggettivo ‹particolare› in riferimento al cibo e ai ‹ristorantini›.
Mentre il comune di Torino dedicava anima e corpo alla promozione del gianduiotto nel mondo, la distanza tra centro cittadino, dove trionfa l’ossessione per il decoro urbano (confutato dall’amico Wolf Bukowski in La buona educazione degli oppressi), e periferie si allarga: registriamo il peggiore tasso di disoccupazione del centro nord, avendo ormai quasi raggiunto, insieme a Genova, i livelli di Roma. Per quel che riguarda la disoccupazione giovanile, Torino è al 57° posto tra i Comuni italiani (22,6% sulla popolazione di 15-29 anni), e la stessa posizione ricopre nella classifica relativa all’ imprenditoria giovanile, con saldo zero di nascita di imprese Under 35. Da Fassino a Appendino abbiamo inseguito il titolo di Torino Capitale di Tutto ma l’unico record nazionale che deteniamo è quello degli sfratti (4000 di media dal 2012 a oggi). A livello di istruzione e servizi sociali diventa lampante lo stato della città se si oltrepassa il valico scintillante della bomboniera per turisti:
si polarizza nei quartieri a nord, verso cui vengono ‹espulsi› i poveri delle zone gentrificate, il tasso più alto di abbandono scolastico.
Il welfare pubblico ha subìto un calo del 30% negli ultimi 20 anni (ripensiamo alla retorica della new vision che ha attraversato questo ventennio) e guarda caso è proprio nelle periferie che si registra il più alto numero di famiglie bisognose di assistenza. Motivo principale? L’eredità olimpica in termini di debito pubblico del nostro Comune: 3.500 euro per ogni cittadino torinese.
Stop per un attimo a numeri e statistiche. Facciamo un piccolo viaggio in città con l’unica metropolitana che abbiamo, quella leggera che corre in superficie. Si perché c’è una leggenda tutta sabauda che vuole che ‹Giuanin Lamiera› non la vedesse proprio di buon occhio, ma questa è un’altra storia.
Torniamo al capolinea del 3 che sta per partire dalla zona pre-collinare, ricca per definizione: qui la speranza di vita è di 82,1 anni di media. Mentre il bus parte, ci addormentiamo leggendo lo studio epidemiologico a riguardo e ci risvegliamo all’altro capolinea, nel quartiere ex operaio e periferico delle Vallette, dove
la speranza di vita è crollata a 77,8 anni
Abbiamo perso 5 mesi a ogni fermata della metropolitana, ma soprattutto ci siamo dimenticati di scendere a Porta Palazzo, ultimo quartiere dato in pasto alla foodificazione selvaggia.
MERCATO CENTRALE, IL FOOD HALL CHE CANCELLA LA POVERTÀ
Porta Palazzo è un quartiere storicamente popolare: qui hanno trovato casa tutte le ondate migratorie, dal sud Italia e dal sud del mondo, antiche e recenti, di ogni colore e cultura. E qui ha sede il più antico mercato rionale d’Europa, nato nel lontano 1856.
Con una operazione che parte da lontano (a proposito di continuità politica tra le diverse giunte), il mercato è ora in trasformazione perché ‹in sofferenza›, secondo la definizione di Sacco, il succitato assessore al commercio pentastellato. La manovra è interessante perché paradigmatica dei processi che stiamo descrivendo: gli spazi pubblici vengono abbandonati, il quartiere diventa luogo di spaccio e criminalità tale che ‹una ragazza torinese sola sa che è meglio non frequentare› (La Stampa, 9 gennaio 2016), il mercato subisce la crisi del 2008 e la soluzione pubblica è presto trovata.
Si comincia con l’eliminazione degli attori che più infastidiscono alla vista, cioè i poveri e gli ‹sbandati›
viene sgomberato l’Asilo Occupato, ventennale occupazione anarchica, seguito a poche settimane di distanza dal condominio di Via Borgo Dora 39, a due passi dalla Scuola Holden. Negli spazi prospicienti l’università privata di Baricco, il mercato degli straccivendoli, da sempre ospitato al Balon, viene spostato in periferia, curiosamente vicino al Cimitero Monumentale di Torino.
Qui, secondo il progetto annunciato ai mass media locali, dovrà sorgere un parcheggio, ovviamente per turisti. Che andranno dove?
Beh, è ovvio: il 13 aprile 2019 viene inaugurato il Mercato Centrale di Torino, food hall nato a Firenze su idea di Umberto Montano, imprenditore responsabile della ‹riqualificazione› del quartiere San Lorenzo.
Il concept di questa società è molto semplice: si prendono aree abbandonate (come nel caso di Roma Termini) e si trasformano in una concentrazione di ‹postazioni food› dove ‹il cibo ha tante sfumature, quanti sono i nostri artigiani. Qui l’hamburger è tenace, il gelato è tenero, il vino è ambizioso›.
Lo storytelling del tipico e dell’autentico trabocca da ogni calice di vino che porta il nome del fondatore di questo spazio: il tutto, stando agli ideatori, in un dialogo continuo con la piazza del mercato, perchè tradizionale è bello, ma solo se servito da chef ‹stellati ma a buon prezzo›.
I prezzi del riso al profumo di tartufo, o della tartare di pesce crudo della pescheria più famosa di Torino, sono chiaramente inavvicinabili per gli abitanti del quartiere:
e come si definisce questa se non ‹ gentrification a colpi di food ›?
La nostra passeggiata non è però finita: dobbiamo ancora recarci a poche centinaia di metri di distanza nella ex caserma dei Vigili del Fuoco, rimasta vuota per diversi anni. Qui è appena stato inaugurato COMBO, l’ostello di lusso (con ristorante annesso, ca va sans dire) di proprietà dello stesso imprenditore che ha rilanciato il ristorante Il Cambio, uno dei più tradizionali (questa volta per davvero) del centro città.
E ORA, FINALMENTE, SI MANGIA!
O meglio, ora si sarebbe dovuto mangiare in questo splendido quartiere popolare e mercatale, magari proponendoci ironicamente la scelta tra una coccola di avocado e un bistrot all’italiana.
Invece ci ritroviamo tutti coinvolti nella quarantena che sta radicalmente mettendo in discussione le (ormai obsolete?) letture della realtà: siamo passati in poche settimane dal processo che tutto trasforma in locali carini e fiumane di consumatori di cibo e alcol, alla corona-distopia che capovolge quel mondo e lo trasforma in un inquietante e silenzioso vuoto.
Dal pianeta Foodification a una novella Atlantide sopra il livello del mare, dove la rigogliosa vegetazione di quell’isola utopica è sostituita da un altrettanto copiosa distesa di dehor e saracinesche abbassate.
Cosa succederà dopo?
Quante di queste attività potranno riaprire e in che modo?
Cosa ne sarà della Hipster economy e dei suoi attori economici e sociali?
Vi lasciamo con questi quesiti, pensando che un punto interrogativo sia il miglior interprete del momento storico che stiamo vivendo.