Confronti / 16 min
Fuga da Urras
Viaggio intergalattico dalle macerie dell'individualismo a un pianeta della cura
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Il narratore di Smarrimento, il romanzo di Richard Powers del 2021, è un astrobiologo che, tra le altre cose, inventa per suo figlio pianeti sparsi per l’universo, di cui descrive le forme di vita. Uno di questi pianeti è Xenia:
‹Su Xenia, l’intera specie di esseri intelligenti contribuiva con una piccola quantità di plasma germinale alla nascita di ogni nuovo bambino. […] Su Xenia, ognuno era il genitore di tutti gli altri e il figlio di tutti gli altri, la sorella maggiore e contemporaneamente il fratello minore di tutti. Quando una persona moriva, morivano tutti e nessuno. Su Xenia, la paura e il desiderio e la fame e la stanchezza e la tristezza e tutte le altre emozioni transitorie si perdevano in una grazia condivisa, allo stesso modo in cui le singole stelle si perdono nel sole diurno›.
Un fantasma, mi sembra, si aggira per il nostro tempo: quello dell’individualismo; o forse della sua fine. Come scrive Donna Haraway in Chthulucene,
‹Sostengo che l’individualismo nelle sue varie forme scientifiche, politiche e filosofiche è finalmente diventato impensabile da pensare: non è più una risorsa, né sul piano tecnico né su qualsiasi altro piano›.
E non è solo Donna Haraway a pensare che, in un modo o nell’altro, l’individualismo come principio fondante di una cospicua e potente parte del mondo sia destinato a finire. Anche Carlo Rovelli, nel suo Helgoland, suggerisce che l’Io possa essere ‹il residuo di una metafisica errata: il risultato dell’errore frequente di scambiare un processo per un’entità›. Il problema, però, è come finirà: saremo capaci di abbandonare questo strumento ormai inutile e dannoso, o ci faremo distruggere pur di non rinunciarci? Questa è anche la domanda che si pone proprio Powers nel già citato Smarrimento, in cui descrive, in un ipotetico futuro prossimo, la battaglia per l’ecologia (e non solo) di un ragazzino e di suo padre contro un governo USA che ritiene che ‹saggezza ed empatia siano complotti collettivisti per distruggere il nostro stile di vita›, il tutto nel quadro di una guerra civile a bassa intensità.
Gli Stati Uniti, in effetti, sono ancora una volta un laboratorio; e proprio da recenti avvenimenti negli USA è nata l’inquietudine che mi ha spinto a pensare a questo articolo. Il 6 gennaio 2021, come sappiamo, i sostenitori di Donald Trump hanno preso d’assalto il Congresso degli Stati Uniti e sono stati poi dispersi dalla polizia. Cinque persone sono morte, cinquantadue sono state arrestate e tredici ferite. Nel frattempo, gli account Twitter e Facebook dello stesso Trump venivano sospesi. Il tutto durante una pandemia in cui da più di un anno in Italia non c’erano praticamente state assemblee o grandi manifestazioni, e in cui una certa quantità di persone (quante siano è difficile da stimare) riteneva di vivere in una dittatura sanitaria che impone regole assurde.
Gli avvenimenti di Washington avevano provocato in me una sensazione di profondo disagio per varie ragioni, una delle quali mi sembra più problematica delle altre. Il fatto è che, in quei giorni, mi sono ritrovato schierato nella parte che desidera il mantenimento dell’ordine contro una rivolta. Intendiamoci: continuo a essere contrario all’uso di armi da fuoco, gas lacrimogeno e manganelli per disperdere una manifestazione, e non gioisco per le morti. Ma non posso nemmeno negare che avrei preferito che dei manifestanti armati, razzisti e negazionisti del COVID-19 non fossero riusciti nemmeno a entrare nel Congresso degli Stati Uniti. Lo stesso posso dire riguardo alla sospensione degli account di Trump sui social network: da una parte sono preoccupato da anni per lo strapotere di Facebook e Twitter (e Google), dall’altra, però, questa sospensione mi ha provocato una certa soddisfazione, dopo anni in cui gli account che venivano sospesi erano soprattutto quelli di compagne e compagni. Ma quando siamo diventati meno scomodi di Trump, se lo siamo diventati?
(Una breve parentesi: in questo articolo il ‹noi› verrà usato per indicare sostanzialmente tutto ciò che sta nel quadrante in basso a sinistra del Political Compass, e se questa vi sembra una definizione ingenua, imprecisa e in alcuni passaggi contraddittoria, è perché effettivamente lo è).
Questa sensazione di ritrovarsi improvvisamente dalla parte sbagliata della lotta per l’ordine e la disciplina non è iniziata nel gennaio 2021. Dall’inizio della pandemia, io e tutta la mia bolla di conoscenze siamo stati molto preoccupati e molto ligi nel rispettare i regolamenti, nella convinzione che la stragrande maggioranza delle limitazioni della nostra libertà personale fossero necessarie per difendere la collettività dalla malattia. Sono tuttora convinto di questa posizione, nonostante gli evidenti errori e ipocrisie del governo italiano e dell’UE. Nel frattempo, moltissime persone hanno invece ritenuto che i cambiamenti imposti alla loro vita fossero eccessivi, e alcune di queste decidevano che non ci si poteva fidare più di niente e di nessuno, tranne che di profili Facebook o canali Youtube autodefinitisi ‹fuori dal coro›. Il tutto ha prodotto strane alleanze, per esempio, tra insegnanti di Yoga e Qanon. Ora ci ritroviamo nel bel mezzo di una guerra tra Russia e Ucraina, durante la quale Vladimir Putin trova il modo di prendersela con la Cancel Culture, proprio come Elon Musk.
La più grande fonte di disagio, infatti, è leggere di sovranisti, nazionalisti, conservatori, antifemministi ecc. che si autodefiniscono ‹liberi pensatori›, ‹fuori dal gregge›, ‹gente che pensa con la propria testa›, oppure che straparlano della ‹dittatura del politicamente corretto›. Tutto ciò mi fa arrabbiare, prima di tutto perché è falso e apparentemente paradossale, come espresso in maniera esemplare da Ida Dominijanni in questo fondamentale articolo. Il mondo là fuori, infatti, è ancora violentemente razzista, maschilista, abilista, tossico, economicamente diseguale e non sostenibile– e ci sono persone che a causa di tutto ciò soffrono e perdono la vita. Ma poi, che senso può avere un anticonformismo che sostiene un miliardario eletto presidente degli USA? E ancora, negli anni in cui noi occupavamo piazze e università per protestare contro il governo e contro le privatizzazioni, i liberi pensatori dov’erano? Eppure, adesso mi ritrovo a rimpiangere il governo Conte (giusto un pochino), a gioire per Biden presidente (giusto un pochino), e a provare rancore contro chiunque si definisca ‹anticonformista›.
Questo processo non ha avuto luogo in un anno solo. Ricordo chiaramente quando, saranno stati sei o sette anni fa, venivo accusato di conformismo perché definivo razzista il pregiudizio contro le persone Rom, come se l’opinione comune o il potere politico fossero chiaramente contro questo pregiudizio, e i pochi eroi fossero quelli che, invece, avevano ‹il coraggio di parlare chiaro›. A quel tempo pensai che non era giusto che mi dovessi beccare sia le conseguenze del mio essere antisistema sia le accuse di conformismo; decidetevi, pensavo: o sono un ribelle da caricare in piazza o sono un servo del politically correct. Beh, sembra che si siano decisi, e che io sia diventato conformista, senza però che io mi senta tale, e soprattutto senza che ne goda i frutti, né a livello psicologico né a livello economico. Ma se non siamo conformisti e non siamo anticonformisti, allora cosa siamo? Che spazio occupiamo? Come è potuto succedere tutto questo?
Sia io che la mia bolla di conoscenze siamo cresciuti, abbiamo superato la lunga adolescenza/giovinezza occidentale, e siamo approdati all’età adulta, che, storicamente, è l’età dell’inserimento nel sistema e della fine delle ribellioni. Il problema è che nel nostro caso si è trattato di un processo poco omogeneo. Se per certi versi ci sentiamo evidentemente e chiaramente adultә, per altri ancora figliә, e le ragioni principali sono la precarietà economica e l’incertezza (nel migliore dei casi) per il futuro del pianeta. Basti pensare alle molte persone della mia generazione che desidererebbero generare dellә figliә ma sentono di non potere, che non è ancora il momento, e non sanno se questo momento arriverà mai (ma possiamo pensare anche alla difficoltà, a livello sociale, nel prendere la decisione di non avere figliә).
Uno dellә autorә che più e meglio ha descritto tutto questo in Italia è Zerocalcare, che ha la capacità di mostrare in una sola immagine la nostra condizione disegnandoci come grossi bruchi che non sono riusciti a diventare farfalle, circondati da farfalle ormai anziane che, nel migliore dei casi, ci guardano con amore e preoccupazione. Zerocalcare descrive questa condizione in molte delle sue opere (forse in tutte), ma mi riferisco qui in particolare ai due volumi di Macerie prime, i cui protagonisti, un tempo ribelli, si trovano a impiegare molto tempo a provare a mettere insieme i pezzi sparsi delle loro vite in un mondo che, ai loro stessi occhi, appare postapocalittico (ma quale è stata l’apocalisse, quando è successo tutto?). Questo tentativo di diventare adultә comporta però dei sacrifici, che a volte vanno a toccare il cuore di ciò che i personaggi erano, come singoli e come comunità. Il problema cruciale infatti sta proprio qui: la libertà individuale in una società iniqua si traduce spesso in poco più della libertà di lottare tra di noi per ciò che rimane delle macerie.
È proprio quest’opera di Zerocalcare, però, a mostrarci una possibile risposta politica al nostro disagio, e quindi un orizzonte politico per il quale potrebbe valere la pena lottare: la cura, l’attenzione verso la sofferenza altrui. Prendersi cura delle persone e degli esseri viventi con cui tessiamo relazioni, cercando di ridurre il più possibile la loro sofferenza. Zerocalcare non è il primo a dirlo, e non lo sono nemmeno io, ovviamente (e non è detto che io e lui saremmo d’accordo su tutto). Per esempio, nel 2021 un collettivo chiamato Care Collective ha pubblicato The Care Manifesto – The Politics of Interdependence, tradotto in italiano come Manifesto della cura, in cui si approfondisce la necessità di porre il concetto di cura al centro dell’azione politica. Qui vorrei concentrarmi su quanto un’idea simile possa essere radicale, potente, e, forse, di nuovo rivoluzionaria e conflittuale.
Una ragazza tedesca che conobbi in Erasmus nel 2013 mi disse che, secondo lei, la libertà non esisteva. Allora non capii esattamente cosa intendeva, e le dissi che in realtà lei mi sembrava una persona libera. Si mise a ridere, e non approfondimmo; ma adesso capisco che aveva ragione: avere come orizzonte la cura significa superare un’idea di libertà individuale che ci accompagna almeno dalla rivoluzione industriale e che ha profondamente segnato il nostro immaginario occidentale, come ha mostrato in maniera molto chiara Amitav Ghosh nella Grande cecità. Si tratta di quella stessa idea sacra di libertà individuale che, nei suoi esiti più importanti e positivi, ha prodotto il ’68 e soprattutto la maggiore libertà di cui godiamo ancora oggi per quanto riguarda le relazioni private.
Ma la stessa idea di libertà individuale ha anche prodotto un’idea di vita non sostenibile a lungo termine, egoista e in parte violenta, che è in fondo quella visione del mondo che viene implicitamente criticata nel termine boomer. Questa idea di come sia una vita che vale la pena vivere si esprime in immaginari come quello del rock and roll, dell’automobile o della motocicletta come strumenti di libertà, delle sigarette e dell’alcool come simbolo del qui e ora, del consumo smodato di carne, del rifiuto del salutismo e dell’ecologia. Una specie di eterno presente in cui gli altri non esistono, e al futuro si pensa il meno possibile. Ma è anche, d’altra parte, un immaginario che considera il lavoro il principale strumento di emancipazione individuale contro il mondo, grazie al quale mostrare il proprio talento in una società competitiva, e al quale sacrificare buona parte della propria vita È il mito del self-made man, del ‹sii protagonista›, del singolo che deve distinguersi dalla massa, la quale diventa quindi oggetto di disprezzo da parte di… chiunque. Si tratta in ogni caso di scelte che comportano una rimozione: so che fa male a me o a qualcun altro o al pianeta, so che se io vinco qualcunә perde, so che non è sostenibile, ma lo faccio lo stesso. Un anticonformismo praticato da tuttә, che rifiuta l’idea di comunità più che quella di autorità.
Tempo fa lessi su D di Repubblica un articolo, che non saprei ritrovare, in cui venivano intervistate varie madri preoccupate perché lә loro figliә i erano, secondo loro, troppo asceticә: ordinatә, pulitә, studiosә, veganә, ecologistә. Incomprensibili per lә loro genitorә. La loro era la stessa paura espressa da Jack Nicholson (non a caso uno dei simboli della controcultura libertaria anche grazie al meraviglioso Easy Rider) quando affermò che ‹L’America sta diventando una piatta società di vegetariani, astemi e puritani. Io credo nella carne rossa, nel vino e nelle donne›.
Si tratta, come si vede chiaramente, di miti che hanno la loro rappresentazione migliore negli Stati Uniti, ma che valgono anche qui da noi. Persino Fabrizio De André ha espresso in parte questo tipo di immaginario: lui stesso disse in un’intervista che aveva sempre vissuto ‹cercando di accumulare più rimorsi che rimpianti›. Cito De André proprio perché è uno dei miei miti, e nelle sue canzoni esprime un orizzonte di relazioni e cura delle emozioni. Insomma, non sto sostenendo che tutto l’immaginario del Novecento sia da buttare via: al contrario. Però vorrei che il passato venisse superato, perché non posso fare a meno di chiedermi quanto una frase come quella di De André sia l’opposto del modo in cui io sto vivendo la mia vita, accumulando molti più rimpianti che rimorsi. E alla fine mi va bene così, perché avere un rimorso significa quasi sempre aver provocato dolore a qualcunә, e io sinceramente preferisco aver fatto meno male possibile.
Ora, non voglio sostenere che quello che Nicholson definisce puritanesimo sia l’unica ricetta per diventare persone che hanno come orizzonte politico una società della cura. Anche perché, rispetto al puritanesimo e all’ascetismo cristiano, dovremmo conservare e promuovere la libertà nelle relazioni private, duramente e ancora non completamente conquistata grazie alle lotte del femminismo. Inoltre, a differenza del Cristianesimo, io non credo che la sofferenza sia da abbracciare, ma anzi, che il dolore vada ridotto il più possibile, come esprime Francesco D’Isa nel suo bellissimo articolo su Ivan Illich. D’altra parte, è ormai evidente che lo stile di vita dei boomer occidentali non è sostenibile, né a livello sociale né a livello ambientale. Tanto per dirne una, se in futuro lә abitanti della Terra vorranno potersi muovere non potranno farlo tutti a bordo di auto private che sfrecciano su strade deserte come si vede nelle pubblicità. E quindi, cosa potremmo diventare, se volessimo staccarci da questo immaginario, ma da sinistra, senza rinunciare alla possibilità di costruire un’identità unica e relazioni libere da dogmi, ma senza dimenticare la responsabilità connessa a ogni nostra azione?
Credo che le domande fondamentali siano sostanzialmente due. La prima: una società governata in maniera dittatoriale può permettere il superamento dell’individualismo? La Cina, in questo senso, sembra aver affrontato l’emergenza COVID-19 in una maniera molto efficace, limitando al massimo le libertà individuali, imponendo sacrifici alle persone, in nome del bene della collettività. Eppure, credo che questa non sia una via che permetta di superare l’individualismo, anzi: le dittature soffocano le libertà individuali di una parte della popolazione, ma gonfiano l’ego dei dittatori e delle classi dominanti.
Un’idea di società che potrebbe permettere il superamento dell’individualismo tossico, invece, si può trovare nella cultura anarchica: da secoli l’anarchismo ci mostra come moltissime persone nella storia abbiano lottato con responsabilità, e purtroppo spesso con grandi sacrifici, per un’idea di libertà collettiva.
Uno dei libri che mi ha cambiato più profondamente è The Dispossessed, di Ursula K. Le Guin, tradotto in italiano come I reietti dell’altro pianeta. Questo libro descrive un sistema di pianeti gemelli, Urras e Anarres. Urras è un pianeta verde, ricco di risorse, e dominato da un’economia di tipo capitalista, con forti disuguaglianze. Anarres, in origine una luna disabitata, viene occupata dagli Odoniani: persone anarchiche provenienti da Urras che, guidate dagli scritti della fondatrice Odo, erano diventate talmente scomode per il sistema politico da essere spedite su quel satellite inospitale, dove creano una nuova società compiutamente anarchica.
Ora, chiedo a chi non ha letto il libro di fermarsi e immaginare un intero pianeta totalmente anarchico. Bene: l’autrice l’ha immaginato come uno spazio pacifico, organizzato, in cui la condivisione è il principio fondamentale. Su Anarres non esiste denaro, ‹profittatore› è l’insulto più grave che si possa lanciare, e tutto ciò che puzza di individualismo è visto sotto una cattiva luce. Tutte le persone si vestono e mangiano praticamente nello stesso modo (sostanzialmente vegano) e non bevono alcolici. Anarres è un mondo in cui le persone scelgono liberamente dove vivere, che relazioni avere (anche per quanto riguarda l’orientamento sessuale), che lavoro fare, ma in cui tutte le persone lavorano duramente, senza che esista uno stipendio. La loro condizione è infatti profondamente legata a quella del loro pianeta, Anarres, che è arido, privo di animali terrestri, reso vivibile solo attraverso il continuo duro sforzo di chi lo popola (un impegno fisico, ma anche scientifico e tecnologico: Anarres non è un’utopia primitivista).
Il mondo di Anarres si regge soltanto sulla collaborazione, sullo sguardo delle altre persone, il loro giudizio, il modo in cui si comportano le une con le altre. Nient’altro: niente polizia, niente tribunali, niente eserciti. Solo lo sguardo dei fratelli e delle sorelle. Un mondo profondamente conformista, come lo stesso protagonista del romanzo, Shevek, capirà molto bene, tanto da compiere la scelta, sofferta, di andare su Urras. Anarres non è perfetto, insomma, perché le persone non sono perfette per natura, così come Urras (e il nostro mondo capitalista) non è un inferno, perché le persone non sono malvagie per natura. Ma sia io che Shevek rimpiangiamo Anarres, perché, come dice lui stesso nel libro:
‹Su Anarres niente è meraviglioso, niente tranne le facce. Le altre facce. Gli uomini e le donne. Non abbiamo niente tranne questo, niente tranne le altre persone›.
Come dice Ida Domijanni, questa volta qui sulla Terra: ‹Non se ne verrà a capo senza mettere in campo un’altra idea di libertà, dove l’altro non è limite ma incremento della libertà di ciascuno, e la politica è ambito e condizione del suo esercizio›.
E qui veniamo alla seconda domanda cruciale: una società della cura che superi l’individualismo è per forza una società conformista? La risposta credo sia, almeno in parte, sì. Ma è davvero un prezzo troppo alto da pagare per un mondo più giusto, più pacifico, più gentile? Il nostro pianeta era Urras, ma sta diventando sempre di più Anarres: sempre più estremo, complicato, difficilmente abitabile. Forse è giunto il momento che anche noi diventiamo più simili agli Anarresti e adottiamo uno stile di vita compatibile con un pianeta meno generoso: uno stile di vita semplice nei consumi e complesso nelle relazioni, mutualistico, collettivista, basato sulla cura del prossimo e del pianeta, egualitario e quindi sì, in un certo senso anche conformista. Un’anarchia simile a quella immaginata e praticata da Simone Weil, basata su relazioni libere e intense, e su un costante esercizio di responsabilità. Un equilibrio dinamico, sfuggente, difficile.
In questo senso, la pandemia di COVID-19 potrebbe davvero rappresentare una formazione, terribile, alla responsabilità collettiva, alla riduzione dei bisogni, all’attenzione verso le conseguenze delle nostre azioni, rappresentate sulle linee di un grafico in cui noi, come persone singole, non contiamo nulla. Come scrive Le Guin:
‹È la nostra sofferenza che ci porta insieme. Non è l’amore. L’amore non obbedisce alla mente, e diventa odio quando viene forzato. Il legame che ci unisce è al di là della scelta. Noi siamo fratelli. Siamo fratelli in ciò che condividiamo. Nel dolore, che ciascuno di noi deve soffrire da solo, nella fame, nella povertà, nella speranza, conosciamo la nostra fratellanza. Lo sappiamo, perché abbiamo dovuto impararlo›.
Pensiamo anche a come Internet e la connessione costante possano andare a completare e complicare l’idea di un mondo come Anarres. Nel maggio 2020, Nicola Pedrazzi su Minima&Moralia interpretava la figura di Chiara Ferragni come quella di una creatura non del tutto umana perché priva di interiorità, priva di qualcosa che non sia osservabile e messo in scena. Non so se è così nel caso di Ferragni, e non mi interessa neanche molto, anche perché anche Internet oggi è dominato da logiche di profitto. Quello che mi interessa è chiedermi: una creatura sempre connessa e sempre esposta può fare del male a un’altra creatura? Se la risposta è no, allora l’interiorità per come l’abbiamo intesa finora è davvero un prezzo troppo alto da pagare per la creazione di un mondo più pacifico, più empatico? Davvero il (presunto) conformismo delle generazioni successive alla mia, cresciute in un mondo iperconnesso, è un problema?
Millenials, il romanzo del collettivo La Buoncostume, inizia in un mondo in cui, all’improvviso, tutti coloro che hanno più di diciotto anni precipitano in una specie di coma. Alla fine del romanzo, nel nuovo mondo che si è creato, tutte le persone possono percepire le emozioni di chi hanno vicino. Non poter mai nascondere le proprie emozioni: riuscite a immaginare una violazione più grande della libertà personale? Curiosamente, anche in Smarrimento di Powers il protagonista inventa per suo figlio un mondo simile: un pianeta in cui i cromatofori sulla pelle di tutte le persone (le stesse cellule che fanno cambiare colore alla pelle dei polpi e delle seppie) reagiscono ai loro pensieri e emozioni, impedendo loro di nasconderli o mentire. Un mondo del genere mi sembra essere l’incubo di molte persone, e il sogno di alcune.
Permettetemi quindi un’ultima considerazione un po’ paradossale. Forse Anarres, con la sua sorveglianza reciproca collettiva costante, o Xenia, oppure il mondo di Millenials, con la sua empatia inevitabile, sono orizzonti politici che potrebbero toglierci dalla scomoda posizione di conformismo in cui ci siamo ritrovati, e farci tornare nella posizione che le persone come noi hanno sempre occupato con orgoglio nel corso dei secoli: quella di reiettә di un altro pianeta. A meno che non riusciamo davvero a cambiare il nostro modo di abitare questo pianeta: in quel caso potremmo essere finalmente felici di essere ciò che già siamo: personaggi unici e inimitabili di una storia che non ha protagonisti.
A day so dark, so warm
Life that comes of no harm
You and I and dominoes, time goes by…
(Syd Barrett, Dominoes, 1970)