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La pandemia degli slum

La pandemia di COVID-19 ha raggiunto l'Africa. Nelle baraccopoli il distanziamento sociale è impossibile: bisogna ripensare gli spazi urbani per evitare la catastrofe.

La pandemia degli slum

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Siamo nel mezzo di quello che è stato chiamato ‹picco› dei contagi da COVID-19, una situazione di emergenza che ha messo a dura prova il sistema sanitario lombardo e sta mobilitando tutto il paese. Per far fronte alla crisi, il governo nazionale e le regioni hanno varato una serie di decreti, uno più stringente dell’altro, basandosi su un semplice principio: il contagio avviene per via aerea, quindi va limitato il contatto tra soggetti. Quanto vada limitato è difficile stabilirlo dato l’enorme impatto che un divieto totale avrebbe sulla salute psicologica dei cittadini e sull’economia. Si va dunque per gradi, limitare i danni entro una certa sostenibilità. I gradi di priorità assegnati nei vari paesi affetti dal contagio variano molto, dal modello cinese di lockdown totale delle aree più coinvolte a quello britannico. 

Ora che COVID-19 sta tristemente facendo il suo ingresso anche in Africa, è difficile stabilire quale possa essere un modello di risposta africano. Data la complessità di un continente come l’Africa è plausibile che non ci sia un modello unitario ma atteggiamenti diversi dei vari paesi che sono culturalmente e economicamente diversi tra loro, nonostante la narrazione occidentale li appiattisca spesso sotto la loro definizione di continente.

Una caratteristica – e un probabile punto di vulnerabilità – che è comune in molti paesi africani però è un dato che emergeva già da tempo, ovvero che la popolazione negli ultimi anni si sta spostando sempre di più dalle aree rurali verso le città. Le Nazioni Unite hanno stimato che nel 2018 la popolazione mondiale residente nelle città è il 55,3% del totale, e che diventerà il 60% nel 2030. Una persona su tre vivrà in città al di sopra del milione di abitanti. Le città che stanno crescendo più intensamente e rapidamente sono in Asia e Africa: tra le prime dieci più popolose nel 2030 si stimano il Cairo (Egitto) con 25.517.000 di abitanti (erano 20.076.000 nel 2018), e Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo) con 21.914.000 (13.171.000 nel 2018). Parallelamente, i paesi dell’Africa subsahariana saranno responsabili per metà della crescita di popolazione mondiale tra il 2019 e il 2050.

Perché è opportuno riflettere su questi dati in relazione all’emergenza Coronavirus? Perché se il contagio si basa sulla vicinanza dei soggetti, la dimensione e la struttura delle città africane è di fondamentale importanza, e non è possibile parlare di misure anti contagio senza prendere in considerazione la parte più densamente popolata delle città (africane e non): gli slum.

Concentrazione di slum nel mondo. University of Chicago.

Fabrizio Floris nel suo saggio li chiama ‹eccessi di città›, affiancati a forme di insediamento come le periferie e i campi profughi. ‹Eccessi› rispetto alla parte di città ricca e moderna, che nel caso dell’Africa raramente trova spazio nell’immaginario occidentale, secondo il quale il continente africano è un’immensa distesa di territori poveri: città come Nairobi, Johannesburg o Lagos sono immensi hub economici che non hanno niente da invidiare alla modernità delle capitali del Nord del mondo. Forse proprio per questo lo slum spicca così tanto: le baracche di Kibera, uno degli slum più grandi al mondo, stridono con il lussuoso campo da golf confinante, impossibile non notare il contrasto tra classi così distanti socialmente ma geograficamente vicine.

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Slum, bidonville, favela sono alcuni nomi per tutte quelle aree ai margini della città. In queste condizioni è difficile immaginare un lockdown, per varie ragioni. In primo luogo la sopravvivenza nelle baraccopoli è basata su quel che si dice economia informale: piccole attività commerciali e servizi che non rientrano appieno nella contabilità ufficiale e rendono poco, il tanto che basta per vivere. Dalla bancarella sulla strada al moto taxi, è un tipo di economia che si basa sulla socialità e sui rapporti locali. Del resto abbiamo visto che anche in Italia a soffrire dei decreti sono soprattutto i piccoli negozi che devono avere un certo afflusso per stare a galla. C’è poi una questione legata al modo in cui si occupano i terreni: negli slum sono di proprietà dello stato, che li affitta ai proprietari della baracca che a loro volta affittano la baracca agli abitanti. La possibilità di avere un tetto sopra la testa è vincolata alla possibilità di lavorare, oltre al fatto che il modo in cui si abita nelle baracche rende improbabile adottare la soluzione del non uscire, adottata nei paesi europei (dove già spiccano le differenze tra classi più o meno abbienti): la baracca è condivisa e a ridosso di altre baracche in un sovraffolamento generale che rende inutile il ‹restare a casa›.

Il social distancing che si sta già cercando di implementare in queste aree, inoltre, pone una serie di punti critici, non da ultimo quello culturale. L’Africa è in continua trasformazione e soprattutto nei centri urbani emerge già da tempo il problema della dissociazione: da un lato l’antica struttura sociale basata sulla collettività, dall’altro l’irrompere di una nuova cultura fondamentalmente individualista. Per molti il passaggio da aree rurali a spazi urbani è avvenuto bruscamente nell’arco di una generazione, lo stesso vale per l’accesso a Internet e ai social network che portano tutto un mondo sotto vari aspetti in contraddizione con la società africana tradizionale. La socialità è forse quello che resta della dimensione collettiva, negarla completamente da un momento all’altro non solo è destabilizzante ma è difficilmente realizzabile: significa tagliare di netto tutti i legami che compongono il complesso ecosistema della baraccopoli.

Per contenere il contagio è anche raccomandato di lavarsi spesso le mani e questo semplice gesto diventa un problema in situazioni in cui l’accesso all’acqua pulita non è scontato: così come in certe aree rurali, anche negli slum le abitazioni non sono dotate di acqua corrente e, anzi, il sistema idrico e fognario è da sempre un punto debole. A questo si aggiunge la lacuna di strutture sanitarie, o meglio, la loro scarsa accessibilità alle fasce di popolazione più marginalizzate, per carenza di fondi nella sanità pubblica o per prevalenza del settore privato e quindi a uso esclusivo di alcune fasce di reddito. È un altro dei problemi presenti in Africa come nel resto del mondo: in occasione dell’emergenza Coronavirus anche in Europa c’è un grosso dibattito sulla disponibilità di cure nei vari paesi.

Un’emergenza sanitaria in tutto il mondo si lega al modello di sviluppo dominante e quanto più forti sono le diseguaglianze che questo modello produce, tanto più evidenti saranno in una pandemia che coinvolge tutti, ricchi e poveri. Il modello capitalista tende naturalmente al divario, se da un lato c’è chi accumula dall’altro c’è chi ha poco. L’emergenza COVID-19 ha messo in luce tutte le carenze del neoliberismo – ovunque nel mondo e soprattutto dove la differenza è grande – forse per questo è fondamentale ricominciare a metterlo in discussione.

 

Photo by bennett tobias on Unsplash