Hot topic / 8 min

Coronavirus, ‹commissione dio› e tagli alla sanità. Chi decide chi muore e chi vive?

La società italiana di anestesia ha stabilito i criteri per l’accesso alle terapie intensive nel caso in cui i posti si esaurissero: possibilità di sopravvivenza e prospettiva di vita. L'ordine dei medici è contrario: tutti i pazienti sono uguali e vanno curati senza discriminazioni.

Coronavirus, ‹commissione dio› e tagli alla sanità. Chi decide chi muore e chi vive?

parole di:

immagini di:

Nel maggio del 1962 Shana Alexander si trova allo zoo di Portland per scrivere della nascita di un piccolo elefante, quando riceve una telefonata dal caporedattore di Life, il settimanale per cui scrive, che le raccomanda di recarsi a Seattle. La redazione aveva letto un articolo del New York Times, questo, in cui si riportava il caso di una commissione ospedaliera che stabiliva quali pazienti potessero essere curati e sopravvivere, e quali invece dovessero essere destinati a morire. L’articolo riportava una presentazione che il dottor Belding H. Scribner aveva fatto alla conferenza dell’American Society of Clinical Investigation, a Atlantic City, in cui solo per caso faceva riferimento a questa commissione che decideva l’ammissione dei pazienti a certe cure limitate. Così la giornalista Shana Alexander, una delle poche reporter donne dell’epoca, si trasferisce a Seattle e per sei mesi intervista medici, infermieri, pazienti e membri della commissione, per scrivere l’articolo più lungo che Life avesse mai pubblicato: Loro decidono chi vive, chi muore. Un miracolo medico e un peso morale su un piccolo comitato

Life – 9/11/1962

Per caso il mondo aveva scoperto l’esistenza della ‹commissione dio› (God Commission)

e Alexander raccontava nei dettagli il terribile peso che doveva portare. Erano passati due anni da quando a un operaio di 39 anni era stato impiantato uno shunt arterovenoso, che gli consentiva di essere attaccato a una macchina capace di ripulire il sangue da tutte le tossine che i suoi reni non erano più capaci di eliminare. Era nata l’emodialisi. 

Il procedimento era stato inventato proprio dal dottor Scribner con l’assistenza di un ingegnere biomedico, Wayne Quentin. Sebbene la dialisi fosse stata inventata in Olanda durante l’occupazione nazista, poteva essere usata solo poche volte e per intossicazioni accidentali. Scribner l’aveva perfezionata e aveva reso possibile il suo uso duraturo nel tempo. Se prima i pazienti con insufficienza renale erano destinati alla morte, adesso potevano tornare a vivere una vita tranquilla, con un’aspettativa di vita quasi pari alla norma. Ma c’era un problema: mancavano i fondi. 

I costi vennero stimati tra i 10.000 e i 20.000 dollari per paziente all’anno (oggi in Italia il costo annuale del trattamento di emodialisi per paziente si aggira intorno ai 45.000 euro). Il dottor Scribner riuscì a trovare 100.000 dollari, e nel gennaio del 1962 il reparto di emodialisi aprì allo Swedish Ospital di Seattle. Il centro aveva solo nove posti letto e un budget limitato:

come fare a curare tutti?

Così il consiglio di amministrazione decise di istituire due commissioni. Una di natura medica, che avrebbe selezionato i pazienti che erano sia fisicamente che mentalmente idonei al trattamento. E una seconda commissione, la Admissions and Policy Committee, che avrebbe invece scelto tra gli idonei coloro che avrebbero davvero avuto accesso alla dialisi. Questa seconda commissione era composta da sette membri di vario background (avvocati, medici, religiosi, sindacalisti e anche una casalinga). Invece che mettersi d’accordo su dei criteri astratti, la commissione valutava caso per caso, prendendo in considerazione parametri personali, sociali, psicologici e economici. Nessuno dei membri sapeva il nome dei malati o li conosceva di persona. Con il tempo però concordarono su alcuni punti: per accedere alla dialisi si doveva essere residenti nello stato di Washington, perché erano stati i contribuenti di quello stato a finanziare la ricerca. Stesero poi una lista di considerazioni per loro rilevanti: l’età, il genere, lo stato civile, il numero dei figli a carico, il reddito annuo, gli studi effettuati, l’occupazione, la storia personale e il potenziale futuro. Così nacque la commissione dio. 

Se le risorse sono limitate e non si può curare tutti, quali sono i criteri per fare una scelta? 

Il problema che sembrava sepolto sotto i fasti del progresso scientifico e tecnologico ritorna oggi su tutti i giornali a causa del coronavirus che imperversa per il mondo. I posti in terapia intensiva sono limitati, se il numero dei malati bisognosi di questa cura supera il numero dei posti, come scegliamo chi collegare a un respiratore e chi no?

Possiamo porci due ordini di domande. La prima, che non è urgente oggi, ma che lo diventerà una volta finita la fase emergenziale, è questa: 

come abbiamo fatto a ridurci a questo punto? 

Come è stato possibile che avessimo così pochi posti a disposizione? Che nessuno abbia pensato a una possibile emergenza di questo tipo? Mentre nel caso della dialisi è stato l’avvento di una nuova tecnologia a porre il problema di chi salvare (prima in ogni caso morivano tutti), in questo caso è stata o la poca previdenza nella pianificazione di situazione di emergenza o il taglio ai fondi della sanità che a un certo punto, se la situazione non migliora, imporranno di dover decidere chi muore. Come è possibile che uno stato che spende miliardi di euro l’anno non abbia pensato di provvedere all’acquisto di strumenti di protezione della popolazione o di attrezzature mediche da campo? Fa piacere scoprire che se dovessimo subire un attacco militare, più che per le bombe, moriremmo per le poche attrezzature mediche disponibili. Ma soprattutto una volta finita questa situazione emergenziale, 

dovremmo riflettere su come abbiamo trattato il nostro sistema sanitario.

Vittima di tagli a ogni cambio di governo, c’è da stupirsi di come abbia retto fin qui. La ristrutturazione del sistema sanitario è stata sinonimo di riduzione dei posti letto, senza davvero offrire alternative valide, come assistenza domiciliare e servizi di monitoraggio a distanza. Abbiamo chiuso ospedali, tolto posti letto, pregando che situazioni come queste non avvenissero mai. O forse credevamo davvero che fossimo immuni, invulnerabili. Forse il progresso ci aveva fatto dimenticare che anche noi potevamo essere vittime di epidemie e malattie. Ebola, sars e mers hanno sempre colpito paesi lontani, con condizioni igieniche precarie. I barbari appunto. L’occidente si è potuto permettere di criticare i vaccini, perché ha creduto nelle magnifiche sorti che la scienza e la medicina lasciavano intravedere. Oggi ci riscopriamo deboli. No non siamo onnipotenti e invulnerabili e abbiamo sbagliato a pensare di poterlo essere. Forse converrà investire più risorse in ricerca, istruzione e sanità di quanto abbiamo fatto prima. 

L’altra domanda è quali siano i criteri con cui si può fare una scelta. La commissione dell’ospedale di Seattle utilizzava come criterio quello della residenza nello stato di Washington, e dunque di aver finanziato con le proprie tasse il programma di ricerca della dialisi. Il richiamo a un simile criterio è forte anche oggi. 

È lo stesso principio che oggi viene richiamato quando si dice prima gli italiani. 

Si merita di essere curati perché si è nati in un certo posto piuttosto che in un altro, perché si pagano le tasse, perché si è membri attivi della comunità. Un principio che è escluso però categoricamente dalla nostra costituzione, che all’articolo 2 riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, non del cittadino, ma dell’essere umano in quanto tale, a prescindere da ogni condizione materiale, sociale e personale. Tra questi diritti inviolabili c’è anche quello alla salute.

Ciò ovviamente non protegge dal dover fare una scelta. Si può essere nelle condizioni di dover per forza scegliere qualcosa. Due sono fondamentalmente gli atteggiamenti e le posizioni in campo. Da un lato chi crede che rispettare la vita umana voglia dire dare a tutti la stessa possibilità di sopravvivere, e che dunque una scelta tra chi curare e chi lasciar morire non possa mai essere fatta. Rispettare tutti vuol dire non preferire nessuno. Lascio dunque decidere il caso: first come, first served, recita in modo politicamente corretto l’adagio inglese. Chi tardi arriva, male alloggia, diremmo noi in Italia. Dunque chi prima si ammala prima avrà un posto. Pace all’anima di chi si ammala per ultimo e troverà tutti i posti già occupati. Oppure si lascia decidere il caso con il lancio di una monetina, o con i numeri della tombola. Tutti hanno la stessa probabilità di essere estratti e di essere salvati, ma è il caso che deciderà chi premiare.

Oppure qualcuno si assume l’onere di scegliere chi salvare. Il criterio può essere chi risponde meglio alle cure, chi avrà un’aspettativa di vita maggiore con una qualità della vita sufficientemente alta, chi può ancora contribuire alla società. Sono i cosiddetti qaly (quality adjusted life per year), che tengono conto sia della durata di vita attesa, sia della qualità di vita che si potrebbe avere. È un criterio di scelta, e come tale è passibile di critiche e può sembrare ingiusto. Così come lasciare decidere al caso potrebbe sembrare un’abdicazione al nostro status di esseri capaci di compiere delle scelte.

Le due posizioni sono rappresentate sul piano scientifico da un lato dalla SIAARTI, la società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva, che il 6 marzo 2020 ha rilasciato un documento in cui stabilisce dei criteri per l’accesso alle terapie intensive nel caso in cui i posti si esaurissero. I criteri presi in considerazione sono in sostanza la possibilità di sopravvivenza e la prospettiva di vita, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone. Scrive la società: In uno scenario di saturazione totale delle risorse intensive, decidere di mantenere un criterio di first come, first served equivarrebbe comunque a scegliere di non curare gli eventuali pazienti successivi che rimarrebbero esclusi dalla Terapia Intensiva. Dall’altro la FNOMCeO, la federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, che il giorno dopo la pubblicazione del documento della SIAARTI scrive, per mano del suo presidente Anelli, che sebbene sia chiaro il dolore con cui gli anestesisti scrivono il loro documento, la guida deve essere sempre il codice deontologico, e il Codice parla chiaro: per noi tutti i pazienti sono uguali e vanno curati senza discriminazioni. E dunque senza riferimento alla speranza di vita e di guarigione.

Al di là del fatto di quale sia il criterio migliore, è interessante notare che tutta questa discussione è praticamente scomparsa dal dibattito pubblico. I due interventi sono passati inosservati. E se se ne discute lo si fa senza né capo né coda. 

La bioetica ha discusso di questo tema per decenni 

dato che questo è stato uno dei problemi che ha dato origine alla disciplina. Nessuno studioso di bioetica, in università pubbliche e private è stato interpellato. Ma gli opinionisti (e gli astrologi) non sono mancati. Non si ha notizia se il comitato nazionale di bioetica, organo della presidenza del consiglio dei ministri, sia stato o meno interpellato. Ciò dimostra la superficialità del dibattito italiano. E del suo giornalismo, interessato a fare vendite e sensazionalismo, piuttosto che vera e propria informazione. Il comportamento degli italiani di questi giorni è stato dettato anche da come la vicenda è stata raccontata dai maggiori giornali. Quando tutto tornerà calmo dovremo riflettere anche su questo.

Avremo molto su cui riflettere, quando tutto sarà finito.