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Tolo Tolo: Checco Zalone e il manuale del razzista ingenuo.
Tolo tolo, il film di Checco Zalone, non è un film di sinistra. Continua a normalizzare stereotipi razzisti.
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Si è appena concluso il primo weekend al cinema per l’esordio come regista del comico pugliese Luca Medici, alias Checco Zalone. Tolo Tolo è protagonista del dibattito pubblico, a partire dal teaser, il singolo Immigrato, che ha diviso l’opinione pubblica tra chi lo osanna e chi lo condanna, portando alla luce uno dei tanti problemi che caratterizzano il dibattito pubblico italiano: l’accettazione passiva e la normalizzazione dello stereotipo, soprattutto quando si parla di Africa e migrazioni.
L’industria cinematografica riflette i nostri pregiudizi e stereotipi e ne contribuisce alla creazione, basti pensare in questo caso alla rappresentazione caricaturale e estremamente offensiva della comunità afroamericana, descritta come culturalmente e economicamente povera, relegata nei ghetti. Checco Zalone con il suo Tolo Tolo alimenta l’ennesima narrazione tossica, quanto carica di stereotipi sulle migrazioni e sull’Africa, a partire proprio dal teaser.
Nel singolo il comico racconta la giornata di un italiano a contatto con un immigrato, descritto secondo i classici cliché razzisti in cui il dibattito sui migranti si è fossilizzato, per la gioia dei sovranisti.
Zalone all’uscita di un supermercato viene fermato da un uomo, nero, che si offre di portargli il carrello della spesa con insistenza quasi molesta, nonostante i ripetuti rifiuti.
Da allora sembra quasi tormentarlo, accompagnandolo in diversi momenti della sua giornata, prima offrendosi di fargli il pieno di benzina, poi per pulire il parabrezza della sua auto, mentre Zalone è intrappolato nel traffico, sempre con lo scopo di chiedere, a lavoro finito, degli spicci per un panino. L’uomo sembra non voler abbandonare Zalone, violando i suoi spazi e la sua privacy, piombando in casa sua, col benestare della moglie.
Il comico, tacciato di razzismo, cerca di difendersi, respingendo al mittente le accuse, dicendo di non essere razzista, parlando addirittura di ‹psicosi del politicamente corretto› e, quasi prendendo le distanze dal teaser, parla del film come qualcosa di diverso, descrivendolo come ‹non politico›. In questo modo, proprio come Pietro Valsecchi, il suo produttore, riprende il classico cavallo di battaglia dei liberali, ‹la morte delle ideologie›. No, tutto è politico: la presa di posizione, sbagliata o meno che sia, è a tutti gli effetti un atto politico.
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Per Zalone sembra non esserci un momento di tregua, infatti le critiche non si fermano solo al teaser, ma colpiscono, inarrestabili, anche il film, scritto col regista Paolo Virzì.
Il film racconta di come il protagonista, Pierfrancesco Zalone, detto Checco, strozzato dai debiti per l’apertura di un bizzarro ristorante giapponese nelle murge pugliesi, decida di scappare in Kenya per sfuggire al fisco, dove lavorerà in un resort come cameriere. Lì conoscerà due dei suoi compagni di viaggio, Oumar, amante dell’Italia e della sua cultura, col sogno di diventare un regista sulla scia dei grandi padri del neorealismo, e Idjaba, la donna di cui è segretamente innamorato.
Un giorno il mercato cittadino, dove si trovano Checco e Oumar, viene attaccato da un gruppo di terroristi, la situazione è invivibile, fin troppo pericolosa, e i due per sfuggire dalle grinfie dei terroristi decidono di scappare e raggiungere il villaggio natale di Oumar. Dopo un breve soggiorno fuggono anche dal villaggio, che sta per cadere nelle mani degli stessi terroristi, e decidono di imbarcarsi e partire per l’Europa. Oumar sogna l’Italia, Checco il paradiso fiscale del Lichtenstein.
La tesi difensiva di Zalone, in risposta alle accuse di razzismo, si fonda principalmente su un assunto, l’autodefinirsi ‹non razzista›. Ma questo non basta, l’unica direzione da seguire è quella dell’antirazzismo, della lotta attiva contro il razzismo. Un buon punto di partenza potrebbe essere, nel suo caso, la fine dell’uso dello stereotipo nel mondo del cinema. Il comico ignora che autodefinirsi ‹non razzista› non autorizza l’uso di stereotipi, figli di narrazioni tossiche che esaltano e propongono una lettura sbagliata e decisiva sulle migrazioni, il teaser e il film seguono proprio questa direzione.
Sono entrambi un inno all’accettazione passiva e alla normalizzazione dello stereotipo, sono entrambi razzisti, in maniera diversa. Il regista si destreggia tra i cliché sui migranti, cavallo di battaglia dell’eterna propaganda di destra e quelli della ‹sinistra istituzionale› che
infantilizza il migrante, rappresentato come un bambino fragile, da proteggere, in attesa del maschio bianco pronto a aiutarlo.
Dal videoclip emerge una descrizione del migrante dal punto di vista dei sovranisti che invocano a gran voce la chiusura dei porti, il migrante non è altro che colui che mendica, con insistenza molesta, capace solo di lavare i vetri, e che attenta alla purezza delle nostre donne, infatti la moglie di Checco, in vestaglia, si mostra particolarmente felice della presenza del ‹nuovo arrivato›.
Le allusioni sessuali non mancano e ancora una volta i corpi di noi donne vengono strumentalizzati per legittimare razzismo e discriminazioni.
Il singolo viene difeso con le unghie e con i denti dall’ex ministro dell’interno Matteo Salvini e della leader di Fratelli D’Italia, Giorgia Meloni. Salvini, in difesa del comico, punta immediatamente il dito contro coloro che chiama ‹radical chic› che censurano le opinioni di chiunque non sia di sinistra, proponendo per lui il ruolo di senatore a vita.
La risposta della Meloni in difesa del comico non si fa assolutamente attendere, anche lei punta il dito contro la sinistra, accusandola di voler censurare il film di Zalone, e si complimenta con lui.
Il film, invece, dal canto suo descrive l’Africa come se fosse omogenea dal punto di vista politico, sociale e culturale
continuando a proporre un’immagine razzista e stereotipata degli africani, descritti come selvaggi, ossessionati dalla magia, basti pensare all’arrivo di Checco nel villaggio natale di Oumar, quasi venerato dal capo villaggio perché convinto porti fortuna. L’ennesima dimostrazione di quanto si conosca poco l’Africa, complice una narrazione etnocentrica, propinata sin dai banchi di scuola, che emerge anche dall’uso dell’espressione ‹di colore›, utilizzata nella canzone ‹Gnocca d’Africa›, altro tasto dolente del film.
La canzone, particolarmente sessista, a partire dell’uso della parola ‹gnocca›, è un botta e risposta tra Zalone e i migranti a bordo del pullman su cui viaggia, il comico ruota attorno ai leitmotiv del dibattito contro i migranti, tra cui la mancanza di lavoro, e i secondi rispondono. Una delle tesi pro immigrazione usate sarebbe la bella Idjaba, chiamata per l’appunto ‹ragazza di colore›, a cui Checco sarebbe ben lieto di offrire la cittadinanza, come se la bellezza fosse un requisito per scegliere chi può e chi non può arrivare in Italia.
Non solo vengono descritti come selvaggi ossessionati dalla magia, viene anche alimentato il classico stereotipo sugli africani ‹poveri ma felici›
nel tentativo di proporre una critica stantia al consumismo, senza alcun accenno al capitalismo, il vero responsabile. I protagonisti del film non sono i migranti, ma le disavventure, parecchio forzate, di Checco.
Ancora una volta i migranti passano in secondo piano, privati della loro voce.
Zalone tenta, in modo molto maldestro, di farsi loro portavoce, un portavoce di cui i migranti non hanno alcun bisogno. Spetta a loro raccontare ciò che hanno vissuto in prima persona.
Zalone, in Tolo Tolo propone la sua cura al fascismo, l’amore, banalizzando un fenomeno di per sé decisamente più complesso e ben radicato e diffuso, complici lo spazio che viene loro lasciato in TV e la loro lotta per la conquista dell’egemonia, tra casa editrici, punti di riferimento culturali come Ezra Pound, Martin Heidegger o Julius Evola e anche dei loro giornali. Il fascismo si batte con la lotta.
I guai per il film di Zalone non sono terminati. Johan Grech, commissario della Malta Film Commission, ha dichiarato di aver aperto un’indagine sui maltrattamenti subiti da alcune comparse, partita dalla denuncia di alcuni membri dello staff. Secondo quanto riportato nella denuncia, circa 60 migranti, di cui la maggior parte non sapeva nuotare, sono stati costretti a rimanere su un barcone per sei ore sotto il sole cocente, senza né bere, né poter andare alla toilette. Inoltre un alto funzionario della produzione si sarebbe rivolto ai migranti definendoli come ‹feccia› e ‹idioti›.
Il film è decisamente deludente non solo per l’assenza della mano del pluripremiato regista Paolo Virzì, ma anche perché manca una decostruzione della narrazione tossica o dei luoghi comuni attraverso l’ironia. L’esempio di una comicità di questo tipo è dato dal modello dei primi film di Fantozzi, dove Paolo Villaggio compie un’acuta e violenta critica alla classe dirigente e del suo infantilismo. Un esempio lampante è il direttore liberal con l’ossessione per la cinematografia sovietica. Nei suoi libri sono riconoscibilissimi i tipici atteggiamenti di chi copre ruoli di potere per censo e fortuna, tra cui il sadismo nei confronti dei sottoposti. Non c’è nulla di sagace o dissacrante, Zalone è prigioniero degli stereotipi, non riesce a muoversi al di fuori dei classici schemi narrativi, non c’è nessun straniamento.
Quello di Tolo Tolo non è il solo caso di esaltazione dello stereotipo al cinema, basti pensare alle commedie Benvenuti al Sud e il sequel Benvenuti al Nord, che descrivono un’Italia divisa tra i meridionali calorosi, poco ligi al dovere e alla legge, e i freddi, precisi e ossessionati dal lavoro settentrionali, alimentando i classici stereotipi tra Nord e Sud, ben distante da quella che racconta Luciano De Crescenzo in Così parló Bellavista, che descrivendo i rapporti tra il professore napoletano Bellavista e il milanese dottor Cazzaniga, supera i classici stereotipi con la celeberrima frase ‹si è sempre meridionali di qualcuno›.
Decostruire uno stereotipo con l’ironia è difficile, non impossibile, De Crescenzo e Villaggio ce l’hanno dimostrato.