Estratti dal cartaceo / 13 min
Demand Full Laziness
Per 5 anni Guido Segni delegherà la sua produzione artistica a processi di automazione e algoritmi: nel tempo liberato si dedicherà all'ozio. Una conversazione con Giovanna Maroccolo.
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È successo a primavera di quest’anno alla mole vanvitelliana di Ancona, dove mi trovavo per curare l’intervento di un artista in una mostra dedicata all’intelligenza artificiale. Tu non c’eri e il primo incontro con te l’ho fatto di fronte a Demand Full Laziness, un tuo lavoro recente che negli ultimi due anni ha fatto discutere non poco. In uno schermo intravedo la tua immagine sfocata, che ti ritrae in pieno ozio mentre nel letto ti riposi con un libro tra le mani. Il libro in questione ha attirato la mia attenzione, in quanto chiara citazione a ciò che ha ispirato la tua opera, il pensiero di Nick Srnicek e Alex Williams sulla relazione tra lavoro, società e le potenzialità che l’I.A. offre in un’ottica di liberazione dal sistema capitalistico. Inutile dire che è stato facile capire che una chiacchiera dovevamo proprio farcela.
Diventa complice di menelique magazine, è uscito il numero uno: ‹I futuri del lavoro›.
Dalla nostra prima lunga telefonata ho capito che non ti piace molto stare sul piedistallo, preferisci raccontarti attraverso ciò che ti ispira e che si materializza nel tuo lavoro, ma molti sono gli argomenti che vorrei discutere qui con te, a partire dalla tua esperienza nei collettivi di Net-Art italiani negli anni 2000 e delle tue azioni/performance di Hacktivismo. Ho paura che ti toccherà stare un po’ sotto i riflettori. Iniziamo dall’opera che ci ha fatti conoscere: Demand full laziness è una long-term performance nata agli albori del 2018, attraverso la quale deleghi a una I.A. istruita con algoritmi di deep-learning la produzione delle tue opere per cinque anni. Più che una provocazione mi sembra una proposta. Cosa hai in mente?
Più che proposta e provocazione mi piace pensare che Demand Full Laziness sia più genericamente una storia. In forma tecnologica e performativa ma pur sempre una storia. E come tutte le storie prova a raccontare e rendere leggibili alcuni aspetti della realtà in cui viviamo. Nello specifico metto in scena l’utilizzo di una tecnologia che sta sulla bocca di tutti, la famigerata intelligenza artificiale di cui si parla tanto e a sproposito, e provo a reinquadrarne il senso e le possibile prospettive di emancipazione: per cinque anni, dal 2018 fino al 2023, delegherò una buona parte della mia produzione artistica a processi di automazione e a algoritmi di nuova generazione (reti neurali e machine learning) e nel tempo liberato mi dedicherò all’ozio. Non a caso la prima serie di opere prodotte prende il nome di The machine is learning, the artist is resting, e consiste in una serie di (auto?) ritratti prodotti dalla ‹macchina› dopo avermi osservato durante le mie sessioni di ozio performativo. I risultati prodotti non sono che la traccia di un arco spazio-temporale performativo di cinque anni con cui vorrei suggerire come la tecnologia possa sì sostituire l’uomo, ma liberandolo dal lavoro.
Il modo in cui ti relazioni con la tecnologia e con i media ti permette di raccontare uno spaccato di presente ma non solo. Ciò che fai in fin dei conti è produrre alternative di pensiero e sinceramente penso che l’arte oggi abbia un ruolo centrale nella narrazione di questa sempre più urgente società futura. Diamo per scontato ciò che abbiamo sempre conosciuto come giusto o normale, e questo fa concentrare il nostro pensiero critico solo su quelle istanze che riconosciamo come nuove o estranee. Serve qualcosa che agisca invece sulle convenzioni radicate e che metta in discussione le storie che ci siamo raccontati finora. Che ruolo potrebbe avere la tecnologia in quest’ottica, rispetto a un tema come quello del lavoro, uno dei pilastri su cui si fonda la società del capitale?
Che l’innovazione tecnologica sia da sempre un elemento chiave nel modificare e creare nuovi equilibri sociali e politici è un fatto abbastanza scontato su cui peraltro credo di non aver titolo per parlare. Ciò che trovo più interessante da un punto di vista artistico è la implicita funzione immaginifica e narrativa che le tecnologie posseggono. Mi spiego meglio con un esempio: la scelta di lavorare con reti neurali e algoritmi di deep learning in Demand Full Laziness non è stata dettata dal voler raggiungere un certo risultato formale. Scegliere di lavorare con il machine learning presupponeva di cavalcare l’hype del momento per mettere al centro dell’opera la tecnologia stessa, tematizzata attraverso gli impliciti immaginari utopici e distopici così come il discorso pubblico che la circondano. Quando le persone guardano ad esempio Lot no. 2018/000001 le persone non guardano solo il soggetto e il risultato formale per quelli che sono: spesso sono più interessate a capire cosa ha reso possibile quello che vedono e quali possono essere le implicazioni: ma davvero un software, un algoritmo può sostituire un artista? Come amo ripetere, Demand Full Laziness è prima di tutto una storia. Una storia il cui racconto deriva dalla parola ozio e dall’utilizzo delle parole algoritmo e intelligenza artificiale. Il risultato formale è solo la prova di cui ha bisogno l’occhio per credere alla storia. Del resto questo fenomeno della narrativizzazione della tecnica lo possiamo riscontrare quotidianamente sfogliando un qualsiasi giornale con articoli di questo tenore: Intelligenza Artificiale: il ristorante del futuro è qui; Il sex toy che sfrutta l’intelligenza artificiale per fare sesso orale; I dipinti rovinati di Van Gogh ricostruiti con l’intelligenza artificiale, e così via.
Trovo particolarmente interessante la tua esperienza come artista/attivista/hacker perché ho sempre pensato che il vero potenziale della rete si manifesterà quando la normalizzata esperienza individuale di consumo verrà sostituita con una collettiva basata sulla condivisione, e internet, nella migliore delle utopie possibili, può realizzarlo. Penso al 2009, quando insieme al collettivo militante della rete Les liens invisibles prendi parte al progetto Seppukoo che induce al suicidio di massa migliaia di utenti di facebook, attraverso la disattivazione dei rispettivi profili. Un gesto oggettivamente tragico e legato alla sfera individuale diventa un moto sociale collettivo e una provocazione a quelle corporate che sfruttano quelle stesse strategie per profitto. Cosa ti spinge a agire nella rete anziché fuori?
Beh, innanzitutto ci tengo a precisare che stare dentro alla rete non è una fede, né un imperativo categorico né tantomeno uno stile. Per un certo periodo è stato strategico per i messaggi stessi che volevo veicolare. Quando ho iniziato, intorno alla metà degli anni 2000, la rete iniziava in maniera definitiva il suo processo di colonizzazione da parte del mercato, cedendo così il passo alla componente utopica che l’aveva contraddistinta fino a allora. All’epoca, assieme a Gionatan Quintini, formammo il collettivo Les Liens Invisibles: ci ispiravamo alla net.art degli anni 90 e provavamo a applicare i concetti di deriva psicogeografica ai nuovi spazi definiti dalle piattaforme digitali. Stare nella rete, anziché fuori, significava per noi avere un pubblico trasversale e decisamente meno settoriale rispetto al mondo dell’arte. Le nostre opere non erano opere digitali ma veri e propri spazi performativi che ci consentivano di raccontare in maniera diretta e frontale le nuove frontiere degli spazi del quotidiano: chat, blog, social network. A partire del 2008 abbiamo creato piattaforme di fake publishing (prima dell’era delle fake news), boicottato le olimpiadi beijing 2008, celebrato una apparizione (in realtà aumentata) dell’invisibile unicorno rosa in piazza san pietro a roma e, come ricordi anche tu, abbiamo persino mobilitato 20.000 persone per commettere un seppuku virtuale su Facebook: un suicidio d’onore di massa che consentiva la cancellazione virale del proprio account e che più che la gloria ci procurò solo una denuncia da Zuckerberg in persona.
Ponendoci nell’ottica accelerata che la tecnologia, se potenziata, potrà liberarci finalmente dal lavoro, mi viene spontanea una domanda: riusciremo davvero a emanciparci da esso o finiremo per intenderlo semplicemente in un altro modo? È indispensabile un cambio di paradigma e da quello che mi hai raccontato ho l’impressione che tu ci stia già lavorando su. A fine anno ti troverai al LABoral Centro de Arte y Creación Industrial di gijón, cosa farai?
Presenterò Demand Full Laziness in una nuova forma allestiva. E per provare a rendere il discorso più accessibile sto preparando un workshop rivolto a bambini e ragazzi dai 6 ai 15 anni in cui lavoreremo proprio sull’esplorazione e l’immaginazione del futuro che ci attende: cosa faremo e come occuperemo il tempo una volta che non avremo più bisogno di lavorare? Siamo riusciti a sopravvivere alla morte di dio, riusciremo a sopravvivere alla scomparsa del lavoro?
Diventa complice di menelique magazine, è uscito il numero uno: ‹I futuri del lavoro›.
I tuoi lavori sono spesso il risultato di elaborazioni tra dati che esistono online (dai video su youtube alle immagini pubblicate nei social) e l’intervento di un algoritmo ideato e programmato da te. Dopo aver istruito la rete neurale tu lasci che l’opera si autocrei e che inizi a produrre una o più forme in modo indipendente. In questo caso è la tecnologia che si emancipa dalla mente e dal cuore dell’umano, non il contrario. Non è buffo? Mentre tutti sono preoccupati a immaginare un futuro in cui l’uomo, affiancato da avanzate tecnologie di automazione, riuscirà a essere libero senza farsi inghiottire da tutti i dati che costantemente produce e dalle possibilità che promettono, tu ti concentri sulla macchina e agisci l’operazione opposta, ovvero crei uno spazio d’azione pericolosamente aperto e imprevedibile in cui umano e macchina coesistono, ma non in un’ottica di servilismo dell’uno nei confronti dell’altro, bensì di potenziamento delle rispettive capacità in contesti ordinari e quotidiani. Te lo immagini così il futuro?
Bella domanda. Ti confesso di non averci mai pensato veramente, anche se molti miei lavori sono letteralmente e tecnicamente proiettati nel futuro. Ho un rapporto controverso con la tecnologia e per quanto riguarda il suo utilizzo in ambito artistico sono spesso più interessato a metterne in mostra le sue contraddizioni presenti piuttosto che esaltarne le qualità. È vero però che spesso i lavori più interessanti nascono proprio dall’alchimia imprevedibile e indeterministica tra uomo e macchina. Sempre restando su Demand Full Laziness, le opere prodotte sono frutto del mio ozio, dell’algoritmo generativo e della scelta operata successivamente sui risultati prodotti dalla macchina. È interessante per me notare come ognuna di queste fasi è necessaria alle altre così come nessuna di queste esprime in sé consapevolezza del risultato finale.
In un sistema dell’arte sempre più saturo (purtroppo non di pubblico ma di artisti) e difficile da penetrare, tu cosa fai? Smetti di produrre e lasci che la tua creazione artificiale lo faccia per te. Questo, in un discorso sull’autorialità e sulla riproducibilità si estranea completamente dal modus operandi del noto cubo bianco, che invece vuole un’opera unica e irripetibile e per quella vuole anche un autore. Si può leggere in questo la tua visione critica rispetto alla società e al sistema artistico (che puntualmente le fa il verso)?
Sull’autoreferenzialità di arte e artisti con me sfondi una porta aperta. Ma criticare il sistema dell’arte è diventata una pratica fin troppo facile e prevedibile. A tal punto che è lo stesso sistema dell’arte a autocompiacersene e a trarne vantaggi. Credo che però tu abbia ragione quando parli di incompatibilità o quantomeno difficoltà a assimilare i principi di riproducibilità di molti lavori afferenti all’ambito dei nuovi media e/o più specificamente dell’arte digitale. La natura riproducibile dei linguaggi del digitale è da sempre stata vista con sospetto dal pubblico più generico del cosiddetto art system. Questo è avvenuto per tanti e vari motivi, alcuni comprensibili, altri per semplice ignoranza e pregiudizio. Del resto però siamo nel 2019, e per quanto in italia le istituzioni abbiano ancora molto da lavorare per mettersi in pari, oggi internet e le cosiddette nuove tecnologie sono diventate, per dirla con Guthrie Lonergan, una banalità ampiamente assimilata delle forme artistiche del contemporaneo.
Molte delle tue opere sono vincolate alla tecnologia che le produce e sebbene oggi ci sembrino infinite rischiano di cessare di esistere nel momento in cui quella tecnologia diventerà obsoleta. Penso per esempio a Fino alla Fine, del 2019, un video generato dal costante lavoro di un algoritmo nel selezionare i 25 frame corrispondenti al primo secondo di ogni video caricato su youtube. Youtube prima o poi farà la fine delle altre piattaforme che hanno già ceduto il passo al futuro, cosa succederà all’opera?
Non è ancora ben chiaro cosa accadrà. Ma se identifichiamo l’opera con il processo che la anima, ovvero l’algoritmo, quello che accadrà è la fine stessa di quest’ultima. Di qua il nome del lavoro. Fino alla fine nasce come impresa improbabile e impossibile, quella di generare una sequenza video (una tempolinea) infinita a partire dall’accumulo del primo secondo di vita di video amatoriali depositati su youtube. L’inizio e la fine. Ad oggi Fino alla fine ha accumulato 7 ore e 53 minuti di found footage di youtube e ha la futile ambizione di diventare il video più lungo di sempre. La dinamica di per sé replica quella che regola oggi l’accumulo e il deposito della memoria collettiva sulle piattaforme digitali. Stiamo consegnando l’intera conservazione della nostra memoria a piattaforme come facebook e google il cui obiettivo principale è quello di realizzare profitti. La quantità crescente di informazioni e il rapido aggiornamento ai nuovi standard tecnologici rendono sempre meno conveniente (o, per meglio dire, economicamente meno profittevoli) e più complessa la conservazione delle informazioni, con il rischio sempre più concreto che queste possano andare perse per sempre. È già successo in passato e lo stesso Vint Cerf, uno dei padri di internet, ha più volte messo in guardia sul rischio di un nuovo medioevo digitale, ovvero di un’epoca, la nostra, di cui rischiamo di perdere ogni memoria.
Nel 2015 hai esposto per il progetto espositivo virtuale Link Cabinet e hai presentato un progetto inedito che punta chiaramente il dito verso le nuove derive lavorative del tecnocapitalismo globale, come le piattaforme di acquisto di servizi in rete, che invece di rilanciare il lavoro in un’ottica di accessibilità lo sviliscono con il meccanismo dell’offerta al ribasso. Work Less Work All (2015) è un’azione multidisciplinare che coinvolge la bodyart attraverso un approccio performativo, che esprime una visione politica definita. Mi spieghi perché ti interessa tanto la questione del tempo e del lavoro?
Qui ti chiedo di parlare anche del progetto e di spiegarlo meglio.
Tempo e lavoro mi interessano perché, come tanti, vivo in prima persona le dinamiche schizofreniche del lavoro e il generalizzato depredamento del tempo libero. Work Less Work All si rifà al famoso slogan Lavorare meno lavorare tutti nato dalle lotte operaie di fine anni 70 del secolo scorso che ambivano alla riduzione della giornata lavorativa, alla liberazione del tempo libero e alla redistribuzione del lavoro a una platea più ampia di lavoratori. Viene l’amaro in bocca a constatare come le nuove frontiere del lavoro aperte dalle nuove piattaforme digitali, da Amazon Mechanical Turk a Fiverr.com, abbiano reso una realtà quello slogan nella forma più cinica che avremmo mai potuto immaginare: lavoratori di ogni età, sesso, nazione e continente che competono tra loro in una quotidiana gara al ribasso. Work less work all (we’re the 99% on Fiverr.com) nasce dall’idea di mostrare in tutto il suo cinismo cosa si è disposti a fare nell’epoca della gig economy. Per il tempo della durata della mostra al Link Cabinet sono stato iscritto come artista freelance su Fiverr.com (il marketplace leader per i freelance di ogni categoria che offrono i propri servizi a partire da 5 dollari) offrendo online al pubblico della mostra i servizi offerti da altri lavoratori presenti sulla piattaforma. Al tempo, intorno al 2015, esisteva una sezione apposita, your message on, in cui si poteva usare letteralmente il proprio corpo per veicolare messaggi: si poteva far scrivere o disegnare il proprio nome su una qualsiasi parte del corpo, oppure si potevano far recitare piccoli sketch. Il mio unico intervento è stato quello di acquistare un servizio offerto da altri e di ricontestualizzarlo con idee, parole e slogan proveniente dall’immaginario delle lotte operaie: l’internazionale socialista intonata da un giovane ragazzo intento a lavarsi i denti, una ragazza che parla della necessaria unione dei lavoratori spalmandosi una torta in faccia, l’elenco dei più comuni slogan dei laburisti declamati uno dopo l’altro da un uomo che indossa ridicoli gadget di vario tipo. Il risultato, di cui è rimasto solo la documentazione video, è un lavoro di performance art scaturito dal corpo e dal lavoro spesso invisibili dei lavoratori della rete.
Le I.A. che hai istruito per lavorare al posto tuo per i prossimi anni creano immagini ma anche poesie. Ho sempre sognato che qualcuno mi dedicasse una poesia algoritmica.
I can sing it
lovin’ myself i just might know it all got me
you stripped and get me so easy
i’ll never a spent one more high
it was hard to get paid for the most.
sometimes you made it though it’s just like adrenaline
now feel it really gotta face it real
i feel it all keep on and make it
here in the night.
(Fully automated lyrics written by the machine while I was sleeping, 2019)