Estratti dal cartaceo / 8 min
L’artivismo di Alfredo Meschi
40.000 X tatuate sul suo corpo per segnare nella carne i 40.000 animali non umani uccisi ogni secondo. È l’artivismo di Alfredo Meschi, in conversazione con Giovanna Maroccolo. Estratto dal numero zero di menelique magazine.
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Ricordo i giorni a Padova in cui ci incontrammo la prima volta per lavorare alla presentazione di una tua performance. Sei stato ospite a casa nostra per qualche giorno e questo ci ha permesso di parlare molto e scavare dentro diverse questioni. Erano i giorni delle proteste sui prezzi del latte in Sardegna e si parlava di intersezionalità delle lotte ma anche di capitalismo, di liberazione animale, di azioni dirette, di libertà. Vorrei fare un rewind della nostra chiacchierata e metterla nero su bianco per menelique. Ma è più divertente partire daccapo e stravolgere tutto. Partiamo da te. Il tuo corpo non assomiglia agli altri corpi. Assomiglia più a un palcoscenico, o una tela, uno spartito. Come loro, è profondamente legato e forse vincolato all’opera di cui porta il tremendo peso. Ogni giorno, ogni secondo, ogni minuto, anche quando chiudi gli occhi o ti addormenti per un po’, tu sei la tua opera, dichiari il tuo manifesto muto, in questo caso la tua performance. Anche l’attivismo per una causa radicale è così. Si manifesta nelle azioni di protesta più concitate esattamente come penetra nel quotidiano, si ritorce nelle piccole scelte, abita gli ultimi pensieri prima del sonno. Il tuo linguaggio è l’arte, il tuo messaggio invece è politico. È Artivismo. Cosa ha portato il tuo corpo a diventare l’unico terreno di due giochi apparentemente così diversi?
L’urgenza. L’improcrastinabile urgenza di esprimere e comunicare, prima a me stesso e poi al mondo, il più grande olocausto della nostra storia. Sentivo che non esistevano parole adeguate per farlo, avevo bisogno di esplorare altri linguaggi. Ho insegnato Teatro Immagine per molti anni, un metodo basato sul linguaggio non verbale, sulla polisemia delle immagini corporee. Durante il mio percorso di ricerca mi sono imbattuto in un fotografo messicano, Édgar Olguín, che ritraeva i corpi nudi di attiviste e attivisti, coperti da scritte accusatorie nei confronti dello Stato, responsabile della sparizione e dell’assassinio dei 43 studenti di Iguala. Ne sono stato molto ispirato, ho voluto però rendere la mia denuncia e il mio appello indelebili, trasformando la mia pelle, la mia intera immagine in un grido, muto e assordante. Alla soglia dei cinquant’anni su questa pelle non c’era neanche un tatuaggio, non ne avevo mai sentito l’esigenza, e invece è stata proprio quella che ormai viene considerata la “decima arte” a rispondere pienamente al mio intento. Per 100 ore gli aghi hanno ferito la mia pelle, lasciando 40.000 X tatuate a dar segno e voce a un manifesto totale, a una performance permanente, al mio artivismo.
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Non è che per caso il Progetto X ti sia sfuggito dalle mani? Quante persone si sono tatuate, imitando il tuo gesto, dall’anno della prima X a ora? È ancora tuo questo progetto?
Il Progetto X non mi è sfuggito di mano perché non è mai stato mio. La mia pelle ha cessato di essere la mia pelle, Alfredo Meschi non esiste più. Quarantamila animali uccisi nel mondo, ogni secondo, solo per soddisfare il nostro palato, è un numero stimato per difetto. Alcune stime attendibili ipotizzano un numero tre volte più grande, ma è semplicemente impossibile stabilire i numeri del massacro. Ecco perché è importante la prospettiva individualista della filosofia antispecista, perché ogni singolo individuo conta, dalla Zanzara alla Balena. Ogni X conta. Sono stato davvero colpito dalle fotografie delle prime persone che, un po’ in tutto il mondo, iniziavano a tatuarsi queste X, una X, due, duecento, duemila. Persone che spedendomi le loro immagini esprimevano al tempo stesso il loro sostegno verso il mio gesto e la loro determinazione o il loro tendere verso un comune artivismo. Il progetto In the blink of an eye, che vede protagonista insieme a me l’amico e formidabile fotografo Massimo Giovannini (riconosciuto con il Lensculture Portrait Awards 2018 ed il Life Framer Color Awards 2018), ha riunito una selezione di 220 di queste persone, uguale al numero di animali non umani spazzati via in un blink, nell’infinitesimale durata di in un battito di ciglia. Oggi sono circa 400 le persone che hanno aderito al progetto, e il loro numero continua a crescere spontaneamente.
No, il Progetto X, decisamente e per fortuna, non è più mio.
Il manto di X che ricopre il tuo corpo è come una sveglia che suona e non si può spegnere. Non si può spegnere semplicemente perché il suo compito è proprio quello di ricordarci continuamente di stare svegli. Lo fa dicendoci che ogni secondo, ogni beep di una qualsiasi sveglia da comodino, 40.000 individui vengono brutalmente uccisi per soddisfare il nostro palato. Stare svegli significa essere critici, mettere in discussione quello a cui ci siamo abituati, guardare al di là. È Neo che sceglie la pillola rossa. Una volta che si attiva questo tipo di “cervello empatico” (pensiero critico come riconoscimento dell’altro come sé), è normale che anche altre lotte si infilino tra le X e che il messaggio che porti si arricchisca di nuovi significati. Parlaci dell’Internazionalità della tua performance continua.
La potente natura della Sardegna, isola dove ho vissuto per dieci anni, è stata la mia sveglia, il mio ridestarmi al mondo della sensorialità, del piacere dell’essere vivo, qui e ora. Quando la porta del sentire si apre, non entra solo la bellezza di un tramonto, il profumo del rosmarino, il tepore del sole, il calore di un abbraccio, fa irruzione anche quello che abbiamo cercato di tenere fuori. La sofferenza del mondo. Ancor prima di sentire quella degli altri animali, è stata l’odissea delle persone migranti a lacerarmi, a obbligarmi a prendere parte. A metterci la faccia, la pelle, l’anima. Ho scelto la X in quanto neutro e anonimo "segno di spunta", un simbolo che usiamo quando abbiamo finito di fare una cosa, di contare una cosa, di uccidere una "cosa". Quarantamila sono anche le persone migranti che hanno perso la vita nel Mediterraneo dal 2000 a oggi, fuggendo dalla disperazione. Quarantamila sono le vittime di preti pedofili nei soli Stati Uniti e quarantamila sono le spose bambine che ogni giorno vengono sacrificate al dominio di una cultura patriarcale e misogina. E la quantità di plastica che riversiamo nei mari è pari a quarantamila bottigliette da mezzo litro al secondo.
Tutta l’oppressione è connessa.
O ci liberiamo tutte e tutti insieme o non ci sarà nessuna vera libertà.
Cosa capita quando le persone ti vedono tutto intero? Cioè, immagino che alle performance che fai non ci siano solo vegani e simpatizzanti ma anche persone che consumano carne e che sono forse meno vicine alle tematiche che emergono dalle tue azioni. Si sentono prese in causa oppure empatizzano con le X? Come reagisce il pubblico del mondo dell’arte?
Rispondo a questa tua domanda proseguendo la riflessione precedente. Nelle mie performance c’è sempre questa dimensione intersezionale e se il pubblico si concede la possibilità di andare oltre la prima lettura, di scendere nelle proprie profondità, troverà sicuramente una possibilità di vedere riflessa la sua immagine. In una performance che voleva indagare i limiti, sia del vegetarianismo che del veganismo, indossavo una maschera da vitello e ero nudo, a parete, in posizione crocifissa. Senza che lo sapessi, nell’affollata sala della Dortmund Kunstlerhaus, durante la serata inaugurale della mostra Zeitgenossische Kunst und Tierbefreiung, in prima fila c’era un prete. Le sue reazioni sarebbero potute essere di sdegno, ma in realtà questo corpo tatuato riesce spesso a attraversare resistenze e pregiudizi, a comunicare in maniera epidermica, da pelle e pelle. Il giorno dopo il prete mi ha invitato nella sua chiesa, dove mostrava, entusiasta, le foto della performance. Le esperienze nella vita reale finora sono state di questo tipo e, se non sono state tutte così entusiaste, si sono comunque tutte manifestate a partire da un sincero rispetto per la mia arte. Questo dicevo: nella vita reale, in quella virtuale, sui social, la situazione cambia radicalmente. Insieme alle migliaia di commenti positivi ricevo migliaia di insulti, ma credo che questo sfogo delle frustrazioni sia ormai una prassi ubiquitaria nella fogna digitale.
Leggevo un articolo di Medusa su Not e sono rimasta sconvolta quando ho realizzato che fino al 1958 (mia madre aveva 10 anni) il fenomeno delle “esposizioni etniche” era in voga sia negli Stati Uniti che in Europa, Italia compresa. Non sarà mai finito quel tempo in cui, finché troverà spazio nella memoria di chi è posto dall'altra parte della gabbia, si considerava l’uomo bianco superiore e dalla parte opposta al selvaggio. Questa parola, “selvaggio”, ha sancito la nostra separazione definitiva e consapevole dalla natura e dalla nostra animalità... Ma che animale è l’uomo?
Sì, selvaggio, anche se, come parola che meglio racconti la nostra separazione, preferisco “misoterìa”. La misoterìa, concetto formulato da Jim Mason, designa letteralmente il nostro odio per gli animali. Il nostro bisogno, per giustificare comportamenti scellerati nei confronti della natura tutta, di rimuovere e allontanare da noi qualsiasi cosa ci ricordi la nostra animalità. Addirittura al punto di ignorare il senso evolutivo della nostra stessa anatomia, dei nostri impulsi, delle nostre emozioni. Ma il bìos vince sempre e qualche migliaio di anni dominati dall’improbabile sacralità del matrimonio di eterosessuali e da monogame coppie, non sono riusciti a cancellare il bisogno, maturato in milioni di anni, di una splendida sessualità condivisa, di famiglie-branco solidali e collaborative, di relazioni improntate all’empatia con gli altri animali, con le piante, con l’intero pianeta. Se quello che abbiamo rimosso potrà riaffiorare, saremo finalmente in grado di vedere, nello specchio, il riflesso di uno splendido animale.
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