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Pride is a riot

Il primo pride fu una rivolta contro le vessazioni che le persone LGBT subivano da parte della polizia. Oggi la protesta gay si unisce a quella di Black Lives Matter per cercare di ottenere un mondo privo di discriminazioni.

Pride is a riot

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Pride is a riot› è la scritta che campeggia in uno dei cartelli che portano i manifestanti di Black Lives Matter di fronte allo Stonewall Inn. Il gay pride, la marcia che ogni anno attraversa molte città del mondo, e che in tanti definiscono una ‹carnevalata›, è il ricordo di una rivolta avvenuta cinquantuno anni fa allo Stonewall Inn di New York. Il Pride, la marcia di liberazione degli e delle omosessuali e trans è cominciata con una rivolta. È cominciata con Sylvia Rivera, una donna trans, anzi una ragazzina ancora nemmeno diciottenne, dalla pelle nera, metà venezuelana e metà portoricana, che lancia una bottiglia verso i poliziotti che facevano l’ennesima irruzione brutale nel locale gay. Non era la prima volta che persone omosessuali, drag queen e transgender si ribellavano alla polizia. La rivolta ai soprusi della polizia era cominciata dieci anni prima a Los Angeles, quando le avventrici e gli avventori del Cooper’s Do-nut si ribellarono a un arresto di massa di persone transgender il cui genere legale espresso nel documento di riconoscimento non coincideva con quello sociale. Ma è dal 1965 che queste proteste si intensificano, fino a dare vita, dopo Stonewall, a un movimento internazionale di protesta per il riconoscimento dei diritti civili delle persone LGBTQ. 

Le rivolte degli anni ’60 contro la polizia segnano un cambiamento rispetto al periodo precedente. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la proclamazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo che afferma l’uguaglianza di tutti gli esseri umani indipendentemente dal colore della pelle, dalla lingua, dal genere e dalla religione, nascono delle associazioni (la prima in Danimarca, proprio nel 1948) che rivendicano questa uguaglianza anche per le persone omosessuali. Un fenomeno che investe soprattutto i paesi anglosassoni, nei quali vigono legislazioni che puniscono gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso, anche se avvenuti all’interno delle mura di casa propria.

Un’eco di questi primi movimenti per i diritti delle persone lgbt lo troviamo nella commissione Wolfenden. La commissione voluta dal governo britannico analizza tra le altre cose la questione della decriminalizzazione degli atti omosessuali. Da un lato troviamo schierata la tradizione liberale, rappresentata dal filosofo Herbert L. A. Hart, che sostiene che il sesso tra persone consenzienti non danneggi nessuno e che dunque non ci siano ragioni per punirlo, dall’altra il giudice Patrick A. Devlin, che invece ritiene che il compito della legge sia quello di rafforzare la moralità del senso comune: siccome la moralità condivisa dei tardi anni ’50 vede l’omosessualità come disgustosa e perniciosa, allora deve anche essere proibita dal diritto.

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I due filosofi e giuristi mettono già l’accento sui due versanti della ‹questione omosessuale›: da un lato il problema della legalizzazione di una condotta privata e dall’altro quello dell’accettazione di tale condotta da parte della gente comune. Due punti che rimangono essenziali anche oggi. E lo sono per qualunque minoranza che lotta per i propri diritti. Da un lato la lotta per il riconoscimento dei propri diritti davanti alla legge e dall’altro quello per l’abbattimento di pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni. Le due cose sono intrinsecamente collegate, perché si può riconoscere parità giuridica e di diritto solo se si ritiene che non ci sia nulla di moralmente disprezzabile nella condotta o nella natura altrui, così come il riconoscimento di uno stato giuridico paritario non si dà nella realtà se non c’è piena uguaglianza e integrazione nel mondo di tutti i giorni. Posso pure riuscire a ottenere l’abolizione di una legge che criminalizza il mio orientamento sessuale, ma se nella vita quotidiana verrò insultato e deriso, avrò ottenuto ben poco, e così per riuscire a abolire quella legge dovrò dimostrare che non c’è niente da temere in quello che faccio e in quello che sono, che sono proprio come loro.

La strategia che adottano questi primi movimenti per la depenalizzazione dell’omosessualità negli anni ’50 la si potrebbe definire, così come ha fatto lo storico Domenico Rizzo, ‹assimilazionista›. Si cerca di dimostrare che gli omosessuali non sono un pericolo per la società occidentale: che sono rispettabili come tutti gli altri cittadini. Non è un caso che durante gli anni del maccartismo gli omosessuali venivano accusati di essere comunisti, perché nel senso comune vengono visti come sovvertitori dell’ordine dello stato, in quanto non si identificano nella cella che ne è alla base: la famiglia. Questi primi movimenti puntano dunque a rimarcare un ruolo di genere tradizionale, a mostrare che non sono quei sovvertitori bolscevichi pronti alla rivoluzione e al capovolgimento dello status quo che tutti si immaginavano. D’altro canto è interessante notare come anche negli ambienti e negli stati comunisti gli omossessuali subissero lo stesso stigma: cioè quello di essere individualisti e consumisti, asserviti solo al proprio piacere.

Nello stesso periodo incomincia a fiorire un sottofondo di locali, spesso clandestini o gestiti dalla criminalità locale, in cui prende vita quella sub-cultura gay che spesso viene raccontata nei film: uomini effeminati che tentano di sedurre eterosessuali che si concedono in cambio di denaro, transessuali e travestiti, drag queen. Contro questo mondo lottano i primi movimenti omosessuali, cercando di portare la vita omosessuale su un binario di accettabilità per la moralità comune. Ma è proprio questo sottobosco urbano che negli anni ’60 emerge con forza e diviene il centro propulsivo della liberazione degli omosessuali. Così come oggi a aver scatenato le proteste di Black Lives Matter non sono le morti di rispettabili membri della borghesia nera assimilazionista, ma sono quelle di poveracci, le cui vite sono spesso condotte al limite della legalità, costretti dalle discriminazioni a vivere di espedienti senza un posto riconosciuto nel mondo, così negli anni ’60 a dar vita alle proteste gay sono gli avventori e le avventrici spesso disprezzati e umiliati di questi bar e locali che si rivoltano contro le continue angherie che la polizia usa contro di loro. Soprusi e violenze possibili non solo perché le leggi le consentivano, ma anche per il pregiudizio e il disprezzo diffuso nei loro confronti. 

I movimenti che nascono dalla fine degli anni ’60 come il Gay Liberation Front, o l’italico Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) hanno come obiettivo non solo la depenalizzazione dell’omosessualità, ma anche una prospettiva più ampia. Sono movimenti politici, che vogliono sovvertire l’ordine costituito, proprio quell’ordine che le associazioni omosessuali precedenti volevano salvare e a cui volevano accostarsi. È l’ordinamento borghese che causa la persecuzione dell’omosessualità:

diventa necessario abbattere i simboli della società capitalista.

Il movimento omosessuale è dunque rivoluzionario, sovvertitore, portatore di una nuova società e di una nuova era. Non basta chiedere di essere lasciati in pace, di avere delle ‹riserve protette› dove essere se stessi. No, bisogna entrare in modo dirompente nel mondo, bisogna essere visibili, affermare quello che si è, rivendicare il proprio posto nel mondo. La parola d’ordine non è tolleranza, ma trasformazione della società perché cadano tutti gli stereotipi (non solo quello contro gli omosessuali e le persone trans, ma anche quelli contro le donne, contro i neri, e contro tutte le minoranze perseguitate).

Abbattere il capitalismo e il patriarcato. Perché ci sia posto per tutti. Perché ci sia una società di persone eguali e libere. 

Questa fase si estingue con l’estinguersi del radicalismo verso la metà degli anni ’70. Da quel momento l’associazionismo omosessuale ha cambiato ancora forma, da un lato si è parcellizzato rivendicando molteplici e differenti identità, dall’altro ha offerto supporto alla comunità LGBT con l’avanzare della diffusione del virus dell’HIV e si è pure dedicato a attività forse più sotterranea ma anche efficaci per la promulgazione di leggi a favore delle persone LGBT.

Si può dire che il primo pride è nato a Stonewall, una rivolta degli ultimi e delle ultime del mondo LGBT che hanno aggredito i propri aggressori rivendicando il diritto all’esistenza, alla dignità, al proprio posto nel mondo. Il primo pride è nato dall’esasperazione di essere dei perseguitati, di essere considerati inferiori, degli esseri rivoltanti, che non meritano nulla. I primi pride sono stati delle manifestazioni in ricordo di quella prima rivolta. Sono state delle proteste per la visibilità e per i diritti. Oggi nel celebrare i pride non dobbiamo dimenticarci tutto questo: non deve essere una celebrazione vuota, un’esaltazione del colore fine a se stessa, un’operazione di marketing. 

Il pride è una protesta.

È un’occasione per rimarcare la propria presenza nel mondo. Per pretendere un posto. Per schiacciare la testa a chi ci vuole privare dei diritti fondamentali, del riconoscimento come persone. E non dobbiamo dimenticarci di nessuno. 

I diritti non sono diritti di una parte. E quando si lotta per questi diritti non si deve rimanere chiusi nel proprio recinto. Le lotte hanno senso se combattute insieme. Con questo spirito Black Lives Matter ha portato la protesta davanti a Stonewall. Non è un azzardo, ma il riconoscimento di un comune interesse. Di una storia comune. La percezione della propria discriminazione, dell’essere diversi e di ricevere un trattamento ineguale e inferiore colpisce le vite di neri e gay. Fa parte delle cose che si sanno, della propria saggezza pratica, dover stare attenti al proprio abbigliamento, ai propri comportamenti, a come ci si esprime e a quello che si fa. Un passo sbagliato può costare la morte o un pestaggio. Persone LGBT e afrodiscendenti sanno che le loro vite contano di meno. La rivolta contro questo sistema di oppressione può farle contare di più. Non serve tanto conformarsi allo standard, come proponevano le prime associazioni di omosessuali, serve rivendicare il proprio posto nel mondo, pretendere di essere trattati come eguali, di essere riconosciuti come eguali. Bisogna rovesciare il sistema che ci opprime. Lottare sì per il riconoscimento formale dei propri diritti ma anche per vincere gli stereotipi e i preconcetti del senso comune. 

Se le proteste di Black Lives Matter sono delle rivolte, non scordiamoci che anche il pride all’inizio lo fu. Oggi come allora serve lottare per sconfiggere il sistema che continua a schiacciare ogni minoranza non conforme allo standard.