Il design diluito
Il Design diluito perde la sua identità e lo porta a smarrire il suo ruolo specifico.
La serie di approfondimenti più corposi è aperta dal designer Mugendi K. M’Rithaa: il design partecipativo può prendere le mosse dai sistemi di conoscenza indigena e dal concetto afrikano di Ubuntu: un’aura di empatia, partecipazione e inclusività che valorizza idee comunitariste.
Forse, però, questo appello di Mugendi per l’espansione delle pratiche e delle finalità del design può trasformare la progettazione da materia tecnica in qualcosa di sempre più vicino all’arte, diluendo la sua essenza. Per Silvio Lorusso, questo Design diluito perde la sua identità e lo porta a smarrire il suo ruolo specifico.
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Design, menelique magazine #4, inverno 2020/2021.
Il ‹buon design› è cattivo design. Oggi è considerato buon design quello che rispetta principi formali rigidi, semplici e asciutti, facilmente identificabili e riproducibili, che guardano con rispetto alla tradizione occidentale e che permettono di distinguersi da ciò che è considerato, per un motivo o per un altro, inferiore, dozzinale, volgare. In sostanza si è scelto di fare un passo indietro, riprendendo una ammirazione mai sopita per la purezza del design modernista. Nella grafica: le linee rette, il bianco e il nero, la composizione bilanciata, l’astrazione, la specularità, la semplificazione. Questo buon design, così elitista, così elegante, così concettuale, nell’Italia di oggi è un cattivo design perché incapace di affrontare le sfide dell’inclusività alle quali sono chiamate industrial designer e graphic designer, architetti, programmatrici, data scientist e data analyst, sviluppatrici di videogiochi, fashion designer, artisti musicali, visivi e performativi, così come chiunque abbia a che fare con le discipline creative e progettuali…
Questa classe di intellettuali, alla quale ci rivolgiamo con questo numero 4 di menelique, e che in passato è stata definita ‹cognitariato› (non senza una nota di disprezzo), è oggi chiamata a rispondere ai cambiamenti sociali che stanno investendo il Paese in questi ultimi anni e che si intensificheranno nei prossimi decenni: la loro sfida sarà quella di progettare l’inclusività, non l’elitismo. La complessità, non la semplicità. L’ibridazione, la pluralità del colore, la vanità, il superfluo, il cosmetico anziché il puro e l’essenziale.
Come la figura umana che nella copertina di questo #4 deforma la griglia di impaginazione editoriale e mischia rabbiosamente i colori, rompendo la binarietà bianco/nero, così in queste pagine proveremo a criticare quel cattivo ‹buon design› e le disuguaglianze nascoste nelle pratiche creative e progettuali contemporanee.
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Indice:
Editoriale
di Giovanni Tateo
Hackerare l’algoritmo
di Iyo Bisseck
Note dall’Iraq
di Karim Sultan
BDSM ≠ Fashion Design
di Sofia Torre
Rigenerare la moda
di Viola Stancati
Data Science Co-op
di Susan Calvin
Cut-up
di Ilaria Grasso Ubaldo Ciccione Francesca Corno
Migrante
di Mubanga Kalimamukwento
Design in numeri (infografiche)
Player2: gaming e design
di Matteo Lupetti
Complementi
di Rémy Ngamije
Eternamente 13
di Salvatore Iaconesi
Ubuntu
di Mugendi K. M'Rithaa
Il design diluito
di Silvio Lorusso
Architettura radicale
di Ross K. Elfline
A for Anything
di Benedetta Crippa
Entreprecariat
di Silvio Lorusso
Lea Cáceres
di Giovanna Maroccolo
Kulture Room
di Daniele Ferriero Marco Petrelli Marianna Rossi Danilo K. Kaddouri Marcello Torre
Indice Episodi online (su menelique.com):
Design nel postcapitalismo
di Marco Petroni
Scenografie politiche
di Parasite 2.0
Il design dell’illusione
di Alessandro Longo
Il modello mediterraneo
di Alex Giordano
L’eredità coloniale nel design (da Decolonising Design)
di Ksenija Berk